Segretario del PRC - Lombardia
Care compagne, cari compagni
questo nostro congresso regionale si tiene in un momento di profondi cambiamenti.
Siamo in presenza, nella nostra regione oltre che a livello nazionale, di una
crisi economica dagli effetti sociali dirompenti.
Per la prima volta dal 2001 – stando a quanto emerge da una ricerca Ipsos
– il numero delle persone nettamente insoddisfatte della propria condizione
economica e sociale è salito e ha superato la percentuale del 50 %, una
percentuale che non ha eguali in Europa. La condizione è di malessere,
ma non solo. La consapevolezza diffusa è che così non si può
più andare avanti, con il risultato di produrre un travolgimento di schemi
e assetti di pensiero consolidati.
Mi rifaccio a un’altra ricerca, condotta dall’Università
di Urbino. Ciò che emerge ancora è che, proprio in ragione di
una situazione di incertezza materiale, sono sempre meno, oramai una minoranza,
le persone che hanno una qualche fiducia nei confronti delle politiche che mettono
al centro il privato, il mercato, la flessibilità.
I temi diventati prioritari nella percezione delle persone sono ben altri: l’occupazione,
la sicurezza sociale, i servizi, la previdenza, e ciò che viene avanti
è una nuova domanda di intervento pubblico.
In pratica, siamo ad una messa in discussione del segno e della validità
delle politiche liberiste. In questa situazione diventa urgente e assolutamente
necessario non disperdere le risorse, le energie che la crisi libera, il sentimento
nuovo di disponibilità, la domanda di cambiamento che c’è
in questo momento nel nostro Paese.
In campo nazionale non c’è dubbio: l’obiettivo prioritario
è di battere Berlusconi, di costituire una nuova maggioranza, di andare
alla formazione di un nuovo governo.
Obiettivo prioritario perché nessuno, data la gravità del momento
– ultimo in ordine di tempo, il gravissimo attacco della destra alla Costituzione
nata dalla Resistenza -, può permettersi di ignorare ciò che si
muove nella coscienza collettiva ed esige una risposta: la domanda prorompente
di fermare l’azione del governo, una domanda che spinge in direzione di
un collegamento politico con altre forze.
Sappiamo bene che in questo momento, dentro un processo generale di riorganizzazione
che domina la scena politica, la misura del confronto è tra un’ipotesi
di alternanza e un’ipotesi di alternativa. Tuttavia, credo che sarebbe
un approccio sbagliato insistere, in maniera pregiudiziale, sulla difficoltà
di identificare con esattezza gli elementi che dovrebbero portare ad un effettivo
cambiamento. Sbagliato non perché non si debbano vedere le difficoltà,
gli aspetti di ambiguità che sono propri di una fase come quella che
stiamo attraversando, di crisi e di passaggio politico. Anzi. Ma l’esito
di un processo nel senso di un’alternativa di governo, di nuova politica,
di una società più giusta e democratica, non può che essere
perseguito stando sul terreno del confronto e della battaglia politica, soprattutto
del collegamento con le grandi masse.
Da qui, per esempio, la scelta che abbiamo fatto di partecipare alle
primarie del 16 ottobre, una partecipazione che per noi è stata il riflesso
non di una scelta di omologazione, ma di una scelta di competizione.
Detto ciò una cosa deve essere altrettanto chiara: l’ultima cosa
da fare è di vivere il terreno dell’unità come un impaccio,
un fattore paralizzante, invece che nei termini di una sfida democratica sul
terreno dell’avanzamento della proposta, degli indirizzi, delle cose da
fare.
Non andremmo lontano se dovessimo illuderci di affrontare una crisi complessiva
come quella che stiamo attraversando solo attraverso i meccanismi della manovra
e del cambiamento istituzionale. Punto essenziale è la capacità
del partito di promuovere la partecipazione e l’intervento delle masse
nella vita politica, di agire la spinta dei movimenti che sono il vero motore
di qualsiasi processo di cambiamento politico. Di sicuro, senza i movimenti
di questi anni, da quelli contro la globalizzazione e contro la guerra, a quelli
in difesa dell’articolo 18, o in difesa della scuola pubblica, alle lotte
dei lavoratori, sarebbe stato impossibile pensare all’apertura di nuovi
spazi di iniziativa e di partecipazione, alla possibilità - oggi - di
un cambiamento e di un’alternativa di governo.
Così com’è altrettanto evidente che senza i movimenti di
questi anni, non saremmo nemmeno nella condizione di discutere di sinistra alternativa
o di soggettività con all’ordine del giorno il tema della trasformazione
della società capitalista, che è e rimane il nostro obiettivo
strategico. Questa la lezione grande che ricaviamo da un’intensa stagione
sociale, una lezione duratura che dovrà orientarci anche per il futuro.
Ora, mancano pochi mesi alle elezioni politiche. Saremo certamente
parte attiva di un percorso di battaglia e di mobilitazione politica per la
costruzione di un’alternativa di governo. Ma insieme a questo impegno
di carattere generale l’esigenza che abbiamo è di misurarci sulle
prospettive di evoluzione della crisi in Lombardia, tenuto conto del peso assai
grande che la regione ha sulle vicende nazionali. E’ questo il punto da
cui partire, attorno al quale siamo chiamati a sviluppare la discussione in
sede di congresso regionale
Nostra convinzione è che anche in Lombardia, non solo a livello nazionale,
si è aperto un ciclo diverso, un nuovo capitolo della lotta per l’alternativa.
