La più grave crisi capitalistica mondiale del secondo dopoguerra è ben lontana
dal suo superamento. Per tamponarne gli effetti i governi dei principali paesi capitalistici
- in primis gli Usa - hanno trasferito il debito privato sul pubblico, mettendo a rischio di
default interi stati: il caso della Grecia è solo la punta di un iceberg che potrebbe
provocare grandi sconvolgimenti degli assetti mondiali. L'Italia somma alla grande crisi mondiale
la crisi dovuta alla sua peculiare struttura capitalistica, caratterizzata dalla pochezza delle
grandi imprese strategiche (quelle a partecipazione statale furono distrutte nella grande ondata
di privatizzazioni degli anni 1990-2000) e da una vasta presenza di microimprese sottocapitalizzate
e poco propense agli investimenti, sopravvissute sul mercato solo grazie alla fortissima compressione
salariale. Questa duplice crisi strutturale, indice di una significativa anomalia dell'Italia
rispetto ai principali paesi della Ue, rende più grave la situazione economico-sociale
- con un pesante peggioramento delle condizioni dei proletari e di vasti strati di piccola e
media borghesia - e più difficile e incerta una possibile ripresa economica negli anni
futuri.
Non estranea all'anomalia del capitalismo italiano rispetto ai grandi paesi della Ue è l'anomalia
politica - nonché culturale, ideologica, di costume - del
“berlusconismo”, che è stata la formula che da oltre 15 anni ha risposto, benché contraddittoriamente,
al passaggio di fase della storia italiana post 1989, con la demolizione della repubblica nata
dalla Resistenza a tutto vantaggio delle classi proprietarie, le cui diverse frazioni sono alla
ricerca della soluzione politico-istituzionale più
adeguata per gestire i rapporti interni ai dominanti da un lato, e quelli con le classi subalterne
dall'altro. Ma le sue pulsioni sovversive, l'assenza di regole oligopolistiche e “di sistema” in
materia di conflitto di interessi, il conflitto permanente con uno dei poteri dello stato, la
magistratura, e una politica estera non sempre del tutto allineata, per motivi tutt'altro che
limpidi, con Usa e Ue, rendono il berlusconismo meno accetto di prima alla grande borghesia europea
e a una parte dei poteri d'oltreoceano, che preferirebbero oggi un'Italia governata, parafrasando
D'Alema, da una “destra normale”
(opzione Fini) o da un centro-sinistra organicamente imperniato e stabilizzato al centro.
In questo contesto va collocata la valutazione delle elezioni regionali del 2010.
In una situazione che dovrebbe segnare un forte indebolimento dell'egemonia di sistema - a causa
della crisi economica, che rivela le contraddizioni strutturali del capitale, e della crisi politica,
per le frizioni tra le diverse frazioni borghesi -, il risultato elettorale consolida, pur all'interno
di un mutamento dei rapporti di forza nella coalizione berlusconiana a vantaggio della Lega,
il governo, e conferma, anzi accentua, i rapporti di subordinazione delle classi lavoratrici.
Dopo queste regionali il proletariato è più povero di rappresentanza politico-istituzionale,
più
emarginato, più afono.
Nel campo delle forze di governo - vista la sua tenuta e la debolezza delle opposizioni - si
prepara la strada al patto d'acciaio Bossi-Berlusconi con la micidiale accoppiata di federalismo
e presidenzialismo, che infliggerebbe il colpo finale alla Costituzione con una nuova forma di
stato e di governo. Non sappiamo se le classi dominanti, i “poteri forti”, riusciranno a realizzare
effettivamente la formula politico-istituzionale adeguata all'attuale fase capitalistica, costruendo
un duraturo dominio di “destra normale” o di centro. Sul modo in cui arrivare a questo sono ancora
divisi: l'ala berlusconiana parla di riforme costituzionali da attuare a colpi di maggioranza,
quella finiana di “riforme condivise”, con l'avallo del presidente Napolitano e le aperture del
Pd (con la “bozza Violante” come cavallo di Troia).
