Comitato Politico Nazionale di Rifondazione Comunista

Interventi H - M

Roma, 28 - 29 giugno 2003

Luigi Izzo (Federazione di Napoli)

Bertinotti ha avuto una felice intuizione nel rilanciare la questione dei diritti con l’estensione dell’art. 18 dopo la grande manifestazione del 23 marzo 2002. Si è trattato di fare un minimo di resistenza ad un governo che ha dimostrato di essere in grado di mettere in campo qualsiasi metodo pur di attaccare i diritti dei lavoratori. Se abbiamo perso non è stato solo per l’oscuramento dei media ma anche a causa dell’isolamento in cui siamo stati lasciati dal “movimento dei movimenti”, dal movimento per la pace, dalle associazioni, dal tradimento del cenrosinistra, dall’incertezza della stessa Cgil che ha aderito all’ultimo minuto e senza convinzione, tanto è vero che il suo è stato un si per le riforme. Tutto ciò ha ritardato il lancio della campagna referendaria ed è per questo che solo nelle ultime settimane ci si è mossi con grande impegno. Quindi, tutto il lavoro è ricaduto sulle spalle del nostro partito, sui nostri compagni dei circoli che hanno duramente lavorato e sono riusciti a portare 11 milioni di si. L’altra questione riguarda il fatto che il referendum sull’art.18 era materia difficile e ci siamo trovati in molte occasioni senza essere in grado di rispondere alle provocazioni e alle domande impertinenti che ci venivano poste. Oggi, bisogna ripartire dal referendum per rilanciare con più forza la questione dei diritti dei lavoratori, avviando una grande battaglia per la cancellazione della.223e del pacchetto Treu e dlla sciagurata Legge 30. Nonostante i risultati negativi, il partito si ostina a portare avanti la linea uscita dal V Congresso, dimostratasi fallimentare, visto come è finita l’alleanza con la sinistra plurale e di alternativa. Oggi si dà addirittura un’accelerata perpetuando gli errori del passato, aprendosi persino ad un rinnovato accordo politico-programmatico con l’Ulivo. Lo stesso Ulivo che ha tradito i lavoratori astenendosi sull’estensione dell’art.18, che ha fatto entrare l’Italia nell’Europa dei padroni e dei banchieri di Maastricht; della Finanziaria di “lacrime e sangue”; che ha portato a termine le più grandi privatizzazioni della storia del nostro Paese, più della Thatcher in Gran Bretagna; che ha fatto la 223, il pacchetto Treu e la 40/98, legge xenofoba e razzista. E’ ovvio che stavolta l’Ulivo non ci chiede solo un accordo tecnico o di desistenza ma si vuole assicurare la nostra fedeltà. Ci vogliono stringere in un abbraccio mortale, chiedendoci di abiurare le nostre origini.

Alessandro Leoni (Federazione Firenze)

Al di là di ogni altra considerazione è innegabile che in questo Cpn sia stato inserito un primo, importante, elemento di razionalità politica: la questione del rapporto fra Prc e “centro-sinistra” nel quadro della necessaria lotta per rovesciare l’attuale governo reazionario delle destre. Passaggio ineludibile che con altrettanta evidenza pone una serie di problemi, di questioni centrali per il presente e il futuro del Prc. Bisogna avere piena coscienza delle difficoltà di questo passaggio, il rischio della subalternità politico- programmatica è evidente già nel rapporto di forze esistenti, oltre che nella natura del centrosinistra che ha visto l’ulteriore, presente rafforzamento dell’egemonia dell’impostazione d’alemiana riassumibile nel quadro politico istituzionale dell’alternanza e non già dell’alternativa. Attivare, coinvolgere tutte le forze dello schieramento referendario, a questo punto, è viale oltre che necessario. Anche per limitare i danni subiti con il risultato referendario; la sconfitta, unanimemente riconosciuta, non deriva dal mancato raggiungimento del fatidico quorum, ma dall’essersi bloccati a poco più di un quarto dell’elettorato, ciò costituisce la vera critica non tanto al referendum in quanto tale, bensì come ci siamo giunti, senza un trasparente, pensato e costruito percorso unitario. Per cementare le convergenze ad oggi determinate e per accrescere il tasso di credibilità del nostro partito, evidentemente scarso come risulta dalle elezioni amministrative, necessita l’enucleazione di alcuni temi-proposte sulle quali misurare l’effettiva disponibilità dei nostri interlocutori: “legge sulla universale democratica rappresentanza sindacale dei lavoratori” assieme ad un “nuovo meccanismo elettorale teso al potenziamento della rappresentatività delle istituzioni elettive” devono costituire il quorum convalidante l’ipotesi d’incontro con il centrosinistra. Quanto all’“innovazione” nel-del partito ritengo di sottolineare che l’importanza del tema dovrebbe escludere ogni strumentalismo e ogni suggestione iperideologica; l’effettiva innovazione è sempre derivata dalla necessità di affrontare i concreti, materiali temi imposti dal divenire della lotta di classe.