Negli ultimi anni ci siamo trovati di fronte ad una sequenza impressionante
di sconfitte elettorali della Casa delle Libertà. Il centrodestra ha
sì vinto alle ultime elezioni regionali, una vittoria celebrata come
segno di tenuta e di controtendenza rispetto alla sconfitta intervenuta a livello
nazionale. Tuttavia ciò che subito è apparso chiaro è non
solo di un risultato che ha risentito del venir meno della spinta propulsiva
del modello Formigoni (750 mila voti persi) ma di una maggioranza ad altissimo
tasso di litigiosità, in particolare tra Lega e Forza Italia.
Sbaglieremmo se pensassimo a difficoltà che vivono semplicemente dentro
una vicenda di Palazzo, se vedessimo soltanto il risvolto di una guerra intestina
per la distribuzione di posti e soldi nelle principali istituzioni lombarde,
ospedali e aeroporti, autostrade e progetti urbani. La crisi del centrodestra
assume sempre più i contorni di una difficoltà di tenuta di un
blocco sociale per l’insorgere di tutta una serie di contraddizioni sociali,
culturali, economiche.
Proprio per questo la tregua intervenuta all’interno della Casa delle
Libertà, dopo il “caso” Formigoni-Cè, che ha paralizzato
la Giunta regionale per quasi due mesi, è una tregua che lascia il tempo
che trova.
Ciò che dobbiamo smascherare è il doppiogiochismo della
Lega, che dentro queste contraddizioni, avendo già scommesso sulla sconfitta
del Centrodestra in campo nazionale, da una parte punta a incassare il più
possibile (la cosiddetta devolution, il maggior numero di seggi parlamentari,
l’assalto a fette di potere regionale) e dall’altra tenta di rilanciarsi
come il “partito difforme” del Nord che può rappresentare
le insoddisfazioni dei ceti e delle aree produttive colpite dai processi di
globalizzazione. Il giochino va fatto saltare.
Non solo stiamo parlando di un partito che in questi anni è stato dentro
fino al collo a quella che con disprezzo viene definita la “politica romana”,
ma di una forza politica che ha compiuto i peggiori disastri proprio qui, in
molte situazioni, dove governa in prima persona. A questo proposito vorremmo
porre una domanda, credo che la dovremo porre pubblicamente sul territorio:
dove sono finiti i soldi dei tremila bidonati da CredieuroNord, meglio conosciuto
come la “banca della Lega”? Non c’è risposta se non
nell’inaffidabilità e nell’inettitudine, al di là
delle posizioni di destra estrema, di questa forza politica.
Come finirà la vicenda in Lombardia avremo modo di vederlo nei
prossimi mesi. In ogni caso, come abbiamo già fatto, è bene essere
chiari su un punto, e cioè sulla improponibilità di un qualsiasi
accordo o di un qualsiasi abbassamento di tono della battaglia politica, pensando
di ridisegnare per questa via il quadro della maggioranza, o di ottenere chissà
quali risultati.
La proposta di accordo ponte con Formigoni, fatta da alcune forze dell’Ulivo
proprio nel momento di massima crisi della CdL, francamente ci è apparsa
del tutto fuori luogo, grottesca,
sulla falsa riga di posizioni incentrate sul senso di responsabilità
o della governabilità fine a se stessa, il cui unico risultato è
stato quello di ingenerare confusione.
Non si interviene nella crisi della CdL inserendo un cuneo di disponibilità
tra la Lega e le altre componenti a meno che non ci sia la tentazione, questo
il rischio che intravediamo in alcune posizioni, di un ritorno a pratiche moderate,
neocentriste, o a soluzioni bipartisan che trovano qualche ascolto nell’area
del “riformismo” e del “terzismo” milanese.
Ci siamo presentati alle elezioni regionali con un obiettivo preciso: costruire
l’alternativa al centrodestra. Non ci siamo riusciti ma abbiamo aperto
vistosamente un varco. E quando si aprono dei varchi, degli spazi politici li
si deve praticare fino in fondo mantenendo ferma e chiara la prospettiva di
discontinuità con le forze e con le politiche del centrodestra lombardo.
Peraltro la crisi di tenuta della maggioranza in Regione non significa il venir
meno di un disegno politico per quanto riguarda l’azione di governo. Anzi.
Siamo a un salto, ad una radicalizzazione politica con la sussidiarietà,
il federalismo, la competitività, che da semplici modelli organizzativi
sono tramutati addirittura in principi fondativi e strategici dell’identità
lombarda. Come spiegare questa accentuazione di disegno, a prima vista paradossale,
essendo che siamo in presenza di smentite clamorose?
Prendete per esempio il federalismo: l’impatto finanziario che avrebbe
l’attuazione integrale del titolo V della Costituzione sulla nuova spesa
pubblica finale viene quantificato in 13 punti di Pil. Semplicemente insostenibile.
Oppure, altro esempio, l’inconciliabilità della sussidiarietà
o delle politiche di privatizzazione con l’orientamento e la domanda della
stragrande maggioranza della popolazione, che oggi chiede più intervento
pubblico.