Il quadro che si prospetta è estremamente preoccupante. Sull'Italia sta calando una duplice
mannaia: sul terreno economico-sociale, con l'aumento di licenziamenti, disoccupazione, tagli
alla spesa sociale per sanità, scuola, servizi; su quello costituzionale, con una ‘riforma'
che accentra i poteri nelle mani del presidente del consiglio e li toglie alle assemblee elettive,
ridotte al ruolo di mera ratifica di decisioni prese al di fuori e al di sopra di esse. Il federalismo
fiscale accentuerà le diseguaglianze sociali. Nel contesto della più grave crisi
mondiale l'Italia vive una duplice emergenza e il nesso tra emergenza economico-sociale ed emergenza
istituzionale va colto in tutte le sue implicazioni. Non si può
affrontare l'una senza tener conto dell'altra.
Rispetto a questa situazione, enorme è la responsabilità dei comunisti, delle forze
di sinistra e democratiche.
Alle compagne e compagni che si sono battuti generosamente nella campagna elettorale, senza mezzi né risorse e in un oscuramento mediatico che non è evidentemente casuale, va tutta la gratitudine dei comunisti. Il loro impegno ha evitato che - come era nei disegni del padronato - le forze della Federazione fossero annientate. Ciò avrebbe facilitato e accelerato processi di erosione e disgregazione e reso molto più difficile il lavoro di ricostruzione di un partito comunista adeguato alle difficili sfide del nostro tempo. La parziale tenuta delle forze comuniste che sono l'asse portante e di gran lunga prevalente - in molti casi l'unico - della Federazione della Sinistra (FdS), pur ridotte ai minimi termini, è un dato che non va ignorato.
L'analisi del voto però non può vederci reticenti: rispetto alle europee di dieci
mesi fa, in una situazione sostanzialmente analoga, perdiamo un terzo dei nostri voti e non riusciamo
minimamente ad invertire la rotta di una progressiva perdita di consenso. Pur considerando la
differenza tra voto regionale (dove possono valere interessi localistici) e voto politico europeo,
il dato è
comunque allarmante e non può assolutamente essere sottovalutato: la relativa tenuta porta
il segno di una resistenza residuale, non della ripresa di un forte progetto politico e organizzativo
e sarebbe miope e sciocco - oltre che politicamente colpevole - trincerarsi dietro la magra consolazione
che tutto sommato si sopravvive ancora.
Per non disperdere il piccolo patrimonio (di militanza e di voti) che ci è
rimasto, dobbiamo saperlo investire in un progetto politico capace di parlare al paese ed al
popolo della sinistra.
Si discute se i risultati elettorali sono più o meno favorevoli se ci si presenta in coalizione
col Pd, o da soli, o con Sel in opposizione al Pd come nelle Marche. E, con risultati tanto divergenti,
ciascuno può portare l'acqua al proprio mulino, sostenendo la necessità di alleanze
più organiche con Sel o col Pd. Ma in realtà i comunisti raccolgono consensi lì dove
hanno seminato, lì dove lavorano nei territori e si presentano con una linea politica
chiara, “di classe”, lì dove si presentano come una forza utile, perchè incidente.
La questione delle possibili alleanze viene dopo (e non in termini temporali): ci si può alleare
con qualcuno se si è
qualcuno, se si ha una propria forza e progetto. Altrimenti si è
condannati comunque alla marginalità, alla subalternità e all'estinzione. Qualsiasi
proposta di alleanza nella forma di patto federativo o anche di semplice blocco elettorale richiede
un soggetto comunista forte e strutturato.
Questo occorre prima di tutto, non vi sono scorciatoie al di fuori del processo consapevole della
ricostruzione comunista.
La questione dell'unità e dell'autonomia politica, teorica e organizzativa dei comunisti
per la ricostruzione di un partito comunista adeguato ai problemi della nostra epoca è più che
mai all'ordine del giorno.