Letizia Lindi

Occorre fare un bilancio delle ultime elezioni amministrative e del risultato referendario. Per quanto concerne le elezioni il dato che emerge è sicuramente la battuta d’arresto delle destre ed un forte sentimento antiberlusconiano che ha premiato il centro sinistra. Per quanto riguarda invece il dato referendario credo che l’analisi delle ragioni della sua sconfitta necessiti di una profonda riflessione. Nell’ultima direzione si è parlato di una mancanza di innovazione come una delle cause del fallimento del quesito referendario. Non si tratta qui di cadere nella vecchia e sterile polemica tra i cosiddetti “innovatori” e i “tradizionalisti”, in quanto ritengo che nessuno di noi sottovaluti l’importanza di una riflessione sulla forma partito. D’altra parte penso che la questione si risolverebbe semplicemente chiedendoci in che cosa consistano tali innovazioni e successivamente se ne potrebbe valutare l’effettiva validità, in caso contrario quello che abbiamo in mano sono soltanto delle “belle” parole che in alcun modo affrontano il vero problema. Per esaminare proficuamente il risultato referendario credo infatti imprescindibile partire dalla considerazione di 2 elementi: 1) di fronte ad una battaglia esplicitamente di classe non siamo riusciti a coinvolgere coloro che ne sono direttamente interessati, 2) il tentativo di costruire un embrione di sinistra alternativa, ( vedi i comitati del sì), ha subito un arresto. Il primo punto tocca direttamente la questione della frammentazione della classe lavoratrice nell’attuale sistema produttivo e la conseguente difficoltà nella sua ricomposizione. Il secondo punto invece pone all’ordine del giorno la rivitalizzazione di questi spezzoni della sinistra che costituiscono una ricchezza e una garanzia di autonomia nei confronti di un centro sinistra con il quale è necessario dialogare. In questo modo congiungeremo l’opposizione alle destre e l’esigenza di una nuova sinistra.

Ezio Locatelli Segretario regionale Lombardia

Nessuna rimozione delle ragioni di una battaglia persa, ma non si dica di un referendum mancato per uno sbaglio di partenza o perché, improvvidi, non si è fatto il conto con le alleanze. E’ un giudizio che muove da un’idea statica del confronto e della lotta politica, il cui unico risultato sarebbe di impedirci l’intervento nel campo delle contraddizioni, o scelte che fossero fuori dall’orientamento prevalente del centrosinistra. Inoltre, l’esito di una battaglia va considerato non solo nei suoi aspetti immediati, ma nei suoi possibili sviluppi, come accumulo di potenziale di cambiamento. C’è qualcuno che ragionevolmente può sostenere l’inutilità delle mobilitazioni per la pace per il fatto di non essere riusciti a evitare la guerra? Un po’ tutti abbiamo fatto riferimento ai 10 milioni e più di sì. In considerazione delle condizioni di forte avversità del pronunciamento, i SI dicono qualcosa di più di un voto, dicono di una disponibilità sociale per la quale avere una continuità di relazioni, di iniziative, di lotta. Il punto però è anche un altro. Come pensiamo di incidere sul piano politico, di comporre un’ambivalenza che c’è. Settori sociali ampi che hanno una disponibilità sui contenuti – pace, articolo 18, referendum – e che però sul piano della collocazione politico-elettorale rimangono attestati sulle posizioni del centrosinistra. Il segretario ha fatto una proposta che condivido, tutt’altro che un ritorno sui passi perduti, ma la scommessa di un processo e di un confronto politico che tenga in campo la forza inedita dei movimenti. Per quanto riguarda il Partito, è importante il convegno proposto per sollecitare il rinnovamento quale condizione del superamento dei nostri limiti di costruzione e di insediamento sociale.

