Recessione e crisi economica

Rifondazione comunista e la crisi

Contributo al dibattito sul futuro del Partito della rifondazione comunista e della sinistra, iniziato con le “15 tesi” di Fausto Bertinotti

1. Carattere della crisi in corso

La crisi economica internazionale ridisegna l’intero scenario nel quale abbiamo svolto la nostra azione per oltre due decenni. Per la prima volta dagli anni ’70 si profila una vera recessione mondiale simultanea.

Nonostante tutte le teorizzazioni contrarie, il capitalismo non può e non potrà mai abolire il ciclo economico che vede alternarsi fasi di crescita e fasi di recessione. Più volte nella storia è stata proclamata la fine del ciclo, a partire dalla fine del secolo XIX (nascita del revisionismo nel movimento operaio), proseguendo negli anni del secondo dopoguerra e del miracolo economico (predominio delle politiche keynesiane) e ancora negli anni ’90, con il boom della new economy e il cosiddetto “nuovo paradigma economico”.

Puntualmente tutte queste teorie sono state smentite dai fatti, non senza tuttavia che settori significativi della sinistra, anche quella che si dichiara alternativa e antagonista, ne fossero pesantemente condizionati, per non parlare di tutte le correnti riformiste sia nei partiti politici che nei sindacati.

Tuttavia non è sufficiente partire dall’analisi del ciclo economico per orientarci nella situazione attuale. Anche negli anni ‘80 e ’90 e in questo inizio secolo vi sono state recessioni e crisi: fra il 1990 e il 1992 vi fu una crisi che ebbe effetti pesanti in molti paesi, non da ultimo il nostro; una seconda iniziò con la crisi asiatica del 1997 e poi con lo scoppio della bolla della new economy al principio del 2001.

Tuttavia queste crisi si distinguevano per il loro carattere parziale, per la loro breve durata, e si configuravano sostanzialmente come intervalli o pause all’interno di un generale processo di crescita economica. La contraddizione latente risiedeva nel fatto che proprio per questo loro carattere parziale tali crisi, particolarmente l’ultima, non assolvevano al “compito” che la crisi svolge all’interno del meccanismo di accumulazione capitalistica, ossia la distruzione del capitale in eccesso e della sovracapacità produttiva. Da ciascuna crisi il sistema usciva carico di ulteriori contraddizioni tanto sul piano economico che su quello politico.

Come è stato possibile questo prolungamento della fase espansiva? La risposta non può essere cercata solo nella pura dinamica economica, ma deve prendere in considerazione alcuni elementi politici decisivi. Il rilancio del capitalismo negli anni ’80, ’90 e nei primi anni 2000 ha avuto alla sua radice tre fenomeni politici, legati direttamente alle vicende del conflitto di classe su scala mondiale e dei rapporti internazionali. Questi sono stati: 1) La sconfitta del movimento operaio tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, che ha permesso il pieno ristabilirsi del controllo del capitale nell’impresa, permettendo il rilancio dell’accumulazione e del saggio di profitto. 2) Il riflusso dei processi rivoluzionari nei paesi dipendenti ed ex coloniali, che permetteva una penetrazione incontrastata del capitale in queste aree del mondo e l’abbassamento del prezzo di quasi tutte le materie prime. 3) Dopo il 1989-91 il crollo dell’Unione sovietica e l’accelerazione dell’apertura capitalistica della Cina creavano le condizioni economiche e politiche per un ulteriore rilancio del processo permettendo la sovraestensione della potenza nordamericana su scala mondiale, manifestatasi attraverso una serie di guerre (Balcani, Afghanistan, prima e seconda Guerra del Golfo) e in generale nell’affermazione apparentemente incontrastata dell’egemonia economica, diplomatica e militare degli Usa.

È stato l’insieme di questi fattori, e in particolare la rapida industrializzazione e proletarizzazione in Asia (ma non solo) a permettere di sostenere l’edificio altrimenti insostenibile del debito americano e in generale il susseguirsi delle bolle speculative che hanno mantenuto la domanda oltre i suoi limiti “normali” e fisici per molti anni.

