Siamo arrivati al dunque. Nelle ultime vicende del governo possiamo leggere tutte le incognite del
periodo che stiamo attraversando.
Un periodo segnato anche dal fragile tentativo di imprimere segni di progressismo allo sviluppo del
paese sottraendolo all’egemonia che il blocco moderato e i poteri forti esercitano da più di
un decennio.
Ma non proprio caratterizzato da questo tentativo, se lo sforzo della sinistra radicale – Prc,
Verdi e Comunisti italiani – di portare dentro la compagine governativa i temi forti del conflitto
sociale si è infranto contro una massa critica di interessi, cultura e posizionamenti internazionali
che ha preferito una crisi di governo al rischio di cedere sovranità alle istanze di democrazia
del paese.
In più, visto che parliamo di un governo che non era certo l’alleanza “popular” di Allende, abbiamo l’esatta dimensione della fragilità del “mite” processo messo in moto dalle elezioni scorse emendato da questo passaggio con un maggior moderatismo e vincoli di comportamento che irreggimenteranno la dialettica politica a sinistra.
E non solo della sinistra radicale, che va incontro ad un serio processo di implosione, ma della
stessa sinistra del futuro partito democratico messa all’angolo dai richiami al “realismo” di
Fassino e Rutelli che sono gli unici beneficiari di questa accentuazione del carattere neocentrista
e moderato verso cui il sistema italiano si è incamminato da tempo.
In attesa che la riforma elettorale e il partito democratico facciano il resto.
Per dirla in una battuta, la presidenza Bertinotti alla Camera dei Deputati assomiglia molto alla moda in uso in certi ambienti di invitare i barboni al cenone di natale, tanto dopo il caffè se ne vanno.
Sarà brutale ma è questo il contesto in cui ci muoviamo, quindi cominciamo a prenderne atto prima che sia troppo tardi.
Innanzitutto, dicendo che indipendentemente dalla collocazione di ognuno, non ci sembra che si
profilano all’orizzonte prospettive alternative al tentativo di contrastare come possibile,
in ogni ambito, la deriva moderata in atto.
Non siamo di fronte ad una contingenza, ma alla progressiva maturazione di un processo che prima
di tutto è strutturale e solo poi politico.
Per questo la trita tendenza della sinistra-sinistra al nuovo partito che risolve in se le contraddizioni irrisolte del rapporto politica-società, non ha gambe lunghe.
Soprattutto perché ancora non ha gambe sociali ne testa politica un reale processo di aggregazione
delle sterminate periferie delle metropoli, delle nuove forme del lavoro, dei migranti e dei diseredati
del mezzogiorno che farebbero la differenza, ma in cui la politica, compresa quella di sinistra è presente
in maniera ultramarginale.
Il vero antidoto al neocentrismo moderato infatti passa esattamente per la conquista di settori sociali
esclusi dalla rappresentanza, per la definizione di nuove identità collettive attraverso cui
rivoluzionare lo stesso concetto di democrazia, piuttosto che nello sport in voga a sinistra di contendersi
i favori della parte già progressista dello schieramento sociale.
Perché a questo si riducono spesso molte battaglie anche importanti.
Come se la posta in gioco non fosse una forma di rappresentanza adeguata alla modernità, ma
chi esercita la rappresentanza politica, con il corollario di accuse di tradimento reciproco riesumate
dallo stupidario storico della sinistra.
L’insufficienza storica e collettiva di un intero sistema di valori si trasforma così nello
strumento per una battaglia ideologica che francamente non ci appassiona, perché non è più il
movimento e le sue dinamiche concrete fatte di avanzamenti e arretramenti il terreno di superamento
di categorie come l’autonomia del politico e del sociale, ma il mondo delle pie intenzioni.
Un mondo talmente impermeabile alle cose concrete da sconfinare nel solipsismo - l’esaltazione
soggettiva del proprio buco del culo - al punto che posizioni e partiti con un piede nel partito
democratico diventano campioni di democrazia da contrapporre al Prc e alla Sinistra Europea; percorso
che come ogni altro sarà sicuramente parziale, ma che almeno ha il pregio di porsi chiaramente
in alternativa a chi si candida a gestire una lunga fase di neocentrismo moderato.
Mentre non è lo stesso per Verdi e Pdci, una differenza che, almeno per onestà intellettuale,
andrebbe presa d’atto.
La stessa onestà intellettuale che consigliamo al gruppo dirigente del Prc alle prese con la costituzione di questo importante processo aggregativo, a maggior ragione adesso che il boccino passerà ancora una volta ai movimenti, alla società civile organizzata, all’associazionismo di base, alla sensibilità democratica del paese chiamati a segnare una differenza di cui la politica è incapace.
Perchè sappiamo bene che la crisi della politica e della rappresentanza si manifesta anche
nell’allargamento della pletora dei questuanti della politica, del lobbismo d’assalto
buono per tutto le stagioni a detrimento dei movimenti reali.