Aldo Lombardi (Segretario federazione di La Spezia)

Il nostro dibattito mi è sembrato stanco e inadeguato di fronte alla stimolante relazione del compagno Bertinotti. 1) Io non mi sento un “pentito” del referendum. Anniamo perso? Mi sembra che in mezzo a noi prevalga una “cultura del vincere” che non ci può appartenere. I comunisti si battono, mettono tutte le loro forze, e il risultato è già questa lotta, se spinge in avanti la situazione, crea alleanze e condizioni nuove. Cò vale anche per le manifestazioni per la pace, per il lavoro, che pure non hanno impedito né la guerra, né attacchi sempre più pesanti ai lavoratori. 2) La questione Fiat, l’abbandono industriale, la precarizzazione del lavoro, la sua distruzione: la crisi è totale. Ma per contrastare efficacemente Berlusconi, questa Europa, la globalizzazione, è necessario un progetto che non può ridursi alle riflessioni dei nostri studiosi. 3) Il partito manca di un gruppo dirigente (se si esclude il compagno Bertinotti), non c’è rapporto tra dirigenti - chiusi nei Palazzi - e le federazioni. Quando una federazione come la nostra, fa da anni una vertenza contro i siti militari, e poi nessun nostro deputato mostra interesse, fa sentire la propria voce, non vince… bhé, allora proprio non ci stiamo. 4) C’è una questione di democrazia che riguarda il partito: la consultazione sui problemi di fondo (v. rapporto con l’Ulivo) non può essere quella dei vertici, ma deve investire tutto il partito 5) Essere con il movimento vuol dire esserci non nelle parole e nei convegni, ma nelle esperienze concrete, nelle lotte da far crescere ogni giorno.

Pietro Magra

Referendum: ritengo che non possiamo limitarci a registrare solo la sconfitta, è necessario interpretare con accurate analisi e riflessioni i segnali che emergono dal voto di quei quasi undici milioni di cittadini. Possiamo affermare, senza paura di smentita, che la natura di quei voti ha avuto un carattere offensivo e non difensivo. I cittadini hanno dichiarato di voler porre fine all’attacco neoliberista che si traduce oggi nella precarietà e nella prospettiva di un’esistenza sempre meno dignitosa. L’elettore, inoltre, per la prima volta si è mosso autonomamente baipassando l’invito all’astensione rivolto dalla maggioranza delle forze politiche e sociali. Il comitato promotore si è trovato a dover fronteggiare, con enorme difficoltà, l’oscuramento e l’isolamento messo in atto dal versante opposto e ostile. Abbiamo fatto bene a provarci! Questa battaglia, anche se persa, ha il merito di averci consegnato un tracciato valido: per affrontare meglio gli attacchi, che oggi si preparano, è necessaria una politica non di mera difesa, ma di lotte per l’estensione dei diritti di ciascuno. Elezioni amministrative: un test efficace che ci permette di affermare che l’unione e il coordinamento di tutte le forze democratiche e propositive del paese hanno come esito l’arretramento delle destre. Stato del partito: la situazione nazionale, violentemente scossa da una politica neoconservatrice e reazionaria, interroga noi e i movimenti sulle prospettive future. Il nostro popolo chiede di fermare questo attacco, di cercare gli strumenti affinché si possa rapidamente incrinare o spaccare la maggioranza di governo, per preparare un’alternativa che non si riduca, però, a semplice alternanza.

Livio Maitan (Federazione Roma)

La situazione internazionale resta caratterizzata da laceranti contraddizioni e da una persistente instabilità con mobilitazioni imponenti di forze che si oppongono alla guerra e al neoliberismo. Ma proprio l’ampiezza e la radicalità dell’opposizione fanno sì che a un determinato momento la posta in giuoco diventi decisiva. Così è stato nella lotta contro la guerra all’Irak: le mobilitazioni isono state senza precedenti, ma la guerra è stata scatenata. Per un esito diverso sarebbe stato necessaria una rottura di sistema: ma non ne esistevano ancora rapporti di forza e livelli di coscienza. L’esperienza francese solleva, pur su un terreno ovviamente diverso, analoghi interrogativi. I motivi del contendere e le scelte del governo Rafarin portavano a una contrapposizione frontale. Per vincere la partita l’unica scelta possibile era uno sciopero generale che rimettesse in discussione governo e sistema neogollista. Questa scelta è stata elusa: conseguenza è stata una conclusione negativa di un movimento straordinario nell’ampiezza e nella durata. Bertinotti si è riferito a straordinarie esperienze latino-americane. Ma dobbiamo constatare che in Brasile Lula si trova in una posizione sempre più contraddittoria per aver fatto scelte in contrasto con le impostazioni preecentidel Pt e le aspettative delle masse che lo hanno eletto; che l’equatoriano Gutierrez è in piena involuzione, con conseguente rottura con lo straordinario movimento degli indigeni; che nell’ Argentina che esigeva che se ne andassero tutti, tutti o quasi sono rimasti. Tutte queste esperienze pur così diverse, pongono, in realtà, un analogo problema: in fasi come quelle descritte, se non esistono ancora rapporti di forza e livelli di coscienza per imporre la rottura di sistema, bisogna individuare obiettivi e metodi di lotta suscettibili di aprire delle brecce in una dinamica potenzialmente antisistema. Compito arduo, ma essenziale.