2. Crisi e ristrutturazione

Ogni crisi implica anche necessariamente una ristrutturazione del sistema, non esiste e non esisterà mai una crisi che porti direttamente al “crollo” del capitalismo. Tuttavia vanno respinte quelle interpretazioni che tendono a ridurre la portata e la natura di questa crisi, dipingendola come un semplice ridisegno dei poteri e degli assetti, quasi esistesse un qualche tipo di “piano” che si manifesta attraverso la crisi stessa. Anche i più forti fra gli Stati e le imprese non stanno affatto governando la crisi e i suoi effetti, ma ne sono trascinati e reagiscano con ritardo e in modo scoordinato. Nessuno è realmente in grado di dire quale sia la reale portata e durata di questa crisi. Esiste una forte possibilità che si giunga a una gelata nel commercio mondiale, al riaffacciarsi del protezionismo, a una crisi valutaria, a situazioni di default di interi paesi (si veda quanto accade già ora in Islanda, Ungheria, Ucraina, Pakistan…).

L’affannoso precipitarsi dei governi che mettono a disposizione del sistema finanziario cifre inimmaginabili non è solo una esplicita manifestazione di panico. Il ruolo degli Stati è destinato a pesare nel tempo. Non si tratta del ritorno del riformismo e all’età dell’oro delle politiche keynesiane; si tratta invece di un intervento nel quale lo Stato non solo socializza le perdite del sistema finanziario, ma assurge anche a “regolatore” del sistema (nella misura in cui ciò è possibile) nell’interesse generale della borghesia sia rispetto agli eccessi di un settore interno alla classe dominante, sia soprattutto rispetto al mantenimento dell’ordine sociale e politico di fronte ai catastrofici effetti sociali determinati dalla crisi.

Ne emergerà anche un nuovo quadro dei rapporti internazionali, posto che l’esaurimento del ciclo di crescita consegna una serie di giganteschi squilibri fra le diverse aree del mondo: tra produzione e consumo in diverse aree del mondo, tra peso economico e influenza politica delle diverse potenze.

La crisi pertanto rompe l’equilibrio mondiale, i rapporti interni alla classe dominante, il rapporto tra Stato e privato e, punto decisivo, i rapporti fra le classi. Si apre un nuovo periodo storico, nel quale la rottura dell’equilibrio capitalistico apre la strada alla possibilità di sbocchi rivoluzionari in nuove aree del mondo, non escludendo almeno in via ipotetica che queste possano anche riguardare paesi a capitalismo avanzato. Una situazione, in sintesi, paragonabile a quella degli anni ’70 per intensità ed estensione dei movimenti, ma in un contesto economico e politico profondamente diverso.

3. Sugli sbocchi politici della crisi

Va contrastata la tesi secondo la quale dalla crisi discenderebbe quasi fatalmente uno sbocco reazionario. Il rapporto fra economia e politica, fra condizioni materiali e coscienza non può essere in alcun modo determinato in base a uno schema a priori. Sul piano politico la crisi colpisce innanzitutto le posizioni concertative, conciliatorie, riformiste e social-liberali e questo sarà particolarmente vero in Europa e in Italia. Emergono indubbiamente anche tendenze reazionarie che in determinati contesti possono conquistare consenso di massa, ma inevitabilmente emergerà anche il conflitto di classe e la ricerca di risposte a sinistra sul piano politico, teorico e programmatico. Il riferimento più che la Germania degli anni ’30 deve essere quello latinoamericano dell’ultimo decennio, dove il risveglio rivoluzionario è stato precisamente conseguenza della fine catastrofica del ventennio liberista, gestito tanto dalle dittature militari quanto dalle “democrazie” dollarizzate.

L’esempio latinoamericano è importante anche perché quei processi si sono sviluppati nel contesto di una lunga crisi della sinistra del continente, in tutte le sue principali correnti: partiti socialisti, comunisti, tendenze di origine guerrigliera, ecc.: ennesima dimostrazione di come il motore della storia non siano gli apparati e i gruppi dirigenti, bensì il conflitto reale e i profondi processi economici, sociali e politici che muovono la coscienza e l’agire di milioni di persone.

Più in generale è scorretto stabilire nessi deterministici tra l’evoluzione economica e gli sviluppi politici. Più che mai è necessario sviluppare “l’analisi concreta della situazione concreta”.

