Claudio Grassi
L’11 ottobre è una data importante per la sinistra di alternativa.
La manifestazione che quel giorno invaderà le strade di Roma ha una duplice valenza: da una parte
porterà in piazza il no secco e senza tentennamenti alle politiche del governo Berlusconi; dall’altra
servirà anche per riannodare i fili tra le forze comuniste e della sinistra. Ne parliamo con Claudio
Grassi, responsabile organizzazione di Rifondazione comunista.
C’è un filo rosso che unisce l’11 ottobre ad un’altra grande manifestazione,
quella del 20 ottobre di un anno fa, che aveva visto protagonisti proprio Prc e Pdci?
Certamente, la
manifestazione dell’11 ottobre prossimo è per noi un momento molto importante: dobbiamo
dire anche a chi ci ha voltato le spalle alle ultime elezioni che i comunisti e, in generale, la sinistra
di alternativa non ha affatto smobilitato. Seppur fuori dal parlamento nazionale, è pronta e in
grado di riprendere il filo delle lotte, di un’opposizione vera al governo delle destre. Per questo
il segnale deve essere forte, all’altezza delle nostre massime possibilità. Ma attenzione:
non possiamo fare paragoni stretti con il 20 ottobre scorso. Lì, quel mare di bandiere rosse portate
in piazza soprattutto dai comunisti e dai compagni della Fiom si riconosceva in un progetto politico,
affidava i propri interessi e bisogni sociali alla nostra capacità
di condizionare il governo di cui facevamo parte: quel progetto
è fragorosamente franato. E oggi ci troviamo a dover ricostruire dei legami sociali e anche qualcosa
di più: una sintonia ideale col nostro popolo - deluso e disorientato - che è andata smarrita.
Non solo, quindi, un insieme di vertenze (che, pure, dobbiamo sostenere), ma una prospettiva generale,
capace di mobilitare l’intero popolo della sinistra e lo schieramento di forze politiche e sociali
più
vasto possibile. Per questo sono ancora importanti le bandiere rosse.
Alcuni giorni fa, nel corso di una iniziativa a Gubbio, hai sostenuto che i
motivi che nel ‘98 portarono alla scissione non ci sono più e che oggi non ha più
senso avere due partiti comunisti in Italia. La strada di una riunificazione tra Prc e Pdci è più
vicina?
Come ho detto a Gubbio, si tratta semplicemente di registrare dei dati: chiunque può constatare
che tra i nostri due partiti non c’è più il clima avvelenato che ha caratterizzato
gli anni post-separazione; e che, essendosi mossi lungo autonomi percorsi, essi si trovano oggi a condividere
molte cose: non solo la battaglia politica contro queste destre così pericolose, ma anche un giudizio
sui limiti del centro-sinistra e sulla deriva moderata del Pd. Se ci si pone sul piano di un giudizio
per così dire storico, ci vuol poco a dire in generale che difficilmente potrebbe durare all’infinito
la distinzione tra due forze politiche tanto simili nel nome e nel simbolo, oltre che nella linea politica.
Da questo punto di vista, quel che io ho nominato è una possibilità
concreta, inscritta nelle cose. Poi, certo, sta a noi impegnarci o meno per realizzare ciò che è oggettivamente
possibile. Questo chiama in causa volontà e responsabilità. Io, per parte mia, ho inteso
dichiarare anche un’intenzione e una fattiva disponibilità a favorire un processo, se se
ne determineranno le condizioni. Siamo usciti da due congressi difficili; ci siamo dati degli obiettivi,
che attengono alla necessità di tornare a tessere la rete della nostra presenza nella società,
nel vivo dei suoi conflitti. Ci siamo consumati a parlare di contenitori; è
l’ora dei contenuti. Su questi costruiamo insieme un piano d’azione articolato, delle scadenze
di lotta, degli obiettivi da perseguire comunemente. Questa è la strada. Vedremo poi quel che
ci sarà riservato con le ventilate modifiche alla legge elettorale.
Il Prc è uscito dalla tempesta congressuale ritrovando l’unità
in un nuovo gruppo dirigente. Ma si porta dietro gli strascichi di Chianciano. L’area che fa
capo a Nichi Vendola non ha digerito il risultato del congresso. Qual è lo stato del partito
oggi?
Noi abbiamo sempre operato per una conduzione unitaria del partito. Siamo
stati minoranza e sappiamo troppo bene cosa significa una gestione maggioritaria, le forzature che
riversa sulla vita e la democrazia interna di un partito. Per questo, dopo aver invano proposto una
discussione congressuale basata su un unico documento, fino all’ultimo minuto utile abbiamo provato
a dare al congresso stesso un esito che evitasse lacerazioni ulteriori. Non ce l’abbiamo fatta,
perché
non c’erano le necessarie condizioni politiche: troppo aspra era stata una discussione che aveva
toccato elementi fondamentali, quali la stessa sopravvivenza di Rifondazione comunista come forza politica
autonoma e indipendente. Ovviamente, oggi, il partito risente di quell’esito e di quelle difficoltà.
Ma c’è comunque una linea politica chiara, attorno a cui tutto il partito è chiamato
a promuovere la sua iniziativa. Il congresso è finito, si tratta di rimetterci in marcia e di
riattivare le capacità operative del partito, il quale nel frattempo ha provveduto alla nomina
dei suoi dirigenti centrali e sta procedendo a quella dei dirigenti territoriali. Come andiamo dicendo
ormai da tempo, questo è il momento di ricominciare, dando un forte impulso all’iniziativa
politica e sociale del Prc. Siamo infatti convinti che solo rianimando e rilanciando le forze politiche
esistenti a sinistra, si potrà
ridare vita alla sinistra di alternativa nel suo complesso (partiti, associazioni, movimenti).
Il nostro
esercito si appresta ad inviare in Afghanistan i cacciabombardieri Tornado. Siamo sempre più impantanati
nella guerra americana.
Questo è un punto che, assieme alle questioni sociali da affrontare
sul versante interno, sta in cima all’agenda dell’opposizione che dobbiamo condurre. Dobbiamo
provare a ridare fiato a quel possente movimento plurale contro la guerra, sviluppatosi anche nel nostro
Paese e poi dispersosi in concomitanza con la nostra disastrosa esperienza di governo. E’
quanto mai urgente tornare a battersi per il ritiro delle nostre truppe dai teatri di guerra e per
la revisione degli ultradecennali trattati che sanciscono la presenza delle basi militari Usa e Nato
sul nostro territorio (ovviamente a partire dal blocco dell’incremento di quelle esistenti).
L’impegno su tali temi è
essenziale, anche in considerazione dell’imminente insediamento di un nuovo presidente degli
Stati Uniti, che si troverà a gestire la pesantissima eredità di Bush, fatta di una devastante
crisi economia e delle rovine disseminate nel mondo dall’unipolarismo imperialista. Dobbiamo
sapere che ci aspettano una lunga fase di instabilità e nuovi rischi per la pace. Ho l’impressione
che, anche se sventassimo l’elezione di Mc Cain, sul terreno della pace e della guerra non dormiremmo
in ogni caso sonni tranquilli.