Elena Majorana (Federazione Catania)

Scontiamo una inadeguatezza di pratiche politiche e di gruppi dirigenti connessa al politicismo e al modello di partito verticista e burocratico che ha caratterizzato il Prc per tutti gli anni Novanta. I limiti che ci portiamo dietro aggravano le difficoltà della fase caratterizzata dalla negatività dei rapporti di forza sociali. Da alcune/i compagne/i viene suggerita l’idea di una correzione della nostra collocazione, sia nel movimento sia nel rapporto con il centrosinistra; eppure la richiesta di unità che la gente ci pone, che anche il movimento ci pone, è intrecciata con la richiesta di radicalità: non può esserci confronto se non nella dimensione della processualità sociale. Occorre evitare ogni deriva politicista e piuttosto rilanciare la linea strategica scelta al congresso. Ripartire dagli undici milioni di Sì significa impegnarci in una campagna sociale efficace di opposizione al governo, dotarsi di strumenti sociali adeguati a continuare la lotta intrapresa con il referendum. Per far questo occorre che il partito imbocchi finalmente la via dell’innovazione non come sperimentazione di alcune/ i ma come pratica agita da tutte/i. Utile pertanto sarà il convegno sul partito (purché vissuto da tutte/i come momento di confronto, analisi e proposta e non come l’ennesimo luogo per misurare e consolidare maggioranze), e anche cogliere alcuni suggerimenti venuti dal dibattito di questi giorni: la costruzione di collettivi di direzione dell’iniziativa politica sia nazionali che locali, la costruzione di luoghi e percorsi di confronto e ricerca, la ripresa dei comitati di scopo (un possibile sbocco per i comitati referendari), una campagna di opposizione alla legge 30 e agli altri provvedimenti governativi a partire dalla costruzione di vertenze concrete e che veda l’attivo coinvolgimento delle/i compagne/i elette/i negli enti locali soprattutto quelli in cui facciamo parte della maggioranza.

Luigi Malabarba (Capogruppo Senato)

La ripresa dei movimenti negli ultimi anni ci ha consentito l’impresa titanica della raccolta firme per un referendum in netta controtendenza rispetto alla precarizzazione del lavoro, su cui si era consumata una sconfitta sociale gigantesca da anni. E anche di arrivare a farlo quel referendum che, in determinate circostanze, avrebbe potuto persino vincere. Non ce l’abbiamo fatta, ha pesato fortemente quella sconfitta sociale, da lì occorre ripartire: non ci sarà ipotesi di alternativa senza incidere sui rapporti di forza nella società. Deve essere lo schieramento referendario il protagonista della battaglia di opposizione contro la precarietà (legge 30, salario, pensioni, …), promuovendo la manifestazione d’autunno su una piattaforma sociale condivisa. La tenuta di questo schieramento è essenziale anche per il confronto col centrosinistra, che non va “dritto al governo”: non sappiamo quale sarà l’esito, non sappiamo se sarà battuto l’attuale confindustrialismo dell’Ulivo. Innovazione del partito e costruzione del nuovo soggetto politico di sinistra alternativa viaggiano insieme. Nel partito c’è una corrente organizzata che contrasta l’innovazione, ipocritamente appoggiandola. Se ha un altro progetto, lo espliciti: non può essere contemporaneamente in maggioranza e all’opposizione.

Matteo Malerba (Direzione nazionale)