Un fenomeno sociale e politico che ha immeritatamente preso il posto di quella che una volta era
la classe intellettuale del paese e che oggi si candida a rappresentare ogni nuovo processo politico.
Una realtà responsabile di larga parte delle insofferenze verso la Sinistra Europea vista
soprattutto come strumento per l’ascesa di questo ceto politico autoreferenziale, di generali
senza esercito buoni solo per riempire le locandine dei mille convegni inutili in cui si celebra
solo la distanza dalla realtà.
Una situazione che ci ricorda che l’anno di cui ricorre il trentennale sta ancora tutto lì, con il suo significato e le sue domande in attesa di risposta.
Tanto che tra le esperienze politiche che hanno meglio retto l’impatto di questi anni attraversando tutti i momenti di conflitto e i movimenti che si sono succeduti, non poche provengono proprio dalle culture sedimentate da quel movimento o meglio, che in quel movimento e nelle sue domande hanno intravisto uno spiraglio per una “uscita dalla crisi”.
Come le esperienze dell’autorganizzazione sociale, il sindacalismo di base, le reti della democrazia partecipata, il fare e raccontare società.
E’ soprattutto per queste culture che oggi possiamo parlare di un processo alternativo possibile,
per la tenacia con cui hanno difeso, da minoranza, il diritto a resistere costruendo forti insediamenti
sociali e culturali dove più di un “dirigente politico” è stato spazzato
via.
Culture che hanno contaminato anche esperienze come il Prc stesso, la Fiom, l’Arci e tanti
altre che oggi contribuiscono a mantenere la barra sui nessi sociali nel rapporto con la modernità.
Culture che hanno mantenuto alta l’attenzione su temi sociali importanti come la questione
abitativa, che resta al centro dell’agenda politica quasi esclusivamente per la presenza in
due aree metropolitane, Roma e Firenze, di forti e radicati movimenti di lotta che hanno restituito
dignità al dramma dei senza casa avendo contro tutti i sindacati ufficiali e la cultura governista
di questo centro sinistra.
Ecco perché adesso siamo arrivati al dunque, perché è arrivato il momento
di superare in avanti sia i limiti politici di un movimento che spesso scambia forma con sostanza,
che quello di processi aggregativi interessanti che rischiano di annegare la sostanza in ossequio
a priorità formali.
E’ arrivato il momento di segnare discriminanti e dominanti in assenza delle quali tutte le
vacche sono grigie come una notte senza luna.
E sul nulla non si fonda nessun progetto politico.
Nei prossimi mesi bisogna sciogliere il dubbio se quello che si vuole è soprattutto un viatico elettorale per i tanti scontenti del partito democratico, oppure un vero laboratorio politico sociale in cui sperimentare un nuovo soggetto con la testa rivolta al conflitto sociale e ai processi di trasformazione reale del paese.
Per quanto ci riguarda le nostre priorità restano quelle poste dal movimento complessivo dal no alla guerra in poi, ma è soprattutto sulla conquista delle prerogative della cittadinanza per tutti che intendiamo misurarci.
Una cittadinanza letta attraverso un diritto all’abitare che coniughi diritto alla casa e
diritto all’esistenza, urbanistica partecipata e diritto all’accoglienza, spazio pubblico
e beni comuni.
Una proposta fatta di battaglie concrete e di consultazioni dal basso che promuovano una campagna
nazionale per una legge di iniziativa popolare sul diritto all’abitare sperimentando forme
di contrattazione metropolitana e di partecipazione dei cittadini al governo delle città come
sta accadendo a Vicenza.
Un percorso di cui la manifestazione del 12 Marzo a Roma sarà un primo passaggio fondamentale per affermare che le politiche abitative vanno scritte insieme ai cittadini e ai movimenti che sono le vere risorse democratiche delle città, e non i Caltagirone come crede Veltroni.
Ma quanti sono quelli disposti a scommetterci? Impegnandosi intanto per una partecipazione di massa alla mobilitazione del 12 e non per l’adesione formale che non si nega mai a nessuno, ma soprattutto disposti a credere che la realtà si cambia tutti i giorni anche senza un Ministro sensibile a cui rivolgersi.
Quanti cioè sono disposti a mettere a disposizione la posizione che occupano per un processo
di trasformazione reale dell’esistente? Misuriamolo insieme.
Dopo la manifestazione costruiamo l’occasione – a Roma ma non solo – per avviare
una riflessione sulla città che non ci piace e su quella che invece vorremmo, riprendendo
i nodi sociali e politici sollevati da Carta con la “questione romana”.
Misuriamo sulle idee e sulle proposte di percorso la possibilità che uno spazio pubblico costituente di nuova cittadinanza possa contendere egemonia al veltronismo rimettendo le priorità cittadine con i piedi per terra.
Comunque vada, non sarà stato tempo perso.