Ora a noi sembra che il salto che viene compiuto nei termini di peggioramento
delle politiche regionali più che una dimostrazione di forza sia il segno
di una debolezza, di una difficoltà a trovare delle risposte in avanti
ad una realtà in crisi.
Faccio riferimento al rapporto annuale di “Sbilanciamoci!”. La Lombardia
è sì la regione che produce più Pil d’Italia ma è
anche la regione che non tramuta la ricchezza prodotta in qualità sociale,
riguardo alla quale si colloca solo al nono posto tra le regioni italiane.
Per quanto ci riguarda come rispondiamo? Possiamo stare semplicemente sul terreno
della denuncia delle promesse mancate, dei risultati negativi, dell’incapacità
di farsi carico dei problemi del declino della regione? Oppure, come pensiamo,
bisogna essere capaci di una discontinuità, di una sfida di modello,
di un’idea diversa di sviluppo come promozione di eguaglianza, di reddito,
di diritti, di benessere sociale?
Rimaniamo per un attimo al dato economico e chiediamoci che fine ha fatto l’idea della Lombardia come modello vincente, che fine ha fatto la metafora della Lombardia come locomotiva trainante lo sviluppo nazionale. A noi sembra di una maggioranza di governo completamente bloccata nella comprensione e nelle risposte su ciò che realmente sta venendo avanti. Certo, la crisi c’è ma ciò che viene detto è di una crisi congiunturale, tale comunque da non intaccare “la posizione di primato della Lombardia nel settore economico”.
In realtà i dati, le tendenze, dicono di una crisi senza precedenti per ordine di grandezza e complessità, sia chiaro non come effetto di rimbalzo del rallentamento dell’economia europea ma come vero e proprio allontanamento dall’Europa per quanto riguarda i principali indicatori economici, oltre ai bassi tassi di crescita - mediamente più bassi anche di quelli nazionali - perdita di quote commerciali, deficit della bilancia tecnologica. Secondo uno studio della Cgil, l’80% della perdita di competitività del Nordovest è attribuibile alla nostra regione. Semmai ci fossero ancora dubbi sulla portata della crisi lasciamo al “Sole 24 ore” di fare la fotografia della situazione: ”Nel corso dei secoli la Lombardia è stata sempre sinonimo di business. Non a caso a Londra la via degli scambi e dei commerci si chiama Lombard Street. Negli ultimi 10 anni più della metà della flessione dell’export italiano sui mercati internazionali è attribuibile alla Lombardia”.
Allora, tenuto conto di questa situazione, è ancora possibile parlare
di crisi congiunturale oppure siamo di fronte – questo è ciò
che pensiamo - a qualcosa di nuovo, ad una fase di uscita da un lungo ciclo
di espansione economica e sociale che segna
un’estenuazione, una linea di frattura con il modello che ha dominato
in questi anni? Parliamo del modello di sviluppo competitivo, della crescita
continua fine a se stessa, una sorta di turbocapitalismo regionale incapace
di vedere una situazione di mercato e una situazione ambientale segnate, a differenza
dal passato, dal “limite”.
Ciò che inoltre si è dimostrato del tutto fallimentare è
il pensare che fosse una garanzia di crescita e di competitività di impresa
ridurre i salari e i diritti dei lavoratori, deregolamentare il mercato del
lavoro, smembrare e decentrare interi comparti produttivi, privatizzare i beni
pubblici. Su questa strada si è finito soltanto per alimentare uno sviluppo
senza regole, di bassa qualità, di scarse prospettive oltre che distruttivo
di territorio.
Per non parlare delle coperture offerte a rendita e evasione fiscale, alle attività sommerse, sempre più diffuse a livello territoriale, che non di rado sconfinano nella vera e propria criminalità economica.
In Lombardia più che altrove, il declino è anzitutto un declino
industriale. In questo settore, la dimensione di impresa si attesta intorno
ad una media di appena 8,5 addetti. E’ evidente di una struttura produttiva
con un tessuto di professionalità troppo fragile e dequalificato per
competere con i punti alti della divisione internazionale del lavoro e, al tempo
stesso, con costi troppo alti per reggere il confronto con i paesi in via di
sviluppo.
A giugno 2005 le vertenze occupazionali in regione erano 792, con oltre 100
mila posti di lavoro a perdere o a rischio, 1/3 in più rispetto allo
stesso periodo dell’anno precedente. Questo il risultato di politiche
che hanno portato la Lombardia ad essere il punto più esposto di un declino
industriale, con centinaia di punti di crisi, decine di migliaia di posti di
lavoro a perdere o a rischio, con la chiusura di decine e decine di aziende
che hanno fatto la storia industriale della nostra regione!
A fronte di questa situazione, come non considerare un cambiamento radicale
di prospettiva? Il dibattito è aperto anche su versanti a noi distanti.
Per esempio, lo stesso presidente della Unioncamere della Lombardia riconosce
che “un territorio denso di persone, imprese, infrastrutture e con scarso
territorio non può più inseguire ritmi cinesi… i problemi
di competitività ci sono, ma riguardano più la qualità
dello sviluppo che la quantità della crescita”.