Il risultato modesto del voto amministrativo, la sconfitta del referendum, la vittoria dell’imperialismo Usa in Iraq, a fronte di un movimento di massa sviluppatosi da Genova in avanti, impongono un confronto straordinario nel partito che gli ridia nuova linfa e prospettiva. Un confronto straordinario perché l’impone, anche formalmente, la decisione di andare al governo del paese con l’insieme delle forze dell’Ulivo. Necessario per rilanciare una prospettiva politica che eviti il rischio di ulteriore smarrimento negli iscritti dopo la battuta d’arresto del referendum. Accusiamo il colpo, ma va valorizzata l’esperienza di un anno dei comitati per il Sì senza sconti per chi, con il suo atteggiamento, ha contribuito in modo netto alla sconfitta. Mentre Berlusconi e compagni “deflagrano” sotto il disincanto di settori popolari del suo elettorato, non troviamo altro che rilanciare una prospettiva politica consumata nei contenuti dell’esperienza ’96-98 del governo Prodi. Undici milioni di Sì sono una base preziosa per una politica alternativa a Berlusconi, Rutelli e D’Alema. Invece del confronto tra Ulivo, Prc e gli altri, per un’intesa programmatica, bisogna ricusare le commissioni con Treu e Mastella perché niente c’è d’approfondire sulla loro idea in materia di lavoro, specie dopo il referendum per l’art. 18, se c’erano dubbi. Bisogna costruire un polo di classe anticapitalistico che si candidi all’egemonia sull’insieme delle masse popolari per cacciare Berlusconi e per un’alternativa in piena autonomia dalle forze liberali dell’Ulivo. Per questo, bisogna avanzare una piattaforma di lotta unificante capace di aggregare intorno ai lavoratori l’insieme del blocco alternativo rilanciando proposte come: difesa incondizionata delle pensioni; salario garantito ai disoccupati senza contropartita di flessibilità; nazionalizzare senza indennizzo, sotto il controllo operaio, le industrie in crisi che licenziano, a partire dalla Fiat.

Cesare Mangianti (Federazione di Rimini)

L’ultima riunione della Direzione Nazionale ha, indubbiamente, offerto un contributo significativo al Partito. Non è prevalsa, come irresponsabilmente è successo in altre riunioni e nello scorso Cpn, la volontà dello scontro, ma una ricerca che non può che far crescere. Mi sento di apprezzare la relazione del Segretario: ho notato la volontà di andare avanti nell’innovazione, ma con spirito unitario. Gli stessi interventi di oggi, anche se con significative eccezioni, vanno in tal direzione. Mi auguro che il clima che qui si respira arrivi anche nelle realtà dove ancora si insiste con arroganza nello scontro congressuale. Condivido la necessità – scelta di aprire un confronto con il centro sinistra, non per un accordo ad ogni costo, ma su punti di alto profilo programmatico perché – anche se oggi la fase è diversa rispetto a quella della rottura con Prodi – non possiamo assolutamente andare ad accordi al ribasso. Pace, lavoro non precario, salario, difesa delle pensioni – sulle nostre posizioni – sono elementi irrinunciabili per il confronto. E la necessità di sconfiggere il governo delle destre non può portarci ad accettare qualsiasi accordo. E’ ora di accentuare la lotta unitaria contro il governo coinvolgendo il centro sinistra ed il movimento – a partire dai Comitati per il sì – su obiettivi socialmente avanzati: è nella lotta sociale da svolgere nelle piazze, nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nel Parlamento che si porranno le basi per giustificare un accordo programmatico per vincere contro le destre. Sulle elezioni amministrative non dobbiamo essere reticenti. Non si può parlare di “tenuta”, alla vecchia maniera….. In realtà, non avanzare significa aver perso. Ed occorre riflettere criticamente su due elementi: il movimento non ci vota e sembra riconoscere nei Ds – che avanzano allargando la forbice verso di noi – un punto di riferimento più attendibile. Forse alcuni compagni che parlano di mancata innovazione dovrebbero convincersi che questa non passa per lo snaturamento della forma partito che spesso si è risolta solo con la chiusura affettiva del Circolo e con la rinuncia ad affermarsi come comunisti rifondatori nel movimento….. Avremmo ottenuto un consenso referendario così significativo senza il Partito? A proposito. A che punto è lo stato del Partito? Ed il tesseramento?

Francesco Maringiò (Coordinatore Gc di Bologna)

La situazione di difficoltà che viviamo (assenza di mobilitazione del movimento, sconfitta referendaria, incapacità di crescita alle amministrative) ci impone una riflessione sul Partito che vive una forte contraddizione descrivibile in due istantanee. La prima ci parla di un Partito che è diventato sul campo uno dei soggetti fondamentali della mobilitazione dei movimenti. Cosa sarebbero state le manifestazioni contro la guerra senza la presenza sul territorio di comitati e tavoli che organizzavano la protesta? E cosa sarebbero stati, questi, senza il contributo dei militanti del Prc? E’ la testimonianza più evidente di un patrimonio di militanza straordinario. Ma c’è un’altra istantanea. Ci parla di un Partito che da anni perde voti, iscritti (dal ’94 al ’02 oltre 110.000) e non ha un significativo insediamento né nei luoghi di lavoro e di studio, né nel sindacato. Serve un lavoro specifico in questi luoghi come pure nel movimento affinché faccia della lotta alla guerra e alle basi Nato una battaglia strategica e di lunga lena. Ma serve anche una linea politica meno altalenante. In pochi mesi siamo passati da un rifiuto assoluto di accordo col centro sinistra a un’idea secondo la quale o si fa l’accordo o niente! Perché invece non proponiamo un confronto programmatico prima alle forze rappresentative dei 10 milioni di sì su smilitarizzazione del territorio, lavoro, confrontandoci poi con tutto il centro sinistra? Una linea politica più efficace è ciò che serve alla nostra innovazione che, per essere vera, si deve misurare sulla base del consenso ottenuto.

