A cinquant'anni dalla morte di Stalin

«Eliminò la barbarie con metodi barbarici»

Intervista alla storico Luciano Canfora

Luciano Canfora, ordinario di Filologia greca e latina presso l'Università di Bari, è anche uno dei più autorevoli storici dell'età moderna ed ha pubblicati numerosi testi su tematiche relative alla politica e alla cultura del XX° secolo. Il 50° anniversario della morte di Stalin è un'occasione importante per conoscere il suo parere su un personaggio inquietante da un lato per i gravi crimini commessi durante la sua permanenza al potere dell'Urss, ma che per lunghi decenni è stato anche un punto di riferimento per milioni di lavoratori nel mondo.

Professor Canfora, in questi giorni i giornali sono pieni di articoli sul leader sovietico scomparso mezzo secolo fa. Il quotidiano francese Le monde gli ha dedicato un dossier di ben 26 pagine. Il tema che, inevitabilmente, ricorre con maggiore frequenza riguarda la dura repressione che caratterizzò la sua gestione del potere. Un elemento innegabile, ma con tutta probabilità solo un aspetto di una tematica più complessa. Che cosa ne pensa?

Lei sa che il suo principale antagonista, cioè Trotskj, ebbe modo di dire una volta che «per noi bolscevichi non c'è il culto del rispetto della vita umana». Naturalmente questa frase, presa di per sé, può sembrare agghiacciante, ma va considerata nel contesto storico in cui si situa. Se si considera che questi uomini, ovvero tutto il gruppo dirigente bolscevico, Stalin compreso, si sono formati e sono emersi alla guida di un grande movimento rivoluzionario combattivo nel fuoco della Prima guerra mondiale, cioè del più grande massacro che fino a quel momento la borghesia avesse mai creato per il suo cinico disegno di potere e di lotta imperialistica, si capisce che quella frase, per ritorsione polemica, ha un senso. E naturalmente giudicare con il codice penale l'opera di rivoluzionari, da Cromwell che fa tagliare la testa a Carlo I a Robespierre che mette in atto "il periodo del terrore", è completamente sbagliato. Il problema è di sapere da che parte uno si pone. Se si ritiene che tutta quella vicenda, ovvero tentare l'instaurazione violenta di una società più giusta dopo i disastri compiuti dalla borghesia nella carneficina della Prima guerra mondiale, fosse un'impresa da perseguirsi o no. E' questa la domanda. Poi naturalmente nel concreto, nell'azione di governo, può succedere che il conflitto determini una catena infinita di violenze, ritorsioni, sospetti, stato poliziesco, processi, condanne e via dicendo. Questo non per giustificare tutto ma per dire che anche le cose più crudeli, che certamente non ci piacciono affatto, non vanno giudicate in astratto, ma sempre in relazione a quello che stava succedendo.

Resta il fatto che la sinistra occidentale tutta, socialista e in particolare comunista, ha fatto riferimento per troppo tempo a Mosca e a Stalin, ovvero ad una realtà politica e sociale molto diversa dalla nostra che non poteva certo rappresentare un modello...

Io credo che sia troppo sommario parlare in generale nei termini in cui un po' tutti parliamo: crimini, il mondo occidentale, quello orientale. Stiamo attenti. Dice uno storico nostro contemporaneo che si chiama Domenica Losurdo - e sui temi che ha affrontato anche Paolo Mieli gli ha dato ragione - che quando si parla di crimini dello stalinismo e di crimini del nazismo, si dimentica il terzo soggetto. E cioè i crimini del liberalismo. Perché non è affatto vero che poi in questo parte del mondo tutto è andato dolcemente, tra elezioni parlamentari e conflitti affrontati civilmente. Sono balle, perché l'occidente liberale ha perpetrato crimini inauditi ai quattro angoli del pianeta. La schiavitù, per esempio, fu abrogata da Robespierre invano, perché poco dopo venne ripristinata da Napoleone. Il grande Robespierre, sempre esecrato per la famosa ghigliottina, è quello che liberò gli schiavi nel febbraio del 1794. E poi venne di nuovo abrogata dalla camera francese soltanto nel 1848 ma la tratta poi è continuata tranquillamente. E negli Stati Uniti nel frattempo venivano massacrati gli indiani d'America. Questi sono "olocausti" ed in questi mesi è uscito negli Stati Uniti un libro importante che si chiama "Olocausto americano". Naturalmente a questo punto non si può assumere l'atteggiamento olimpico di dire che "nella storia ci sono questi detriti". Si deve dire concretamente che tutti e tre questi modelli sono stati criminogeni e i crimini che ha compiuto l'occidente nel suo insieme, scatenando, ripeto, i quattro anni di massacri della Prima guerra mondiale, sono stati inauditi e sono nati nel cuore della civile Europa. Se non si fa questa operazione si cade nel ridicolo storiografico. Fermo restando poi un punto: che il giudizio più efficace che è stato dato su Stalin è di un trotskjsta importante culturalmente che si chiama Isaac Deutschter, che ha scritto una bellissima biografia sul leader sovietico. Deutschter conclude con questo concetto: «Ha cacciato la barbarie dal suo paese con mezzi barbarici». E questo credo sia il giudizio severo ma equo di un avversario che aveva sale nella testa.

