Il 27 aprile del 1937 moriva uno dei protagonisti del Novecento

Gramsci, grammatica di futuro

Come e che cosa ci interessa oggi nello straordinario lascito del grande pensatore sardo? Una attualizzazione tutta politica, che si fonda sul rigoroso rispetto dei testi

Antonio GramsciGhilarza è un paese di cinquemila anime, o giù di lì, dall'apparenza dolce e un po' senza tempo. A prima vista, s'incontrano file di casette basse e colorate, stradine tortuose, giardini e orti - scarseggiano, se dio vuole, negozi rutilanti e tabelloni pubblicitari. Qui, quasi nel centro geometrico della Sardegna, tra le province di Oristano e di Nuoro, Antonio Gramsci visse una buona parte della sua prima giovinezza, fu scolaro modello (una licenza elementare con tutti "Dieci"), apprese, insomma, i rudimenti essenziale dell'arte del vivere e del pensare. La casa dove avvenne questo normale eppur specialissimo apprendistato è oggi il principale "monumento" cittadino. Ben ristrutturata dal Comune, animata da un gruppo di giovani appassionati ed efficienti, la si visita con un brivido d'emozione. Non c'è nulla di solenne o di retorico, per fortuna, c'è solo il piacere di una memoria intensa, freschissima.

E proprio qui Rifondazione comunista ha tenuto un proprio impegnativo convegno nazionale: «Rileggere Gramsci nell'era della globalizzazione». La semplicità della formula non tragga in inganno: il tema, anzi la sfida era della massima ambizione. Per un partito politico - non un'associazione di ricerca o un circolo di studiosi - che si declina comunista, a secolo XXI già iniziato, il rapporto con i propri "classici" implica un impegno almeno duplice: quello del rigore intellettuale, perfino filologico, e della capacità di una storicizzazione nonrituale, e quello del senso politico, del valore nel e per il presente, insomma della "traducibilità" di un corpus straordinario di pensiero nelle contraddizioni del mondo che cambia. Su questo «doppio binario», come ha detto Scipione Semeraro, responsabile culturale del Prc, alcuni preziosi "specialisti" - docenti universitari, storici, filosofi - si sono riuniti insieme a dirigenti politici, amministratori, esponenti del movimento, militanti di partito. Una giornata intera, domenica scorsa, nella cornice così propria e così ospitale di Ghilarza.

Il risultato - lo si può dire senza trionfalismi di maniera - è stato intanto quello di un evento politico e culturale di prima grandezza. Il salone dell'Auditorium comunale ghilarzese si è riempito, fin dalla mattinata, di un pubblico numerosissimo, attento, curioso. Un pubblico per larghi tratti giovane - ragazze e ragazzi che prendevano appunti senza stancarsi, man mano che scorrevano le ore e gli interventi - che aveva colto, a pieno, la natura non accademica, non celebrativa, non propagandistica, ma tutta politica, del convegno. Non è certo scontato, e men che mai così frequente, un risultato di così intensa partecipazione: esso, già in sè, dà la misura della validità di una scelta, e della direzione della ricerca.

Ma qual è stato, nel merito, il senso di questa discussione e di questo serrato confronto? Quasi impossibile sintetizzarne davvero la ricchezza, nello spazio di poche righe. Alla domanda implicita nello stesso titolo del convegno, "ha ancora da parlarci, Antonio Gramsci, per il nostro far politica nel presente? ", la risposta è positiva. Semeraro può trarre, alla fine, un buon bilancio, politico e teorico. Certo, nessuno è in grado (ma neppure si propone) di sciorinare certezze, paradigmi compiuti o, peggio, una "manualistica" aggiornata per l'azione: piuttosto, argomenta il dirigente di Rifondazione, dal convegno emerge a sia un percorso che un asse del lavoro da compiere, la scrittura di una "nuova grammatica" della politica della trasformazione. Un work in progress che non può che essere, gramscianamente, collettivo, sia nel "come" sia nel "che cosa".

Il Gramsci "non" di tutti, ma filologico

Il "come", prima di tutto, e non in omaggio alla priorità delle metodologia. Nella storia del movimento comunista e del Pci, di Gramsci è stato fatto non solo un uso, ma un abuso più che strumentale, fino alla manipolazione: di volta di volta, il grande sardo è stato ridotto ad essere il padre di ogni politica di unità nazionale, del compromesso storico, della "guerra di posizione" intesa come mero ripiegamento strategico, e di mille altri moderatismi tattici. Perfino oggi, in un'epoca in cui nella sinistra moderata l'interesse gramsciano è quasi caduto a zero, Gramsci viene fatto oggetto di singolari mistificazioni: si accentua oltre misura la critica, che certo in lui fu presente, dell'esperienza sovietica e del leninismo, o si arriva a rappresentarlo come un liberale, anzi come un precursore del pensiero "liberal-democratico". A queste forzature, antiche e contemporanee, è bene replicare con la serietà (gramsciana) della "filologia vivente", come ha detto Raoul Mordenti: i testi vanno letti, cioè riletti, «col massimo scrupolo di esattezza e di onestà scientifica», restando ben consapevoli che il mondo in cui Gramsci si mosse resta abissalmente diverso dal nostro. O con la «passione politica» di cui ha parlato Imma Barbarossa, che nell'autore dei Quaderni dal carcere si propone di cercare «un'altra possibile strada che il movimento comunista poteva percorrere e non ha percorso», ennesima riprova che ha torto marcio la vulgata crociana sulla storia che non tollera i "se". O ancora e soprattutto, privilegiando, come ha fatto Giuseppe Prestipino, quelle «categorie (quasi idealtipiche) di portata filosofico-politica più generale o universale: categorie che in Gramsci procedono da vere «ricognizioni storiche», anche particolari - cesarismo, riforma, rinascimento, giacobinismo, americanismo - e che rendono mondiale quel che appare, e per un certo verso è, un fatto italiano. E' il tema - ricorrente nel convegno e ripreso, tra gli altri, da Domenico Jervolino - della traducibilità di Gramsci dal particolare al generale, e viceversa. Insomma, sempre con Prestipino: non ha gran senso chiedersi «che cosa direbbe oggi Gramsci», per esempio sulla globalizzazione o sulla guerra infinita; nè vale molto la pena di cercarvi, magari con forzature opposte e simmetriche a quelle operate dal moderatismo del Pci e dei Ds, chissà quali "anticipazioni" sui problemi contemporanei. Ha senso, invece, interrogarsi su come sviluppare i metodi e i temi posti da Gramsci alla luce della realtà odierna. In particolare, su quattro "oggetti" di ricerca: l'intellettuale-massa del presente, "nel lavoro, nell'informazione e nelle funzioni di egemonia"; l'egemonia degli Usa e la loro crisi; l'eventuale "trasformismo degli avversari", fuori dalla categoria di rivoluzione passiva; ovvero, al contrario l'esistenza di un processo di "rivoluzione passiva involontaria", subita in parte dagli stessi ceti dominanti.