Pasquale Martino (Segretario regionale della Puglia)

Fra i gruppi dirigenti della nostra regione l’esito referendario ha sollecitato una risposta analitica e riflessiva, capace di superare la delusione. Le difficoltà dell’agire politico del partito c’erano prima e non sono state magicamente dissolte dalla campagna referendaria. Ma questa è stata uno strumento straordinario e per molti versi inedito di lavoro politico per il partito, che ha messo in relazione ciascun circolo e ciascun compagno con migliaia di persone, e ci ha aperto percorsi ci convergenze mai prima sperimentati: basti pensare al Bari Pride, che è stata anche una grande manifestazione per il Sì. Certo abbiamo perso. Ma questo esito non era predestinato. Quando abbiamo lanciato il referendum, esso era lo sbocco di un movimento di massa per l’art. 18. Fin dove poteva arrivare la capacità del referendum di spostare l’asse politico, come ha fatto? Non si poteva prevederlo in partenza. E poi il nostro è stato, da dieci anni in qua, l’unico referendum “in controtendenza” (la questione del lavoro è stato oscurata da tempo). Siamo anche convinti del percorso politico che qui ci si propone. Un confronto tra molti. Solo così possiamo sperare che le domande di unità e di radicalità incontrino una risposta efficace. Cgil, Arci, Fiom, movimenti, non possono agire la loro conquistata autonomia sociale e di modalità politica, per consegnare al solo Prc il tema e l’onere dell’unità con il centrosinistra: questo sarebbe un esito rovinoso per il nostro progetto politico. Ed è vero che, nel costruire l’alternativa partendo dal quadro dell’alternanza, occorre ridurre la forbice fra i due livelli – della politica nazionale e della dimensione locale e regionale – che non vanno lasciati a una fisiologica distinzione di comportamenti. Questo è naturalmente anche un problema di programmi e di pratiche sociali, e per quanto ci riguarda è un tema della questione meridionale. Le tesi congressuali ne hanno parlato poco: spetta ai compagni e alle compagne del Sud indicare esperienze di riferimento e ricostruire un ragionamento complessivo.

Leonardo Masella (Capogruppo Regione Emilia Romagna)

Ho apprezzato la relazione introduttiva e il nuovo clima unitario che si è creato in questo Cpn, opposto a quello dell’ultimo Cpn di soli due mesi fa dove si parlò addirittura di incompatibilità all’interno del Partito. E’ positivo che la segreteria nazionale ci proponga finalmente un documento di sintesi. Per questo anch’io non ripeterò le maggiori divergenze sull’analisi e sul passato. Mi concentrerò invece sul che fare nei prossimi mesi. Tre punti. 1) La vittoria americana sull’Iraq ha prodotto una battuta di arresto del movimento per la pace e di tutti gli altri movimenti e il rischio di ritorno alla pura manovra politica. Dobbiamo discutere come e su quali contenuti il Partito deve intervenire per rilanciare i movimenti di lotta. Non capisco e non condivido la rimozione della guerra e dell’analisi internazionale: noi comunisti abbiamo come primo compito la lotta per la pace e il disarmo, contro la guerra infinita di Bush e l’occupazione imperialistica dell’Iraq e del Medio oriente, contro la presenza delle basi americane e delle armi di sterminio di massa nel nostro Paese. Sul piano sociale condivido la proposta di manifestazione in difesa delle pensioni, ma anche la ripresa di movimento sulla questione salariale. 2) Non disperdere il grande patrimonio dello schieramento politico e sociale unitario del Sì al referendum per costruire una nuova idea di sinistra di alternativa superando la vecchia ipotesi, sbagliata, di costituente di un nuovo soggetto politico. Dobbiamo essere i protagonisti della costruzione di un rapporto stabile fra tutte le forze del Sì, la Fiom, la Cgil, i sindacati di base, il Pdci, la sinistra Ds, i Verdi, proponendo l’unità d’azione e di una elaborazione programmatica comune attorno al No alla guerra e al neoliberismo. 3) La questione del rapporto col centrosinistra. Condivido l’apertura di un confronto unitario con l’Ulivo per una alternativa al governo Berlusconi, ma a partire dalla costruzione di una opposizione comune, politica e sociale, e consapevoli dell’esistenza di differenze strategiche fra noi e la parte più moderata dell’Ulivo. D’Alema, parlando alla Festa dell’Unità di Roma, ha detto testualmente: “Quali saranno i temi dove si incontreranno le maggiori difficoltà? Sicuramente la politica estera, anche perché non è una materia negoziabile”. Più chiaro di così. Alla faccia del confronto programmatico e del programma comune di governo.

