Direzione Nazionale di Rifondazione Comunista

La scommessa di Bertinotti: «Ora il confronto si fa tra molti»

Roma - 17 giugno 2003

E' una discussione vera, difficile quella della Direzione nazionale del Prc il giorno dopo la sconfitta referendaria. Alla fine saranno tre i documenti presentati al voto - quello di Bertinotti, quello di Grassi e di altri membri della direzione, fra cui il nostro direttore Sandro Curzi e quello di Ferrando - che insieme ad alcune astensioni e dichiarazioni di voto mostreranno una differenziazione di posizioni che tuttavia interloquiscono fra loro. Alla fine la proposta del segretario ottiene la maggioranza, con 21 voti a favore, 11 astenuti e cinque contrari.

Un'operazione «complessa»

E' lo stesso Bertinotti a proporre il tema della ricerca aperta. Lo fa nell'introduzione, riproponendo la chiave interpretativa già avanzata il giorno precedente - «abbiamo perso, dobbiamo indagare a fondo il perché, ma non dobbiamo disperdere il risultato del referendum sia in direzione degli 11milioni di Sì, sia nel tentativo, tutto da verificare, di un confronto programmatico con il centrosinistra per un accordo di governo - lo ribadisce nella replica, particolarmente densa, in cui propone di «cambiare gioco e di ribadire l'immersione nelle lotte e nel movimento per provare a realizzare un'operazione complessa: non già un dialogo o una trattativa tra Prc e centrosinistra, ma un confronto tra molti - il centrosinistra, Rifondazione, i movimenti, i soggetti referendari - su questioni di contenuto a cominciare da quelle poste dal referendum». Il senso del discorso bertinottiano è sottile: recuperando tutta la centralità dell'azione di movimento e delle lotte come antidoto alla «sconfitta sociale drammatica» segnata dal referendum, Bertinotti propone un percorso che collocandosi «in sintonia con la psicologia di massa, quella che chiede unità e radicalità» recuperi il deposito del referendum in un percorso contenutistico di confronto a tutto campo. In questo percorso ci stanno le forze di movimento, ma anche le leadership del centrosinistra «così come avveniva il 15 febbraio: abbiamo manifestato con chi ha fatto la guerra in Afghanistan, ma nessuno è andato da quelli a chiederne il conto». E' quindi, per questa via, che si può recuperare la sconfitta, provare a saldare il «sociale con il politico» evitando due rischi speculari: «quello di rifugiarsi nel politicismo per approdare semplicemente a una sinistra del centrosinistra; e quello che in nome del gesto esemplare ha come conseguenza il rifiuto della politica».

Ecco che quindi, lungi da una «crescita lineare su se stesso» il Prc può avanzare se connette le due dimensioni in «un'operazione complessa di grande respiro, di massa, in cui trova senso la nozione di sinistra alternativa».

L'opposizione interna

A contestare l'analisi bertinottiana, e la sua proposta politica, è l'opposizione interna che nel contrastare la relazione arriva a proporre un congresso straordinario «perché la linea è cambiata» (Bertinotti respingerà la richiesta, ma condividerà la necessità di una consultazione effettiva nel partito). Marco Ferrando svolge un ragionamento serrato sulla necessità di dare una «prospettiva a quegli 11milioni di voti» sapendo che il referendum ha prodotto «uno spartiacque tra le classi e la loro rappresentazione politica». Sta qui, dice Ferrando, «la crisi di Cofferati» nell'impossibilità di «conciliare il centro liberale dell'Ulivo e i movimenti» e quindi più che un'interlocuzione con il centrosinistra, l'obiettivo è costruire «un polo autonomo, di classe, anticapitalista che possa proporsi come alternativa a Berlusconi». Sulla stessa lunghezza d'onda Anna Ceprano, che chiede di «smettere di considerare il movimento come bussola» e che indica come priorità anche l'abrogazione di leggi del centrosinistra come «il pacchetto Treu», e Claudio Bellotti che però si asterrà sul documento Ferrando giudicato «inadeguato a rispondere alla domanda che c'è tra i compagni dei circoli».

Una terza posizione

A contestare l'analisi, ma soprattutto le prospettive politiche è Claudio Grassi, il quale non è soddisfatto dell'ammissione della sconfitta. «Non basta dire abbiamo perso, occorre capire sul serio cosa è successo, capire chi sono quegli 11 milioni, se cioè abbiamo intercettato un voto politico o un voto sociale». Nel succo del ragionamento di Grassi, firmatario del documento che raccoglierà 11 voti (che però si asterranno sul documento di maggioranza) c'è al fondo, come rileva lo stesso Bertinotti, una critica alla centralità finora data dal Prc ai movimenti dal quale, spiega, «non abbiamo preso voti». «Non solo, ma i voti li abbiamo persi ogni volta che siamo andati da soli».

La critica viene ripresa anche da Fausto Sorini, firmatario dello stesso documento, che punta il dito contro «l'enfasi messa sulla radicalità dei movimenti» chiedendosi «cosa abbiamo intercettato dopo tre anni di lotte». Un problema, dice Sorini, «di tutte le forze alternative europee». Ed è da questa impostazione che Bruno Casati indica le «ragioni interne della sconfitta» accusando l'attuale gestione del partito anche di non mettere «il lavoro al centro della riflessione» e attaccando la disobbedienza «come profilo insufficiente per definire il volto del partito». Ma a firmare il documento Grassi è anche il direttore di Liberazione, Sandro Curzi che per la prima volta si schiera nel dibattito interno. Curzi muove dalla vicenda del Corriere della Sera per spiegare che la sua posizione «non è un'ossessione antiberlusconiana» ma che se accanto alle lotte sociali non si rappresenta anche la «lotta democratica» non si vince: «Per questo ho partecipato alla manifestazione dei girotondi e ho avuto divergenze sul giudizio dato a suo tempo sulla Cgil di Cofferati». Ed è sempre Curzi a esplicitare il dissenso dei firmatari del terzo documento sull'avvio del confronto con il centrosinistra: «E' stato improvviso», dice, mentre sarebbe servita «più riflessione».

