Direzione Nazionale di Rifondazione Comunista

Voto no al documento di maggioranza, mi astengo sul documento Ferrando

Roma - 25 settembre 2003

Le recenti iniziative assunte dopo l'ultimo Comitato politico nazionale gettano il partito nelle braccia dell'Ulivo senza praticamente lasciare alcuna possibilità credibile di correggere la rotta.

La svolta precipitosa verso l'Ulivo non trova alcuna giustificazione, neppure di facciata.

Senza che dall'Ulivo venga anche il minimo segnale di un'inversione di rotta rispetto alle sue precedenti politiche filopadronali, senza il minimo cambiamento neppure nel personale politico (si veda il probabile ritorno di Prodi come candidato primo ministro) ci si appresta a ripetere la disastrosa esperienza dell'alleanza di governo col centrosinistra (1996-98), un'alleanza che si concluse con un bilancio pesantissimo sia sul piano sociale (privatizzazioni, politiche di austerità in nome dell'euro, avvio in grande stile della precarizzazione del lavoro e della aziendalizzazione e privatizzazione dello stato sociale, ecc.), sia sul piano politico (ritorno al potere della destra), sia per il partito (scissione e successive sconfitte elettorali nelle seguenti consultazioni).

Ma questa volta la situazione è persino peggiore di quella del 1996. In primo luogo, ci si appresta a una esplicita alleanza politica e programmatica, il cui sbocco naturale sarebbe una entrata del Prc nel governo nazionale in un'alleanza completamente dominata sul piano politico e programmatico dalla destra dei Ds e dai settori confindustriali dell'Ulivo.

Un Ulivo che non perde occasione di ribadire, nelle parole e nei fatti, la sua distanza abissale dalle istanze che il Prc deve rappresentare: dal voto in favore della missione in Iraq, fino alle recenti teorizzazioni del segretario Ds Fassino sull'"errore" commesso a suo dire dal Pci nei primi anni '80, quando si oppose alla "modernizzazione" craxiana e alle sue politiche antioperaie, a partire dal taglio della scala mobile.

Parallelamente all'accelerazione precipitosa dell'abbraccio all'Ulivo si accelera sul piano della cosiddetta "sinistra d'alternativa", ipotizzando che a fianco della lista unica Ds-Margherita si possa costruire una seconda coalizione "del 10-15%" che raggruppi quelle forze che rifiuterebbero la logica del "partito unico dei riformisti" proposto da Prodi e in larga parte accettato da Fassino e D'Alema.

Accettare l'idea di una "spartizione concordata" dell'elettorato del centrosinistra significa dichiarare apertamente che il blocco Ds-Margherita continuerà ad egemonizzare l'elettorato della sinistra per un'intera fase storica; significa dichiarare apertamente che la cosiddetta "sinistra d'alternativa" altro non può essere che una forza marginale e d'opinione che coltiva una piccola rendita elettorale e che comunque non può esistere se non come appendice sostanzialmente inoffensiva del blocco ulivista.

Questo è l'approdo finale delle teorizzazioni congressuali sulla "fine dell'egemonia".

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La cosiddetta "sinistra d'alternativa" nascerà, se nascerà, come operazione puramente elettoralistica, piena di "generali senza esercito" della più varia provenienza, da qualche elemento del correntone Ds ormai in stato di crisi profonda per arrivare ai vari settori di ceto politico "movimentista" in cerca di ricollocazione. Una simile aggregazione tenderebbe inevitabilmente ad essere egemonizzata da quei settori più alieni da qualsiasi concezione di classe; il nostro partito si troverebbe costantemente sottoposto a una forte pressione e una continua richiesta di abbassare il proprio profilo politico e organizzativo per fugare i sospetti di "egemonismo". L'episodio dell'annullamento della manifestazione nazionale del 27 settembre è solo un esempio di quanto si prepara nel prossimo futuro.

Le strutture del partito, già oggi in stato di forte difficoltà, si troverebbero completamente esautorate dagli organismi dirigenti di questa aggregazione elettorale, all'interno dei quali verrebbero prese tutte le decisioni fondamentali.