La FdS è nata nel luglio 2009 come compromesso possibile tra le divergenti istanze di
chi poneva il tema dell'unità e dell'autonomia comunista, da un lato, e chi dall'altro
lo osteggiava fortemente con argomenti ancorati a culture non comuniste, o comunque lontane ed
estranee (se non ostili) ad esse. La vita stessa della FdS è stata inficiata da questi
approcci divergenti (a partire dal nome, che ha cancellato anche la parola “comunista”, pur essendo
la FdS composta al 95% da Prc e Pdci), e la sua proposta politica ne è
risultata appannata. Anche in queste regionali non vi è stato un reale e sincero rapporto
unitario neanche al livello di alleanza elettorale, e queste forzature, assieme alla conflittualità interna
(al Prc e tra le componenti della FdS) hanno contribuito a far perdere passione ai militanti
e credibilità esterna alla FdS e quindi, in parte, a determinare il risultato negativo.
Grave è la responsabilità degli organismi dirigenti del Prc per questa situazione
di impasse e logoramento.
Da questa impasse bisogna uscire con chiarezza e decisione. Vanno abbandonati tutti gli atteggiamenti
autoreferenziali che hanno caratterizzato finora il dibattito del Prc. A partire dal veto, davvero
incomprensibile, che ancora oggi viene posto al rapporto unitario con il Pdci. Viviamo il paradosso
per cui, dopo aver fatto la lista unitaria alle europee, le forme di collaborazione avviate non
sono sfociate in un autentico processo unitario per le remore di chi vede il Pdci come “piombo
nelle ali”.
Ma, se usciamo fuori dal dibattito asfittico degli organismi dirigenti, ci rendiamo conto di
come il tema dell'unificazione dei due partiti comunisti, Prc e Pdci, incontri consenso. Ad imporlo,
del resto, è il buon senso. Questo infatti ci permetterebbe:
- di rendere razionale il nostro lavoro. In campagna elettorale, la competizione tra i due partiti
(quando non quella all'interno dello stesso) ha creato una confusionaria dispersione di forze.
Oggi riusciamo credibilmente a reggere gli anni difficili che abbiamo dinnanzi a noi, se incanaliamo
il lavoro dei militanti in un progetto comune rivolto alla conquista del consenso nella società,
non nella competizione interna. La nostra azione sarebbe quindi più
funzionale per il conflitto sociale ed il radicamento dei comunisti nei luoghi del conflitto.
- In questo, una maggiore razionalizzazione delle risorse non solo sarebbe più utile,
ma si rende sempre più
necessaria ed urgente. Unire le forze, le sedi, gli strumenti di comunicazione, affinare il lavoro
dei gruppi dirigenti in un cimento comune, ci metterebbero nelle condizioni di affrontare al
meglio e tempestivamente le urgenze alle quali siamo chiamati, piuttosto che perdere tempo in
mille riunioni
Nell'immediato proponiamo di avviare a tutti i livelli - centrale e periferici - un percorso di aperto e libero confronto con i compagni del Pdci e con tutti i comunisti che hanno incrociato in questi venti anni la loro militanza politica con questi due partiti e con i movimenti anticapitalistici e antimperialisti,“no-global” - sui contenuti di fondo: analisi del capitalismo e dell'imperialismo oggi, internazionalismo, prospettive strategiche dei comunisti, obiettivi prioritari immediati, programma minimo di classe, programma a medio termine, azione politica negli enti locali, politica sindacale, questione ambientale, oppressione di classe e oppressione di genere…
Quando parliamo di ricostruzione comunista non intendiamo la sola fusione organizzativa dei due
partiti - che rappresenterebbe comunque un notevole passo avanti. Occorre costruire un partito
che sappia recuperare e riattualizzare la parte migliore del patrimonio ideale, politico, organizzativo
dei comunisti. Un partito che abbia un'elaborazione politico-programmatica inserita in una visione
strategica, che sappia assolvere una funzione dirigente delle lotte sul terreno economico-sociale
(e quindi anche capace di incidere sugli indirizzi sindacali), politico, culturale, che sappia
radicarsi nel territorio. Il processo di ricostruzione comunista vive nel conflitto sociale:
il partito comunista si fa mentre opera nella società. Ma si fa se c'è una volontà consapevole
di farlo, se si supera una mentalità e una pratica opportuniste che tendono a rinviare
la questione, a muoversi nella contingenza del giorno per giorno senza indicare l'obiettivo.