Enrico Milani (Segretario federazione di Caserta)

Sul referendum, c’è chi ha valutato l’esito “non del tutto negativo” contando gli 11 milioni di voti a favore dell’estensione dei diritti, ma ignorando il “piombo nelle ali” dell’indifferenza o contrarietà degli altri tre quarti. Altri hanno messo sotto accusa il centrosinistra per la sua “diserzione” da una giusta battaglia, sbagliando in radice sia nel postulato che il centrosinistra tenda ad orientarsi verso “battaglie giuste”, sia nel postulato che le attuali forme partitiche posseggano ancora una capacità assolutamente risolutiva nella costruzione dei comportamenti e delle opinioni dei cittadini. Altri ancora hanno avanzato una spiegazione puramente “soggettiva” del risultato, come il cattivo frutto di una nostra colpa di disorganizzazione. In realtà, le ragioni di fondo del risultato referendario sono altrove. Va riconosciuto che il risultato del referendum mette impietosamente a nudo sia i rapporti di forza reali tra le classi sociali, sia la condizione di minoranza del conflitto per un altro mondo possibile. Questi rapporti di forza tra le classi non sono meramente contingenti, e connotano oggi la profonda scomposizione e frammentazione del proletariato e dell’insieme del lavoro dipendente, sul piano sociale, e la debolezza della prospettiva complessivamente anticapitalista, sul piano politico. Essi hanno origine dalla micidiale combinazione dei due grandi processi che hanno segnato l’ultimo ventennio: la ristrutturazione agita ed attraversata dal modo di produzione capitalistico, che ha scomposto le figure trainanti ed unificanti del tradizionale lavoro dipendente, e l’implosione di ciò che residuava della sconfitta storica dei processi rivoluzionari che avevano aperto e segnato il Novecento. L’atomizzazione della gran parte della condizione lavorativa e l’assenza di una credibile alternativa hanno socialmente determinato individui isolati, irreggimentati a monte dalla totalizzazione del rapporto di capitale e, per il resto, preda del moderno e devastante “autismo sociale” che nega a priori la costruzione di un sentire collettivo autonomo, disgregando l’idea stessa di “bene comune” che è a fondamento della partecipazione politica. Eppure, questo referendum andava fatto, ad onta delle allusioni “pentitiste” che pure si sono manifestate nel fronte referendario e persino nel partito. Perché il movimento dei movimenti e le grandi lotte dello scorso anno ponevano politicamente e socialmente la questione di uno sbocco, sia pure parziale, che modificasse lo stato di cose e la stessa registrazione dei rapporti di forza.

Pietro Mita (Federazione di Bari)

E’ diffuso nel partito un bisogno di unità, resa ancor più necessaria dalle difficoltà politiche dell’antagonismo sociale e dalla situazione di impoverimento della discussione nel nostro partito. Ma l’unità politica abbisogna di un quadro comune di riferimenti, di lettura della fase. Trovo nella relazione di Bertinotti novità di analisi e di proposta sul nesso stretto tra opposizione sociale e progetto politico. La nostra coraggiosa e necessaria battaglia referendaria non aveva l’ampiezza e il pluralismo di forze mobilitatesi per la pace, né la tensione etica del pacifismo. Le condizioni lavorative non sono sembrate centrali al comune sentire degli elettori e dello stesso popolo della pace. Sui risultati delle elezioni amministrative va evitato qualsiasi ottimismo. Continueremmo a non fare i conti con l’insufficienza del nostro radicamento sociale e dell’insediamento sul territorio, permarrebbe una concezione marginale e strumentale del governo locale. I circoli spesso non intrecciano le campagne nazionali con la capacità di leggere le realtà locali per trasformarle. In prospettiva delle amministrative del 2004, propongo un appuntamento nazionale di discussione ed iniziativa politica che impegni tutto il partito e non solo gli addetti ai lavori. La coppia unità-radicalità in questa fase significa porsi gli obiettivi della crisi del governo Berlusconi e della costruzione di un processo di alternativa di governo.