Questo ragionamento può essere un punto di partenza e tuttavia, sia detto
anche rispetto a certe posizioni sindacali o di sinistra, la fuoriuscita da
una fase di incertezza non può essere solo un problema di uscita da un
terreno di bassa competitività qualitativa da realizzare attraverso il
rilancio della formazione, della ricerca, di uno spostamento di attenzione sulle
produzioni a più alto valore aggiunto. La crisi deve essere l’occasione
per rimettere radicalmente in discussione il credo predominante della competitività,
della globalizzazione liberista.
Si tratta di pensare ad una politica di sganciamento da questi modelli di riferimento,
non solo perché comportano la distruzione di regole e diritti che riguardano
il lavoro e gli standard di vita delle persone ma perché su questo terreno,
per forza di cose o si vince o si perde. Non vi sembra una pretesa balorda il
pensare oggi di competere e di reggere in rapporto a Paesi grandi come la Cina
o gli Usa che crescono rispettivamente dell’8 e del 4 per cento? Non è
che invece bisogna pensare ad un altro percorso di sviluppo, ad uno sviluppo
che non sia per forza di cose ridotto ai tassi di crescita e alla conquista
di quote di mercato?
Detto molto sommariamente, insieme a produzioni di qualità, bisogna investire
su un’economia delle risorse e dei bisogni capace di misurare l’utilità
sociale dell’attività economica, bisogna che cresca ciò
che migliora la qualità della vita, delle relazioni sociali, ciò
che è compatibile con gli equilibri ambientali.
Sulla questione ambientale, in particolare, per quanto attiene un modello a
minore consumo di risorse naturali e a minore inquinamento ambientale, non è
più possibile tergiversare. Basta con la reclamistica formigoniana della
Lombardia come uno dei “motori più competitivi d’Europa”!
In realtà stiamo parlando di un motore che è altamente inquinante
e dissipativo, che è a forte intensità di utilizzo di energia,
di risorse, di territorio. Basterebbe dire della Lombardia come l’area
del mondo con il maggior numero di auto pro-capite oppure di un piano energetico
che non rispetta minimamente il protocollo di Kyoto.
Ci sono immagini che dicono più di tante parole circa la portata enorme
della crisi ambientale in atto. Le immagini scattate via satellite che ritraggono
la Lombardia, e più in esteso la Pianura Padana, come una delle aree
più inquinate d’Europa e del mondo. Proprio in questi giorni, a
proposito dell’altissima incidenza di tumori, abbiamo letto del grido
d’allarme di un direttore Asl: ”O si cambia nel giro di sei-sette
anni, oppure sarà una specie di ecatombe”.
Soltanto una straordinaria cecità politica può portare a minimizzare,
a continuare sulla stessa strada come se niente fosse. Per esempio, continuare
a pensare che siccome la nostra economia vive dentro un sistema a competizione
globale, ogni territorio deve valorizzare se stesso avendo di mira l’inserimento
concorrenziale della Lombardia nei grandi circuiti dello sviluppo e della produzione.
Questa è una logica distruttiva che sta portando alla demolizione di
tutti gli strumenti di pianificazione e di controllo ambientale, riconoscendo
ai privati, alla loro cosiddetta “domanda di sviluppo”, grandi poteri
di intervento per quanto riguarda i progetti di trasformazione territoriale,
le grandi opere infrastrutturali, la costruzione di nuove autostrade.
Su quest’ultimo punto specifico la nostra è una posizione netta
anche rispetto al dibattito che è aperto in tutta una serie di ammistrazioni
comunali di cui facciamo parte. Basta con un sistema del trasporto che vive
di un gigantesco consumo di energia e di risorse. Più investimenti nel
trasporto ferroviario, pubblico e collettivo che è la sola risposta di
prospettiva che possiamo dare ai problemi della mobilità.
Più in generale bisogna cominciare a pensare in termini di impulso agli
investimenti pubblici nel campo della prevenzione, della mobilità collettiva,
dei servizi, del risparmio energetico, del riuso dei materiali, della difesa
dei beni comuni e anche su questo nessun sconto di contro ai processi di privatizzazione
che vengono avanti.
La necessità di porre in campo un’altra idea di società
non può che misurarsi con il carattere straordinario dell’offensiva
politica e padronale che viene rivolta contro le regole e i diritti che del
lavoro. Questa offensiva muove innanzitutto da un punto, che è il disconoscimento
dell’esistenza del lavoro e dei lavoratori in quanto tali. E’ sintomatico
come in nessun documento regionale si parli di lavoratrici e lavoratori con
i loro bisogni e i loro diritti. Si tratta di una precisa scelta politica che
coincide con un preciso messaggio ideologico: non è più il lavoro
a creare ricchezza ma è la ricchezza (e l’impresa) a creare il
lavoro.
Il risultato è una svalorizzazione del lavoro, in tutti i sensi, dalla
perdita di diritti e di potere d’acquisto, alla precarizzazione e al deterioramento
delle condizioni lavorative con dati che attestano come in Lombardia si sia
andati più indietro che altrove. Basti dire che nella sola Lombardia
ci sono tanti infortuni sul lavoro quanti nell’intera Germania. Ma c’è
un dato, sopra tutti, a dimostrazione di condizioni che sono peggiorate drasticamente.