Per la ricostruzione ed il rilancio del partito comunista è necessario combinare l'azione
quotidiana di intervento nelle lotte politiche, economiche, sociali, ambientaliste, per i beni
comuni, con l'attività non occasionale di elaborazione programmatica. Un solo esempio:
di fronte alla crisi i comunisti devono limitarsi alla richiesta di estendere i paracadute sociali,
cassa integrazione, ecc., o devono rilanciare il grande tema delle nazionalizzazioni con controllo
democratico e popolare sull'economia? (Tema che, sui beni comuni, investe oggi una parte non
minoritaria della popolazione, che è
penetrato tra le masse). La nostra politica di massa nei prossimi mesi non può ridursi
solo all'impegno nei referendum (e bisognerebbe riflettere bene sul ricorso ai referendum, come
unico strumento di iniziativa di massa) su pubblicizzazione dell'acqua, nucleare e contro la
precarietà (legge 30).
La ricostruzione del partito comunista, quale perno per la ricostruzione di una sinistra di classe in questo paese, va posta in un quadro dinamico di sviluppo dell'unità a sinistra. Le due cose non solo non si contraddicono, ma sono del tutto complementari. In questo quadro, con una presenza ben strutturata di un partito comunista unificato, la FdS può svilupparsi e divenire un ampio “fronte popolare anticapitalista” coinvolgendo effettivamente diversi soggetti sociali e politici e movimenti anticapitalisti, sulla base di un programma che sappia unire la difesa sociale delle classi subalterne con quella della difesa e rilancio della Costituzione, obiettivo per il quale va promossa un'ampia azione unitaria con le forze autenticamente democratiche.
Sulla base del percorso tracciato - unità-ricostruzione del partito comunista quale asse
centrale per la realizzazione di un largo blocco sociale e politico anticapitalista - va affrontata
la questione delle alleanze in vista delle prossime competizioni elettorali, in particolare quelle
politiche del 2013 (se non interverranno eventi che modifichino la scadenza di rito). Non escludiamo
l'esigenza tattica di presentarsi alle competizioni elettorali con liste e coalizioni di sinistra,
su programmi avanzati e il più possibile attrattive ed espansive. Liste cioè capaci
di fronteggiare le peculiari difficoltà che gli appuntamenti elettorali oggi comportano:
con le attuali leggi e dinamiche elettorali, con l'attuale contesto mediatico e in presenza di
una crisi così profonda, che viene da lontano, del movimento comunista del nostro paese
e della sinistra.
Occorre a questo proposito sviluppare una seria analisi delle basi di classe, della struttura,
oltre che dei programmi delle forze politiche con cui intendiamo avviare un'interlocuzione in
vista di possibili alleanze. Il quadro infatti si presenta ancora piuttosto magmatico, tanto
per il Pd, diviso al suo interno tra fautori del bipolarismo maggioritario e proposte - ancorchè ambigue,
per la simpatia per il modello tedesco - di ritorno al proporzionale, quanto in particolare per
la recente formazione politica di Sel, che viene genericamente presentata come “a sinistra del
Pd”, o di “sinistra radicale”, o “anticapitalista”, mentre vi sono al suo interno (e in alcune
regioni strategiche, come la Puglia, in misura nient'affatto irrilevante) componenti quali i
socialisti del dissolto Psi craxiano, distanti anche dalla tradizione della socialdemocrazia
classica. Né si possono ignorare il discorso e l'azione di Nichi Vendola (senza il cui
successo in Puglia Sel avrebbe scarsissimo peso), caratterizzati da tratti esasperatamente personalistici,
presidenzialistici, leaderistici, e da un'ideologia sostanzialmente plebiscitaria ed antitetica
allo spirito della Costituzione antifascista, che disprezza i partiti e privilegia il rapporto
diretto del capo con la sua “comunità”.