ERNESTO GUEVARA INSIEME A FIDEL CASTRO
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Le ultime notazioni delle critiche al Manuale di Economia dell’Accademia delle Scienze dell’Urss sono più teoriche. Gli autori del Manuale, sulla base delle indicazioni del XXI Congresso del Pcus, parlano di passaggio graduale al comunismo, e annunciano che i metodi coercitivi dello Stato saranno sostituiti dagli stimoli economici e dal lavoro educativo affidato alle cosiddette “organizzazioni sociali”. Peraltro si teorizza che lo Stato continuerà ad essere necessario anche dopo la “costruzione del comunismo”.
Guevara è sempre più irritato. Come è possibile pensare di “costruire il comunismo in un paese solo”? E conclude questa nota osservando che «ci sono molte asserzioni in questo libro che somigliano alla formula della santissima trinità: non si capisce, ma la fede risolve la cosa». E aggiungeva:
«Non si capisce come possano eliminarsi i metodi coercitivi sostituendoli con quelli economici. Se questi diventano automatici, si ritorna a una società anarchica, se li si guida tramite un piano centralizzato, lo Stato deve stare lì a vigilare su quel che succede (o deve succedere) (...) Gli operai, il popolo in genere, decideranno sui grandi problemi del paese (saggio di sviluppo, cioè accumulazione, consumo, tipi di produzione fondamentali, lavori sociali, beni perituri o di largo consumo), nei vari luoghi decideranno sui loro problemi concreti (quelli che non vanno oltre il loro ambito), ma il piano e la produzione saranno di spettanza degli specialisti, né si possono cambiare per volontà individuali, anche se di tipo collettivo. Il punto è considerare l’organizzazione economica come un grande macchinario e vigilare che funzioni, senza però inserirsi nei suoi ingranaggi».
In questo processo Guevara non vedeva alcun ruolo utile dei sindacati, su i quali si esprimeva in tono sprezzante, forse in parte per la sua lettura affrettata e superficiale (anche a causa di una sommaria traduzione da parte di qualcuno dei “consiglieri” sovietici) del famoso dibattito sovietico del 1920 sui sindacati.
LA STATUA DEL CHE A LA HABANA
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Guevara infatti aveva scambiato la posizione di Trotskij (ostile allora ai sindacati, per motivi analoghi ai suoi) con quella di Lenin, a cui Trotskij si avvicinò invece più tardi, ammettendo di avere sbagliato (ma il Che probabilmente non lo seppe mai…). Ma a fargli assumere quella posizione era anche la sua esperienza cubana, non entusiasmante, che descrive in varie conversazioni al Ministero dell’Industria. In una di esse ci sono passi di notevole interesse: «La maggioranza - ed è bene dirlo - dei dirigenti sindacali, sono persone che non godono del sostegno di massa... Poiché non godono del sostegno di massa, non hanno un prestigio acquisito in seno alle masse, scelgono la strada più semplice, e quale? Farsi portavoce delle masse e cioè: la massa dice e io trasmetto e bisogna fare ciò che la massa dice, e quindi poi dicono alla massa: Ah! no, il governo dice e io trasmetto (...) Non è una politica coerente rispetto alla classe operaia né si aiuta - tutt’altro - il Governo».
Più in là, nella stessa conversazione al Ministero dell’Industria del 14 luglio 1962, Guevara pronuncia una sentenza definitiva:
«Di una cosa sono sicuro, ed è che il sindacato è un freno che va distrutto, ma non con il sistema di esaurirlo: bisogna distruggerlo come si dovrebbe distruggere lo Stato in un momento, con il metodo di superarlo da parte della gente, e alla fine arrivare a rendere inutile questa istituzione. Qui i sindacati sono stati costruiti meccanicamente. Poiché in Unione sovietica vi sono sindacati amministrativi, si sono fatti sindacati amministrativi a Cuba.
Bene, vorrei chiedere, che cosa hanno fatto i sindacati in ciascun ministero? Non sono stati in grado di mettere insieme qualcuno che andasse a tagliare quattro canne, non sono stati in grado di dare l’esempio su niente. In questo ministero, per fortuna, non hanno di certo posto questioni, rivendicazioni amministrative. Da altre parti lo hanno fatto. Non è povero il ruolo di un’istituzione creata da poco per svolgere il ruolo di copia con carta carbone dell’esperienza storica di un altro paese? Questo non è marxista: è uno dei tanti errori che commettiamo, avallati da tutti noi, probabilmente anche da me, che sono Ministro, dal Consiglio dei Ministri, ma è un errore e di errori ne commettiamo ».