E’ il dato sul “lavoro impoverito”. Non è più
come ai tempi di Keynes quando la povertà veniva vista come conseguenza
diretta della disoccupazione. Su oltre 543 mila famiglie povere o a rischio
di povertà ce ne sono tantissime costituite da lavoratori sottopagati,
privi di tutele, di diritti fondamentali. Lavoratori costretti anche a lavorare
in età sempre più avanzata (la popolazione anziana che lavorava
oltre i 60 anni di età nel 2003 era del 27,8% di contro al 24,6% del
1995).
Ed ancora, più dei 3/5 dei nuovi ingressi nel mondo del lavoro sono nella
forma di contratti “atipici”, precari.
Siamo soltanto all’inizio visto il proposito della maggioranza di dare piena attuazione alla legge 30, di ridisegnare il mercato del lavoro in senso compiutamente liberista. In pratica l’idea è di un mercato del lavoro alla stregua di tutti gli altri, un mercato in cui gli “utenti” dovrebbero godere di una supposta “libertà di scelta” di impiego e occupazione. Un inganno colossale.
Avevamo ragione a dire degli effetti a cascata della legge Bossi-Fini. Ciò
che prima è valso per i migranti, la titolarità individuale di
un rapporto di lavoro temporaneo, la ricattabilità di questo rapporto,
è stato poi perseguito per tutte le lavoratrici e i lavoratori italiani.
Anche per questo nessuna divisione, la lotta contro la precarietà e le
disparità è una lotta di classe da portare avanti nell’interesse
di tutte le lavoratrici e lavoratori. Dunque, se proprio si deve parlare di
libertà di scelta, questa non può che essere perseguita in senso
radicalmente diverso, nei termini di un’uscita dal mercato del lavoro
capitalistico, nei termini di un diritto al lavoro e tempo scelto, di una riduzione
dell’orario di lavoro a parità di salario, di lavoro e di reddito
garantito come fonte di dignità e di sicurezza nei percorsi di vita.
Diversamente, rendere il lavoro flessibile, precario e intermittente significa
soltanto rendere precari e intermittenti i diritti di cittadinanza democratica,
sociale.
Facciamo diventare la lotta contro la legge 30 e la precarietà punto
centrale della nostra iniziativa. Raccogliamo l’esperienza importante
della Rete regionale contro la precarietà che opera ormai da due anni
a questa parte. Una battaglia che in Lombardia può avvalersi di due progetti
di legge di iniziativa popolare, l’uno per il riconoscimento della funzione
sociale del lavoro stabile e a tempo indeterminato, l’altro per il diritto
di ognuno al reddito minimo garantito. Sapendo una cosa: che senza questo diritto
al reddito, diritto che rende ogni altro diritto effettivo, viene meno anche
l’affermazione della dignità delle persone.
Secondo alcune ricerche, soltanto a Milano ci sono 250 mila persone, cioè
un cittadino su cinque, che sono povere o che stanno in equilibrio precario
sulla soglia di povertà. Al contempo cresce il numero delle famiglie
lombarde (+ 28% in un solo anno) costrette a ipotecare lo stipendio per pagare
scuola, sanità e casa.
L’altra faccia della realtà è quella di una regione in cui
si accumulano grandi ricchezze finanziarie, ma solo a beneficio di una ridotta
classe di superprivilegiati, quella che, con patrimoni finanziari da 500 mila
a oltre 50 milioni di euro nel 2004, attende per quest’anno un incremento
medio del 10%.
Bastano questi pochi dati per dire della vacuità di certe rappresentazioni:
la Lombardia come “terra delle opportunità”, in cui “ognuno
è libero protagonista della propria vita”. La realtà, alquanto
diversa, è quella di una vera e propria crisi di disuguaglianza. Mentre
i ricchi diventano via via più ricchi il resto della popolazione viene
sospinta in una condizione di crescente “vulnerabilità sociale”
anche per effetto di una politica che ha ristretto drasticamente i diritti e
la sfera della sicurezza sociale.
Sotto questo punto di vista siamo in presenza di una società che sta
radicalmente cambiando, che si configura sempre più come “società
di mercato”, dove per gli individui che la compongono non c’è
più “il diritto ad avere diritti”, ad avere garanzie e protezione,
se non mobilitando le proprie risorse, le proprie capacità contrattuali,
alla faccia del “pieno protagonismo delle persone e della società
civile” di cui parla la destra. Ma è protagonismo dire che i cittadini
devono sempre più arrangiarsi nel campo dell’istruzione, della
salute, dell’occupazione, della casa così come per tutta una serie
di bisogni sociali? E’ protagonismo il fatto che le donne in prima persona
devono sopperire con il proprio corpo, la propria fatica, la propria vita allo
smantellamento dello stato sociale?
La realtà è di una destra che sta facendo politica sullo smantellamento
dell’intervento pubblico e su una spesa pubblica manovrata in funzione
di un blocco sociale di potere, dei tanti interessi che intrattengono rapporti
privilegiati con le forze di governo, Compagnie delle opere in testa.
Il problema è cosa fa l’opposizione, cosa fa la sinistra. Basta
lanciarsi all’inseguimento di parole d’ordine ingannevoli: il federalismo,
la sussidiarietà, la parità!