Renata Moro (Federazione di Treviso)

Inutile ribadire l’apprezzamento per il lavoro svolto dai compagni e dalle compagne in occasione del referendum: un lavoro capillare, impegnativo, svolto in condizioni veramente difficili e nella totale assenza d’informazione. Nonostante l’entusiasmo registrato per la tenuta elettorale del partito nelle elezioni amministrative, l’esito negativo del referendum ha prodotto una sorta di ripiegamento nei compagni e questo è più che legittimo vista l’aspettativa che aleggiava attorno al risultato del quesito. Ora dobbiamo capitalizzare quegli undici milioni di voti: è una nostra precisa responsabilità in quanto artefici e promotori. Non proseguire nell’impegno profuso nella costituzione dei comitati per il SI significherebbe perdere una seconda volta, ma soprattutto disperdere una aggregazione dalle potenzialità notevoli. La politica delle alleanze attuata con le amministrative ha permesso a Rifondazione di qualificarsi come forza politica in grado di rispondere alla richiesta di unità a sinistra da parte del paese. Alleanze che non sono basate sul tatticismo politico dell’ultima ora ma costruite sulla base di una verifica politica, frutto di confronto, capaci di rilanciare e radicare maggiormente il partito. La società chiede espressamente unità a sinistra per battere il governo della destra che attacca lo stato sociale, le pensioni, la giustizia, l’informazione. Appunto per la gravità degli interventi attuati da Berlusconi dobbiamo elaborare un progetto politico che non ci veda isolati ma piuttosto protesi ad una convergenza con le forze che hanno sostenuto il referendum. Mi sembra che la proposta messa in discussione in questo Cpn contenga tutte le prerogative per una attenta valutazione, fermo restando un nodo fondamentale (che diventa discriminante): dobbiamo essere noi in grado di strappare dei risultati significativi al tavolo del confronto in tema di politica salariale, le pensioni, garanzie e tutele nei luoghi di lavoro, la guerra, l’abbattimento dello stato sociale. La verifica va fatta su questi elementi. Una battuta sull’argomento che ha coinvolto la discussione dell’ultima riunione della direzione: l’innovazione del partito. Penso che ogni eventuale intervento che si ritenga di porre alla valutazione dei compagni in tema di innovazione non possa essere proposto se prima non delineiamo un progetto politico che ne costituisca l’ossatura. Faccio un esempio: se ci poniamo come obiettivo una grande battaglia sul fronte del lavoro è dai luoghi di lavoro che si deve partire attraverso il rafforzamento e/o la costituzione di circoli.

Roberto Musacchio (Direzione nazionale)

Siamo riusciti a gestire questa prima fase di dibattito in modo positivo fino alla relazione di Bertinotti d’oggi che considero veramente arricchente. Abbiamo fatto bene ad avere una chiave politica di riflessione per svilupparla. Il referendum ci ha visto sconfitti ma non battuti. Riflettere sulle ragioni della sconfitta è fondamentale perché serve a riposizionarci in un conflitto che è tutto aperto. Il referendum, infatti, non ha chiuso una fase com’è accaduto per la scala mobile. E’ stato sconfitto perché ha mancato di sfondare socialmente ed è stato contrastato da una manovra politicista sdoganata dall’accordo Cofferati-Fassino, che la dice lunga anche sulla parabola dell’ex leader Cg e della sua visione dei movimenti nei fatti subordinati al quadro maggioritario e all’opzione ulivista. A differenza di ciò milioni di voti dell’Ulivo si sono ritrovati nell’impostazione referendaria che abbina unità e radicalità, segnalando che il movimento ha determinato una messa in libertà di forze ampie. Non c’è dubbio che tutto ciò pone il tema di come questa forza del movimento, questa aspettativa di cambiamento che si accompagna al bisogno crescente di liberarsi dal centrodestra, sia capace di segnare la fase politica, di non essere subordinata all’alternanza ma proponga con forza il tema dell’alternativa. La proposta che avanziamo è il contrario del politicismo ma muove dall’internità al processo sociale e al conflitto, E in tal senso può essere vincente se vive reincrociando sociale e politico e anzi avendo chiara che va mutata la gerarchia “psicologica” e fattuale e che va messa al centro la trasformazione sociale, la sua dimensione mondiale, e il terreno del governo, che non si può rifuggere, va contestualizzato a ciò. Dal punto di vista della riconnessione programmatica e sociale propongo che al tema della precarietà si leghi quello dei beni comuni sottoposti a un processo che li mercifica, li degrada e li sottrae come dimostra la metafora del blackout energetico e come denuncia il movimento impegnato nelle mobilitazioni verso Cancun che deve divenire più centrale anche per noi.

Redazione di Liberazione
Roma, 28 giugno 2003
da "Liberazione" (del 3 luglio 2003)