Il marxismo critico e il soggetto complesso

Se poi si decide di inoltrarsi nel merito - diciamola così, un po' schematicamente - del pensiero gramsciano, si incontra l'organica ricostruzione di Pasquale Voza: per il quale il grande leader del Pci è stato il più significativo esponente del «marxismo critico» del secolo scorso. Un pensiero che ha la forza di opporsi tanto all'hegelismo "addomesticato" di Benedetto Croce quanto alla "gabbia d'acciaio moderna" fissata dalla riflessione di Maw Weber, «cioè della trama formidabile degli specialismi e degli apparati istituzionali». In questa capacità di risposta sia all'idealismo sia al funzionalismo, si colloca quel «primato della politica», a sua volta irriducibile all'autonomia borghese del Politico ma capace di interrogare gli specialismi. Non è la sola, possibile attualizzazione di categorie a tutt'oggi produttive di senso forte - come egemonia, rivoluzione passiva, intellettuale collettivo. Quando affronta la questione dello Stato, per esempio, Voza usa un'espressione - «oggi c'è un'egemonia capitalistica senza Stato, senza cioè l'attiva mediazione sociale e culturale dello Stato-nazione», che produce la vivace reazione polemica di Livio Maitan. Il quale, poi, propone un Gramsci fortemente storicizzato, erede diretto del leninismo, non affatto fondatore, come non fu, del Pci, ma autore di un testo-chiave come le "Tesi di Lione" e di una riflessione di valore cruciale sulla questione meridionale.

la discussione, come si capisce, accumula elementi, apre "finestre" non secondarie (come l'Europa vista da Gramsci, tema sul quale si sofferma Giorgio Baratta, autore dello splendido film-documentario con Dario Fo e Franca Rame che ha animato l'inizio del convegno), dedica uno spazio di grande interesse ai temi del "sardismo", al centro degli interventi di Francesco Carta, segretario del Prc di Nuoro, del consigliere regionale del Prc, Luigi Cogodi, di Paolo Pisu. Offre una prima mappatura della fortuna di Gramsci nel mondo - oggi massima in Brasile e in America Latina -nella ricerca di Elisabetta Gallo. Poi si concentra su una "questione ricca", quale la antropologia filosofica gramsciana, al centro di un bel libro di Fabio Frosini. La propone Raoul Mordenti, allorchè offre al convegno il tema della «soggettività complessa»: che è poi quello che sta di fronte a tutta la riflessione filosofica culturale più avanzata del nostro tempo, ma che in Gramsci ha radici teoriche tanto robuste quanto politicamente feconde. In Gramsci, dice Mordenti, il soggetto è «eminentemente collettivo, mai individuale»; ma, sopratuttto, «non è dato, si deve costruire. dunque auto-costruire». Non è unicamente determinato dal punto di vista dell'identità, «e la sua identità non è univoca, bensì plurivoca». Una complessità, nel pensiero gramsciano, che in fondo è stata "rivelata" da studiosi come John Hollaway, o come Edward Said. Che appare, come osserva Dado Morandi, in singolare sintonia con la rivoluzione epistemologica, appunto, della complessità, quella per la quale gli oggetti e i soggetti non solo sono interdipedenti, ma "aggregabili" su livelli differenti di identità e conoscenza. Tocca ad Anubi D'Avossa ed a Elettra Deiana sviluppare politicamente la discussione: il primo è il solo che parla di Gramsci come rivoluzionario sconfitto (e se poi fosse proprio questa una delle ragioni di fondo del nostro interesse?), come pensatore capace di una riflessione ("carceraria") forzosamente staccata dalla contingenza politica. E infatti lo accosta ad un altro grande filosofo del '900, anch'esso vittima di uno scacco esistenziale e politico, Walter Benjamin. La seconda, a proposito della costituzione del soggetto complesso, si sofferma sulla connessione - attualissima - tra senso comune, traducibilità dei linguaggi, sedimentazione dell'egemonia. La nascita del movimento no global, la sua capacità di incrinare l'egemonia del pensiero unico neoliberista, rovesciando la vulgata diffusa della "fine della storia", è un esempio significativo di questa modalità. Qui, "naturalmente" portati per mano da Antonio Gramsci, siamo proprio arrivati agli interrogativi rivoluzionari dei nostri giorni.

Rina Gagliardi
Roma, 30 aprile 2003
da "Liberazione"