Se non vogliamo assistere impotenti ad una devastazione di legami sociali, ad
una crescita delle esclusioni e dei corporativismi, siamo chiamati a rilanciare
l’intervento pubblico, a sviluppare un sistema dei diritti, il diritto
alla salute, allo studio, al lavoro, alla cultura, ai servizi di pubblica utilità,
un sistema in cui sia ridata centralità ai bisogni sociali e alla dignità
delle persone.
Ciò che vorrei infine richiamare è l’impegno, fondamentale
nel tempo in cui viviamo, di andare allo smantellamento della cultura dominante
della guerra, alla costruzione di una nuova cultura della pace e della nonviolenza.
Non intendiamo soltanto dire di un impegno di ordine generale, la mobilitazione
contro la guerra in Iraq, contro tutte le guerre, contro il terrorismo, certamente
da rilanciare a partire dalle manifestazioni di Roma e di Milano di questa settimana.
Non c’è più nessun alibi, dopo le impressionanti immagini
sull’utilizzo delle armi chimiche da parte dell’esercito americano.
Le truppe italiane e tutte le truppe di occupazione devono essere immediatamente
ritirate dall’Iraq!
Insieme a questo impegno di ordine generale, ci interessa dire anche di un impegno
che va tradotto in iniziative concrete da calare nelle realtà in cui
viviamo.
Oggi siamo in presenza di orientamenti nel campo della politica estera in larga
parte improntati ad un’ottusa autoreferenzialità, al peggior unilateralismo.
Affermazioni del tipo: bisogna “esportare il sistema economico lombardo”,
bisogna promuovere “il collegamento tra la Lombardia e i territori strategici
per lo sviluppo delle relazioni di affari”; ed ancora “bisogna aprirsi
a tutte quelle realtà disponibili ad abbracciare il modello lombardo”.
Deve essere chiaro, i risultati di queste politiche non sono solo nei termini
di una rottura di ogni nesso tra Nord e Sud, di una secessione di fatto della
nostra regione “avanzata” dal tema della solidarietà, della
cooperazione. Le ricadute sono sul piano interno in termini di ineguaglianze
territoriali, di divisione tra cittadini di serie A e di serie B.
Non ci sono solo i fatti di Parigi e della Francia. Anche qui da noi c’è
un rischio, quello delle banlieues dei nuovi emarginati per i quali la sola
risposta, spesso, è quella del restringimento delle libertà, delle
politiche securitarie. Oppure quella di essere abbandonati, alla mercé
di manifestazioni di intolleranza, di xenofobia specie nei confronti dei migranti
che orami costituiscono una fetta rilevante della popolazione residente nella
nostra regione.
Sia detto, l’esistenza di un luogo di segregazione, impenetrabile, come
il Cpt di Via Corelli è una vergogna per Milano e la Lombardia. Bisogna
che si vada alla sua chiusura!
La Lombardia protagonista di relazioni internazionali? Certo, ma il punto di
vista non può che essere quello della pace e della cooperazione internazionale,
e insieme della costruzione
di un nuovo modello di civiltà i cui valori fondanti siano sul terreno
dei diritti, dell’uguaglianza, della partecipazione sociale, dell’allargamento
del diritto di voto ai migranti.
Non dimentichiamo, inoltre, che la Lombardia è la prima produttrice di
armi in Italia. Bisogna disarmare la Lombardia: l’obbiettivo è
di una riconversione della produzione armiera in attività di beni e servizi
di uso civile. Per questo massimo sostegno al progetto di legge di iniziativa
popolare alla cui campagna di raccolta firme abbiamo dato il nostro contributo.
Scegliere la pace, infine, significa scegliere un modello alternativo sul piano
ecologico e sociale. Il che significa che noi dobbiamo assumerci qui e ora la
responsabilità di cambiare il nostro sistema di vita che è un
sistema di uso e consumo di risorse per pochi, questo a partire dalle nostre
città, dalla nostra vita quotidiana, prendendo atto del fallimento della
promessa di una crescita generale e inclusiva.
Un altro mondo è possibile. Bisogna impegnarci a costruirlo sapendo che
nostro futuro dipende dal successo di questa sfida.
Abbiamo parlato del contesto e di alcuni temi di politica regionale. Detto ciò,
questo nostro Congresso è anche l’occasione per un bilancio del
lavoro svolto.
Innanzitutto, se dovessi dire del tratto con cui abbiamo teso a connotare le
discussioni e il lavoro di questi anni, direi essenzialmente di una forte e
insistente sottolineatura nel senso di un partito fondato sul radicamento e
sul primato dell’iniziativa sociale. Vale per noi una lezione fondamentale
di Marx, per il quale “ogni passo di movimento reale è più
importante di una dozzina di programmi”.
Per procedere in questa direzione c’è bisogno di un partito che
stia dentro le contraddizioni, i conflitti, che promuove le lotte. Un partito
che costruisce mediante connessione, che opera in maniera sistematica per educare
alla politica di massa, alla partecipazione attiva.
Proprio per questo abbiamo insistito e investito molto, al di là delle
scadenze nazionali, nella costruzione di campagne di massa, di iniziative pubbliche
e di piazza, di raccolta firme su progetti di legge di iniziativa popolare,
di costruzione di reti in ordine a diverse problematiche, da quelle contro il
buono scuola a quelle contro la precarietà e la legge 30, da quelle contro
la privatizzazione dei beni comuni alle campagne per il disarmo, da quelle in
difesa della sanità pubblica e per l’abrogazione dei tickets a
quelle sui temi dell’immigrazione, e poi ancora le iniziative in campo
ambientale.