L'idea che tutto questo possa farci fare un balzo dall'attuale 5% dei voti a un 10-15% è peraltro tutta da dimostrare; ma a prescindere dalle ipotesi su questo terreno, abbiamo forse dimenticato come il migliore risultato elettorale nazionale nella storia del partito sia stato precisamente quell'8,6% colto nelle elezioni politiche del 1996? Eppure quel voto, al quale peraltro corrispondeva una militanza ben più ampia ed attiva dell'attuale e un radicamento operaio significativo, non impedì la successiva disfatta politica della linea allora intrapresa della desistenza e dell'appoggio esterno al governo.

Tutto questo non ha nulla a che vedere con una discussione su quale tattica adottare nella lotta contro la destra. Non è di tattica, elettorale o d'altro genere, che si sta dibattendo, ma di portare a termine un processo già da tempo avviato che vede al centro la volontà di offuscare nel Prc ogni concezione di classe, ribattezzata per l'occasione "eredità novecentesca.

L'applicazione e lo sviluppo di questa linea procede in modo sempre più precipitoso anche grazie a un regime interno al partito che vede affiancarsi una gestione pseudo-parlamentaristica del dibattito ad un governo effettivo che appare privo di qualsiasi reale elemento di controllo e contrappeso. Lo dimostra la disinvoltura con la quale vengono abbandonate le stesse tesi congressuali di maggioranza approvate poco più di un anno fa.

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Il partito è su un asse inclinato. Questa deriva può essere invertita solo se nel corpo militante del partito si farà sentire una forte reazione e un'opzione alternativa che metta al centro della nostra linea la ricostruzione del radicamento operaio del partito (ridotto drammaticamente al lumicino), della lotta sistematica per conquistare terreno nelle organizzazioni di massa, a partire dalla Cgil, e soprattutto per riaprire la prospettiva anticapitalista e rivoluzionaria che viene negata alla radice dall'accordo col centrosinistra.

Questo non significa affatto sottrarsi all'impegno sul terreno della lotta al governo Berlusconi, della difesa dei diritti democratici e sociali così brutalmente sotto attacco. Ma questa lotta può essere condotta in modo efficace da parte nostra solo se assumiamo la più completa indipendenza di classe sul piano programmatico, politico e organizzativo.

La linea del centrosinistra non è affatto quella di cacciare Berlusconi con la mobilitazione di massa, ma quella di santificare nelle piazze la futura (ipotetica) alleanza di governo fra Ulivo e Prc.

Per il Prc, al contrario, la parola d'ordine della cacciata del governo (che con un evidente errore ci rifiutammo di agitare durante le mobilitazioni del 2002), assume significato solo se riassume in sé le rivendicazioni e le necessità di milioni di lavoratori e dei ceti popolari massacrati dalla sua politica. Ma queste rivendicazioni entrano in rotta di collisione con tutte le impostazioni di fondo dell'Ulivo, al di là di concessioni parziali o verbali che ci possano fare nell'attuale fase di dialogo e trattativa.

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Alleanza col centrosinistra e diluzione nel partito nella "sinistra alternativa" sono oggi due facce di un'unica politica propostaci dalla maggioranza della segreteria. È pertanto del tutto illusorio pensare di poter combattere il blocco col centrosinistra in nome di una presunta radicalità della "sinistra alternativa"; analogamente, è impossibile opporsi alla disgregazione politico-organizzativa che colpisce il partito senza rimettere in discussione la linea dell'alleanza con l'Ulivo.

Entrambe queste posizioni, che si sono espresse all'interno del partito nell'ultima fase, si dimostrano alla prova dei fatti incapaci di costituire una reale alternativa alla deriva in atto.

È precisamente in considerazione dell'insufficienza di queste obiezioni alla linea attuale che presento alla discussione questo contributo.

Claudio Bellotti
Roma, 25 settembre 2003
da "Liberazione"