Ormai i più accomunano stalinismo e nazismo come i grandi totalitarismi del ventesimo secolo. Qual è la sua opinione a riguardo?

Queste cose le dicono le persone ignoranti e per una ragione molto semplice: che il nucleo, il fondamento del nazismo è la nozione di razza mentre nel comunismo staliniano c'è una idea durissima del conflitto di classe. Il nemico di classe non ha nessuna garanzia e può essere liquidato in tutti i modi. Si può essere d'accordo o no, ma non ha niente a che fare con la biologia animalesca del nazismo. Le persone ignoranti, specie se sono anche in mala fede, confondono i due fenomeni.

Insisto ancora sui rapporti tra sinistra occidentale e Stalin. Non crede che si sia tardato troppo, soprattutto da parte dei comunisti, a prendere le distanze da una realtà dove appunto, come ha detto lei, "il nemico di classe non ha nessuna garanzia"?

Secondo me no. Anche perché la presa di distanza più importante è l'intervista di Togliatti a Nuovi Argomenti nel 1956, in cui disse che non è questione di elencare i cosiddetti crimini di Stalin ma di dire che è in discussione il modello e vediamo in che misura lo è. Il periodo di otto anni, che va appunto da questa intervista al Memoriale di Yalta del 1964, sono un periodo cruciale nella storia del comunismo italiano in cui attraverso la stessa riflessione di Togliatti, cioè di un uomo che è stato un leader della Terza Internazionale, viene fuori che ci sono problemi ormai strutturali da affrontare con chiarezza perché evidentemente il modello non ha funzionato del tutto. Quindi non è vero che tardi se ne sono accorti. Ma poi va detta un'altra cosa: e cioè che quando si producono fenomeni di quella entità, quale sono stati alla fine del settecento la Rivoluzione francese e all'inizio del novecento quella sovietica, e intorno a questi fenomeni si sviluppa un movimento internazionale di adesione, come è successo in tutte e due i casi, è ridicolo pretendere che al primo campanello d'allarme di quello che sta accadendo, dell'involuzione che si sta sviluppando, i tuoi sostenitori affiliati nel mondo ti abbandonino e prendano il largo. Non succede perché sarebbero dei pazzi irresponsabili. Anche i giacobini italiani sono stati delusi dalla rivoluzione e da come Napoleone l'ha realizzata, dal trattato di Campoformio fino alla trasformazione della Repubblica in Impero nel 1805. Però prima di mollare e cadere in braccio alle grandi potenze della coalizione ci corre.

Purtroppo però di quel modello ora restano solo macerie. Per quale motivo è fallita l'esperienza sovietica?

Quella rivoluzione è stato un grandioso tentativo di liberare l'umanità e non a caso è scoppiata nel corso della Prima guerra mondiale. Ma la realtà si è dimostrata molto più restia ad essere manipolata da un punto di vista ideologico come era quello dei bolscevichi e le dure repliche della storia ci hanno messi, come siamo attualmente, in una posizione perdente. Anche Spartaco cercò di ribellarsi e creare un ordine diverso nell'Impero Romano, durò tre anni e poi morì. Fu massacrato e i suoi uomini crocifissi lungo la via Appia. Nel caso dell'Urss, quell'esperienza è durata settant'anni, che nel corso della storia umana sono niente, paragonabili ai tre anni di Spartaco. Come disse Nenni il 6 marzo del '53 commemorando Stalin alla Camera: «Il succo dell'esperienza staliniana è stato di tentare di impedire che la rivoluzione russa facesse la stessa fine di quella francese. Cioè di essere sconfitta dopo pochi anni». Poi le cose non sono andate così e anche quell'esperienza ha fatto la fine di quella francese. Questa ad alcuni fa piacere, ad altri come me no, però ci deve indurre a riflettere sul fatto che le strade della libertà sono ancora lunghissime.

Vittorio Bonanni
Roma, 5 marzo 2003
da "Liberazione"