Dunque, come partito regionale non ci siamo limitati ad assolvere il ruolo tradizionale
di produzione di servizi a supporto delle federazioni. Abbiamo inteso operare
per uno sviluppo di presenza in importanti campi di iniziativa di partito e
di movimento, aprendo al contempo un’interlocuzione con soggettività
esterne, associative, sindacali e politiche. Siamo stati promotori, possiamo
dirlo senza falsa modestia, di una molteplicità di iniziative e proposte
che per la loro portata sono diventate punto di riferimento anche per altre
realtà regionali.
Tre anni fa, in occasione del nostro primo Congresso regionale, di fronte al
progetto neocorporativo del “Patto per lo sviluppo” promosso da
Formigoni, lanciammo la proposta
di “dare vita insieme a forze sindacali, politiche, sociali, associazioni,
comitati vari, ad una rete di discussione e di lavoro, una sorta di contropatto
dal basso”, con l’obiettivo di costruire un’alternativa
di disegno politico per la nostra regione. Decidemmo allora i primi incontri
aperti, le prime assemblee regionali con l’idea di costruire uno schieramento
per “un’altra Lombardia” - altra cosa e con altro impatto
certamente dall’esperienza di ”Altralombardia”, costituitasi
autonomamente, per altri canali, in occasione delle ultime elezioni regionali.
Ma ciò che vogliamo rimarcare è il senso, la continuità
di alcune scelte, per quanto ci riguarda un’idea di politica e di costruzione
del partito in termini di confronto aperto con aree
di sinistra alternativa. Recentemente abbiamo tenuto a Bergamo un incontro regionale,
molto bello e partecipato, con realtà sociali e di movimento. Ancora
una volta abbiamo avuto riprova di uno spazio, di una prospettiva per quanto
riguarda la costruzione e il consolidamento di un’area alternativa nella
nostra regione.
La presa di contatto, la lettura di questa realtà, ci ha portato ad operare
un forte investimento in termini di apertura anche in occasione delle ultime
elezioni regionali. Un investimento che abbiamo fatto non solo per un risvolto
di ordine elettorale, ma per un’idea della rappresentanza politica che
si costituisce in collegamento, in rapporto dialettico con le istanze che sono
proprie della rappresentanza sociale.
Il risultato ottenuto alle regionali è un risultato di tutto rispetto,
tendenzialmente più avanzato di quello nazionale, anche se al di sotto
delle più generali aspettative. Con questo non voglio sottacere il rammarico
che attiene alla mancata conferma di alcuni elementi di continuità del
lavoro istituzionale.
Ma insisto, ciò non può far venir meno l’importanza, la
positività di un risultato complessivo che non va letto solo per i voti,
ma per le potenzialità che dischiude, la formazione di un gruppo consiliare
che può contribuire ad aprire una nuova fase per il nostro partito, più
rivolta alla costruzione di rapporti esterni, del rapporto con le associazioni,
con il mondo del lavoro.
Buon lavoro, compagni consiglieri, e non ce ne vogliate se diciamo di un lavoro
che vorremmo portato a compimento prima della scadenza naturale della legislatura,
con la sconfitta di Formigoni!
Un altro aspetto intendiamo richiamare. C’è un lavoro che è
andato nel senso di un partito più organizzato, più funzionante,
di un centro regionale più capace di alimentare l’iniziativa dell’intero
partito.
Uno degli obiettivi che ci eravamo dati all’inizio del nostro mandato
e che abbiamo portato a compimento è l’acquisto di una nuova sede
regionale facendo partecipe di questa operazione la federazione di Milano. Ci
siamo dotati di strumenti di informazione (Liberamente, sito internet, newsletter
e informazione via posta elettronica), che ormai costituiscono aspetti decisivi
del nostro agire politico. Strumenti che però non possono fare a meno
di accompagnarsi con un impegno maggiore alla diffusione e alla circolazione
del nostro quotidiano Liberazione.
Va però detto anche di un lavoro che non sempre si traduce in radicamento
organizzativo, in crescita degli iscritti.
E’ vero che in questi anni abbiamo dovuto fare i conti con la crisi delle
forme tradizionali della politica e della rappresentanza. Ma mi chiedo anche
se da parte nostra non vi sia qualche elemento di sottovalutazione dell’importanza
del nostro essere forza politica organizzata. Oppure, ancora, se non vi sia
un problema di operatività, di funzionamento del partito da supportare
con un investimento di attenzione e di risorse maggiore in funzione della crescita
del partito nei territori.
Proprio nei territori, l’esigenza immediata che abbiamo è di un
lavoro per non disperdere il risultato straordinario di partecipazione che abbiamo
avuto in occasione delle primarie. Quasi 94 mila voti a Bertinotti in Lombardia
- più di un terzo circa dell’elettorato di Rifondazione - sono
un dato straordinario. Il problema è adesso di tradurre questo risultato
in termini di continuità di partecipazione, di iniziativa, di crescita
del partito.
Infine, che risposta diamo a una delle novità di questi anni, ovvero
alla scesa in campo di una nuova generazione?