La centralità del movimento

Il punto che comunque si snoda maggiormente nella riflessione collettiva è l'analisi del movimento che, come dice polemicamente Milziade Caprili, rischia di apparire «il vero imputato di questa discussione». E invece, rileva, serve «continuità nell'analisi e nei comportamenti». Ad esempio, evitando nelle elezioni amministrative «di candidare solo segretari di partito» in un'idea autosufficiente del partito stesso. E a chi dice che il movimento è in crisi Nicola Fratoianni, coordinatore dei Giovani comunisti, risponde che il «movimento è strutturale, si inabissa e riemerge e comunque non delega i partiti». Quanto al rapporto con il centrosinistra, Fratoianni avverte da un confronto che scivoli sopra il tema delle forme della rappresentanza». Anche Gennaro Migliore, sulla stessa falsariga, argomenta che «il referendum ha mostrato una domanda di alternativa che ora va raccolta» chiedendo poi che il rapporto con il centrosinistra venga «precisato»: «Non può vivere uno schema in cui il Prc diventa il viatico del rapporto tra movimenti e Ulivo. La bussola deve essere la piattaforma e le forme di lotta e giudicare il partito dal suo "saper fare"».

Più esplicita Flavia D'Angeli che, ricordando che senza il movimento «il referendum non sarebbe stato nemmeno possibile, dice chiaramente di non condividere «la direzione di marcia che punta all'accordo programmatico con il centrosinistra» e chiede di invertire le priorità: «la nostra emergenza è qualificare l'opposizione sociale. Obiettivi di lotta: la precarietà, i diritti dei migranti, le pensioni, il tutto in un'ottica europea».

Di precarietà come tema cruciale parla anche Giovanni Russo Spena, secondo il quale quella condizione disegna «una relazione sociale vera e propria» e dunque esprime un rapporto sociale. Sul centrosinistra, Russo Spena spiega che non si tratta di volerlo «riformare», ma di cogliere, anche nel rapporto con esso, la necessità di una sinistra alternativa «che è europea o non è».

Alcune osservazioni sul rapporto con il centrosinistra le pone anche Graziella Mascia: «E' vero che ora siamo in un sentiero di montagna e i Ds non potranno rimuovere il referendum». Occorre dunque «ripartire dalla sinistra alternativa che non è una formula organizzativa ma un'aggregazione politica su determinati obiettivi».

Ad esempio, come propone Erminia Emprin dando centralità al tema del welfare, del quale il movimento non ha ancora colto la dimensione statuale».

Dunque, come ribadisce Patrizia Sentinelli, non bisogna «liquidare il movimento senza il quale non saremmo come siamo». Sentinelli contesta anche l'idea che il movimento sia in crisi: «Sono in crisi le sue forme, i suoi obiettivi, ma l'onda lunga è ancora in piedi». Ed è appunto il movimento che può consentire quel rapporto con l'Ulivo che propone Bertinotti: «Non siamo noi che discutiamo con il centrosinistra ma, per fare un esempio, direttamente il Comitato per il Sì».

Il giudizio sul movimento chiama in causa il nodo del rapporto tra politico e sociale, di come queste due dimensioni entrino in relazione. «Il referendum ha provato a inscrivere la questione sociale nella politica - dice ancora Emprin - ma la fuga nell'autonomia del politico da parte del centrosinistra ha prodotto la sconfitta».

Seguendo questo ragionamento anche Franco Giordano mette l'accento sulla contesa egemonica irrisolta tra «i processi di americanizzazione da un lato e le istanze partecipative dei movimenti dall'altro. Contraddizione risolvibile a vantaggio delle seconde solo in «un percorso basato su obiettivi programmatici che siano "ponte" tra l'oggi e la prospettiva». Gigi Malabarba insiste invece sulla «negatività dei rapporti di forza sociali, sulle sconfitte accumulate dalla classe (metalmeccanici, Fiat, legge 30)». Il referendum è stato «lo strumento per invertire quella tendenza, per questo ha perso; ora serve uno strumento sociale per continuare quella battaglia, ma anche uno strumento politico che, ad esempio, sconfitta l'ipotesi del Partito del Lavoro, ne recepisca l'esigenza».

Sul referendum come «elemento identificativo di una nuova fase e non come l'ennesima sconfitta dei lavoratori» si sofferma anche Roberto Musacchio che invita a non cadere nel politicismo «di cui, ad esempio, è vittima il direttore del manifesto con il suo editoriale di oggi, ma anche Armando Cossutta».

Alfonso Gianni, rivendicando l'importanza di «aver costruito un fronte veramente ampio di associazioni e organizzazioni» sottolinea l'errore di aver creduto «che all'orientamento dei gruppi dirigenti corrispondesse automaticamente quello degli associati». Ma il referendum mantiene un aspetto positivo: «Delineare una discriminante di massa per una possibile alternativa».

Salvatore Cannavò
Roma, 17 giugno 2003
da "Liberazione"