A cinquant'anni dalla morte di Stalin

La democrazia come spartiacque

Il sistema stalinista: un modello repressivo

A cinquant'anni dalla morte di Stalin ci si potrebbe attendere una maggiore obiettività, o un qualche distacco nel giudicare un personaggio che pure è stato oggetto di una critica radicale da parte degli stessi dirigenti sovietici - si pensi al famoso rapporto “segreto” di Krusciov - e che ha segnato, soprattutto negli anni Trenta, il periodo più aspro e totalitario dello Stato dei soviet.

Riscrivere la storia?

Si ha invece l’impressione che, sulla scia della direttiva berlusconiana di “riscrivere” la storia a suo uso e consumo (così come si cerca di riscrivere e manipolare le vicende giudiziarie in cui compaiono come imputati il presidente del Consiglio e numerosi suoi accoliti) si tenda a uscire da una analisi pur severa per falsificare nel modo più clamoroso la realtà dei fatti.

Tipico di questa tendenza è l’esaltazione acritica degli Stati Uniti come artefici di tutto ciò che di positivo ha segnato la storia dell’ultimo secolo. È lo stesso Berlusconi a sostenere che l’America del suo “amico” Bush merita tutto il nostro appoggio perché è la diretta erede di quell’America che, praticamente da sola, e a prezzo di grandi sacrifici ed eroismi, sconfisse il nazismo e liberò l’Europa. Senza nulla togliere al ruolo degli Usa nella seconda guerra mondiale, resta il fatto che il Paese che dette il contributo più alto alla disfatta delle armate e del regime di Hitler fu in realtà l’Unione Sovietica. La resistenza all’invasione tedesca (e italiana) costò la vita a ventisette milioni di sovietici. Il peso di questo tributo alla vittoria fu riconosciuto da uomini come Roosevelt e Churchill. Se il Cavaliere amasse le buone letture, gli consiglieremmo il bel libro di Harrison Salisbury, celebre direttore del New York Times, intitolato i novecento giorni di Leningrado. Esso racconta i tre anni di assedio tedesco e l’incredibile resistenza della grande città russa, i combattimenti strada per strada, casa per casa, i ragazzini che prendono il posto dei genitori uccisi, più di un milione di morti. Con la rotta delle truppe di Von Paulus a Stalingrado, la vittoria di Leningrado costituì un punto di svolta dell’intera guerra mondiale. Poi vi fu l’avanzata dell’armata rossa nell’Europa centrale, la liberazione della Germania e, quasi simbolicamente, l’ingresso a Berlino.

Lenin e la NEP.

Da molte parti, anche fra i leader e i commentatori occidentali, si è affermato che senza lo sforzo del regime di Stalin per modernizzare il Paese, per accelerare e forzare l’industrializzazione anche ricorrendo a una dura repressione di altri settori della società sovietica (si pensi alla persecuzione dei kulaki) lo Stato sorto dalla rivoluzione del ‘17 non sarebbe potuto sopravvivere e tanto meno respingere l’invasione nazista. Persino I’ex ambasciatore a Mosca Sergio Romano, noto per il suo anticomunismo, ha dichiarato: «In Russia si è grandi solo se si è grandi modernizzatori. Anche Stalin è stato un grand’uomo per questo, nonostante i suoi crimini».

Eppure è proprio a cominciare da questo punto che è necessario mettere in discussione, a mio avviso, tutto l’operato di Stalin. Come è noto, subito dopo l’ottobre del ‘17 Lenin aveva previsto una trasformazione in senso socialista solo se la rivoluzione si fosse affermata in Germania, ovvero in paesi di capitalismo avanzato. Ma essendo falliti i tentativi di sommovimento in tali paesi, con il realismo che gli era proprio Lenin decise di avviare nel 1921 la Nuova politica economica (Nep), che, in effetti, reintroduceva il mercato e, secondo le sue stesse parole, costituiva una ritirata dal comunismo di guerra al “capitalismo di Stato”. I moderati - nota Hobsbawm nel suo aureo Secolo breve - «erano in favore di una trasformazione graduale. Lenin non poté adeguatamente esprimere le proprie idee dopo la paralisi che lo colpì nel 1922 - egli sopravvisse solo fino ai primi mesi del 1924 -, ma quando poté far conoscere il proprio punto di vista sembra che si sia dichiarato in favore di una trasformazione graduale».