Questo ed altri passi spiegano perché la riflessione del Che fosse insopportabile per i dirigenti sovietici, ma mostrano anche che egli non sempre aveva colto nel segno. Leggiamo oggi Guevara non per cercare un nuovo “modello”, un nuovo Talmud, ma per seguirne la riflessione interpretandola nel contesto dei dibattiti di quegli anni, e cogliendone la poderosa forza dissacrante, che rifiuta i luoghi comuni. Ad esempio, anche quando concorda con il Manuale nella sottolineatura delle contraddizioni tra capitale e lavoro, il Che osserva che «occorre ancora una volta porre l’accento sul fatto che l’opportunismo ha investito uno strato enorme della classe operaia dei paesi imperialisti», che si potrebbe definire come aristocrazia operaia.
Al margine annotava di ricercare statistiche comparative sui salari degli operai di paesi imperialisti e di quelli dipendenti. Su questo arrivava a considerazioni drastiche, che avrebbe potuto probabilmente rivedere se avesse potuto vedere la grande ondata di scioperi del maggio 1968 in Francia e dell’Autunno caldo italiano.
Poco più avanti, si indigna ancora per una frase retorica del Manuale in linea col nuovo corso sul passaggio pacifico al socialismo:
«Nelle attuali condizioni, in cui esiste un forte campo socialista, in cui continua ad approfondirsi la crisi generale del capitalismo, in cui il sistema coloniale si disintegra sempre più e gli ideali del socialismo, della democrazia e della pace possiedono una grandiosa forza di attrazione per l’intera umanità lavoratrice, si dà la possibilità concreta che, in questo o quel paese capitalista o uscito dalla dominazione coloniale, la classe operaia arrivi pacificamente al potere, per via parlamentare». Il commento è secco e bruciante: «A questa cantilena del parlamento non ci credono neanche gli italiani, che pure non hanno altro dio».
Si allude ovviamente al Pci, nei confronti del quale Guevara aveva espresso francamente il suo fastidio, rifiutando ad esempio un’intervista all’Unità, che pure era stata sollecitata dalla sua stessa madre che con Saverio Tutino, ottimo corrispondente di quel giornale all’Avana, aveva fatto amicizia, vivendo nello stesso albergo. La motivazione era che non stimava un partito che aveva un 25% di voti e non faceva nulla per la rivoluzione. Molti dirigenti del Pci che visitarono Cuba, tra cui Pietro Ingrao, rimasero sconcertati e irritati dalle brusche critiche di Guevara. Le annotazioni di questo genere, che smentiscono il quadro idilliaco di un mondo in evoluzione verso il socialismo per effetto delle “grandi conquiste dei paesi socialisti”, sono numerosissime, ma riguardano solo indirettamente il giudizio critico del Che sui paesi dell’Est, attraverso la polemica con le loro mistificazioni ideologiche sulle “magnifiche sorti e progressive” del proletariato.
Una di questa va però segnalata, per un aspetto interessante: di fronte a una frase che dichiara possibile il trionfo della rivoluzione socialista, quando esista un proletariato rivoluzionario e la sua avanguardia (naturalmente unita in un solo partito politico…), Guevara osserva: «I casi della Cina, del Vietnam e di Cuba dimostrano la scorrettezza di questa tesi. Nei primi due casi la partecipazione del proletariato è stata nulla o scarsa, a Cuba la lotta non è stata diretta dal partito della classe operaia, ma da un movimento policlassista radicalizzatosi dopo la presa del potere politico».
La frase che ho evidenziato in corsivo sarebbe sconvolgente nella Cuba degli ultimi trenta anni, in cui è stato evitato accuratamente ogni accenno al mancato appoggio alla rivoluzione da parte del Psp (di cui Guevara peraltro accetta implicitamente l’autoproclamazione come “partito della classe operaia”).
Anche la definizione del Movimento 26 luglio come “policlassista” è esatta ma contrasta con l’abituale ricostruzione mitologica della formazione del gruppo dirigente della rivoluzione.