Anche in Lombardia il mondo giovanile si è reso protagonista di fatti
importanti, positivi: la lotta contro i buoni scuola e la riforma Moratti –
straordinarie le mobilitazioni studentesche di queste settimane, a cui va il
nostro pieno sostegno -, la lotta contro la precarietà, le iniziative
sul versante dei migranti, i centri sociali.
Avverto perciò una necessità, quella di un partito maggiormente
aperto alla realtà giovanile, alla sua spontaneità, alle sue differenze.
Non basta il riconoscimento, qualche volta paternalistico, di una presenza e
di un lavoro dei Giovani comunisti. Dobbiamo dire a chiare lettere di un aumento
del peso politico delle nuove generazioni, sapendo che non c’è
rinnovamento e sviluppo del partito se non c’è un’apertura
in questa direzione. Così come non possiamo rassegnarci ad un partito
gestito sostanzialmente da un genere, quello maschile, perché questo
significa avere un partito monco e deprivato della possibilità di prodursi
in un salto di qualità.
Per concludere, stiamo vivendo una fase politica nodale. Ciò che non
possiamo permetterci è un indebolimento di percezione dei problemi che
abbiamo davanti, dall’opposizione alle politiche dei governi di centrodestra,
al sostegno delle lotte dei lavoratori, alle imminenti scadenze elettorali.
In particolare penso alla giornata di lotta della più forte categoria
operaia dell’industria, ovvero allo sciopero dei metalmeccanici del 2
dicembre. La posta in gioco è grande, non solo il contratto, il salario,
ma un’idea di società, di sviluppo, dei diritti di chi lavora.
Facciamo sentire il nostro sostegno, così come è importante la
nostra partecipazione allo sciopero generale contro la finanziaria del 25 novembre.
Penso altresì all’importanza dell’esito del Congresso Cgil.
Il più grande sindacato italiano è chiamato a reinterpretare un
ruolo che non potrà risolversi in un ritorno al passato, a collateralismi
politici, ma che dovrà andare nel senso di rilanciare il protagonismo
e il punto di vista autonomo dei lavoratori.
E poi ancora, al di là delle elezioni politiche, credo che sia a tutti
presente la portata delle elezioni amministrative della primavera prossima.
A questa tornata sono interessati 215 Enti locali lombardi per un totale di
quasi due milioni di elettori. Inutile sottolineare la portata strategica delle
elezioni comunali di Milano, e l’importanza delle primarie cui parteciperemo
con la candidatura di Dario Fo, nel cuore pulsante di un berlusconismo che possiamo
finalmente portare alla sconfitta.
A fronte di queste scadenze impegnative abbiamo bisogno come non mai di unire
e di utilizzare tutte le nostre potenzialità di lavoro politico.
Certo che anche nel nostro partito ci sono differenze, e fortuna che queste
esistono! Ma c’è una scelta che deve impegnarci tutti, nessuno
escluso, dato che nessuno è perfetto, e cioè la partecipazione
alla vita del partito nei termini di un reale confronto politico, di un confronto
che non scada mai in personalismi o in una sorta di contrapposizione, al maschile,
tra posizioni rinchiuse in se stesse.
Insieme ad un’opera di unità c’è un’opera di
rinnovamento che dobbiamo portare avanti. Anche qui, quando si parla di gruppi
dirigenti o di apparati, penso che dobbiamo rifuggire da una sorta di “permanentismo
politico”, perché un partito che ristagna, che si autoconserva
è inevitabilmente un partito che si impoverisce. E proprio per questo,
lasciatemelo dire, siamo contenti per tutto ciò che di nuovo, di giovani
e meno giovani, di indipendenti, di esponenti di vari movimenti, abbiamo contribuito
ad avvicinare, a mettere in relazione con il partito nel corso di questi anni.
Naturalmente quello che vale per tutti vale per noi stessi. Abbiamo avuto la
responsabilità di dirigere il partito nella più importante regione
d’Italia per oltre cinque anni. Lo abbiamo fatto unitamente al contributo
di lavoro e di direzione di molti. Nel ringraziare tutti, permettetemi, in particolare,
di ringraziare il compagno presidente Giuseppe Sacchi per il senso di rigore
e di correttezza dimostrato in tutti questi anni.
Ora, credo che dobbiamo guardare per tempo ad una nuova fase, ad una prospettiva
di rinnovamento e di spinta ad un avanzamento del partito.
La proposta che facciamo è di una Conferenza di organizzazione da tenersi
subito dopo le elezioni della primavera prossima. Ma già a partire da
questo Congresso ognuno di noi deve sentire forte il senso di una responsabilità.
Tante sono le persone che guardano a Rifondazione Comunista come a un punto
di riferimento intorno a cui riporre e far vivere le proprie speranze, la domanda
di costruzione di un’altra società fondata sulla pace, sulla libertà,
sulla giustizia e sulla felicità delle persone.
Qui con noi avrebbe dovuto esserci Vittorio Lazzaroni, un compagno di grande slancio e dedizione politica scomparso improvvisamente due giorni fa. Ci mancherà tanto il suo apporto, così come quello di altre compagne e compagni carissimi che ci hanno lasciato in questi anni.
Anche per loro, siamo chiamati fare un buon Congresso.