L'industrializzazione forzata fu necessaria?

Rimasto solo al potere dopo l’emarginazione e successivamente la liquidazione dei suoi concorrenti (in primo luogo Trotzski e Bucharin), Stalin abbandonò rapidamente la Nep, abbracciò la teoria del socialismo in un solo paese e scelse una “modernizzazione” intesa come industrializzazione forzata, cioè attraverso una via di coercizione spesso spietata e comunque imposta dall’alto. Con un metodo esattamente opposto a quello che aveva caratterizzato la rivoluzione di pochi anni prima, fondata su un grande movimento dal basso. Ma era necessaria e inevitabile una modernizzazione fondata sulla negazione di ogni democrazia? Come abbiamo visto nei decenni successivi, essa ha significato lo stravolgimento e infine l’estinzione di qualsiasi forma di socialismo. Quello che veniva definito “socialismo reale” (fra l’altro in polemica con i comunisti italiani) non si è spento per una esplosione contraria, ma per una implosione. Un punto vorrei che fosse chiaro: credo che la via di una accelerazione e quindi di una “forzatura” della industrializzazione e modernizzazione fosse assolutamente necessaria per la sopravvivenza stessa del processo rivoluzionario e per battere il nazifascismo. Ma una tale scelta poteva avere successo solo facendo leva sulla democrazia integrale, sulla partecipazione diretta e convinta, sull’autogoverno dei lavoratori e di tutti i cittadini.

La democrazia il vero spartiacque.

La democrazia: ecco il vero spartiacque. Stalin ha imboccato la via opposta e, per quanto fosse un «grand’uomo» per dirla con Sergio Romano, la sua era una via destinata al fallimento.

Su questo spartiacque, d’altra parte, ha avuto inizio lontano nel tempo ed è via via maturata la “diversità” dei comunisti italiani. Vorrei rifarmi a una testimonianza personale. Essa è legata al ricordo di Ernst Fischer, intellettuale affascinante e figura di primo piano del partito comunista austriaco. Questo partito lo espulse in occasione dell’invasione di Praga, avendo egli preso una posizione di netta condanna, analoga a quella del Pci. Pochi giorni dopo egli giunse a Torino per una iniziativa culturale, ed Enrico Berlinguer mi telefonò chiedendomi di incontrarlo per uno scambio di idee. Fischer mi ricordò i tempi di Mosca, e gli incontri con Togliatti all’Hotel Lux, dove risiedevano i dirigenti stranieri del Comintern. Al compagno italiano, conoscendone i sentimenti, Fischer manifestò spesso la sua amarezza per il clima di sospetto e le ufficiali misure coercitive che venivano prese anche in quell’ambiente. E Togliatti condivideva l’amarezza. Lavorava per andare al più presto in Spagna alla guerra contro Franco, e per farvi inviare altri compagni per metterli al sicuro da eventuali persecuzioni. Ma una cosa deve essere chiara - precisava. Quando torneremo nei nostri rispettivi Paesi finalmente liberati, dovremo far valere un principio sopra ogni altro: non c’è e non ci potrà essere socialismo senza democrazia politica.

E Fischer commentava: sono sempre rimasto ammirato per la coerenza e l’inflessibilità con cui Togliatti, i suoi successori e tutto il partito italiano sono rimasti fedeli a questo principio, dalla Resistenza alla Costituzione, alla difesa della democrazia e del pluralismo, rifiutando ogni ricorso alla violenza e salvaguardando le libertà democratiche da ogni intrigo o attentato.

Adalberto Minucci
Roma, 7 marzo 2003
da "Avvenimenti"