Tutti i paesi saranno costretti in una prima fase a un relativo ripiegamento sui problemi interni, come testimoniano i diversi “piani” di intervento, compreso quello cinese. Non esiste la possibilità di una seria risposta internazionale coordinata alla crisi, risposta che su basi capitalistiche può emergere solo dopo che la crisi stessa abbia compiuto il suo corso ridisegnando gli assetti mondiali. Il sogno di una “nuova Bretton Woods” è destinato ad annegare in un mare di discorsi altisonanti il cui compito principale sarà quello di nascondere l’impossibilità di un accordo fra le potenze e la guerra feroce che si scatenerà, nella quale ciascuno tenterà di scaricare altrove le conseguenze della crisi. L’unico punto di accordo sarà quello di colpire i lavoratori, i diritti sindacali, i salari, le riforme sociali.

Si potrebbe obiettare che la vittoria di Obama negli Usa e la sconfitta dell’estrema destra conservatrice negli Usa possono aprire la strada su scala mondiale non alla reazione né alla rivoluzione, bensì a una nuova fase di riforme e di compromesso sociale. Si tratta tuttavia di una lettura superficiale e fuorviante.

Gli Usa sono oggi sfidati sul terreno mondiale dalla resistenza di altre potenze (Russia, Cina), dalla impossibilità di sostenere la sovraestensione della loro macchina militare (Afghanistan, Iraq), dal riemergere di movimenti rivoluzionari in America latina. La crisi economica ne mette a nudo le debolezze e le contraddizioni a lungo accumulate.

Nessuna grande potenza ha mai abbandonato la propria posizione di predominio senza condurre una lotta strenua per difenderla. Il programma di Obama punta con ogni evidenza a concentrare le risorse per ribadire il predominio degli Stati uniti, in una logica che pur ammantata di ambientalismo punta innanzitutto a una maggiore indipendenza dell’economia nordamericana dai suoi fornitori energetici, a conquistare o difendere una posizione di vantaggio su nuovi terreni chiave dal punto di vista scientifico e tecnologico. Non si va quindi verso la cooperazione internazionale per fare fronte alla crisi, ma verso un clima di esasperata concorrenza internazionale, la regola sarà: mors tua, vita mea.

I paesi europei non sono affatto in una posizione favorevole e sono destinati a dividersi più e più volte sia nei rapporti interni all’Unione europea che nella relazione con le altre potenze.

4. Specificità della situazione italiana

L’Italia, per la debolezza relativa del suo sistema economico, per la particolare scarsità di riserve e risorse, per i problemi accumulati nello scorso ventennio, è destinata a essere fra i paesi che più soffriranno di questa situazione. Gli effetti della crisi mondiale si intrecciano con le storiche debolezze specifiche del capitalismo italiano: dimensione media delle imprese troppo ridotta, sottocapitalizzazione, scarsità di investimenti particolarmente negli ultimi anni, produttività in calo, debito pubblico accumulato. La realtà è che i margini dell’economia italiana sono particolarmente stretti e che stante un debito pubblico tutt’ora oltre il 104 per cento del Pil, e prevedibilmente in risalita nei prossimi anni, non sarà possibile mettere a disposizione somme paragonabili a quelle di altri paesi europei.

5. Nuovo quadro della questione sindacale

Da questi dati di fatto nasce il programma particolarmente aggressivo del governo e di Confindustria, che punta all’annullamento di ogni elemento di resistenza nei luoghi di lavoro. L’accanimento dell’attacco contro la Cgil non nasce quindi da considerazioni ideologiche o politiche, ma dalla volontà di estirpare qualsiasi forma di organizzazione autonoma e di resistenza dei lavoratori. L’alternativa è secca: o sparire, assorbita da un modello sindacale aziendalista, di servizio, “complice” dell’impresa, o rischiare l’espulsione dai luoghi di lavoro e da qualsiasi titolarità di rappresentanza dei lavoratori.

Giunge quindi al termine anche la fallimentare linea concertativa inaugurata nel 1993. Questa situazione deve suscitare una forte riflessione nel nostro partito, poiché pur nella sua drammaticità apre tuttavia un enorme campo di azione e di interlocuzione. Se, contro le apparenze dell’oggi, il gruppo dirigente della Cgil dovesse infine capitolare al nuovo modello contrattuale imposto da Confindustria, Cisl, Uil e Ugl, si aprirebbe indubbiamente una crisi senza precedenti all’interno dell’organizzazione, essendo del tutto evidente che amplissimi settori della confederazione, sia nelle categorie che nei territori, non accetterebbero un simile esito e sarebbero spinti a una forte contrapposizione. Se invece, ed è l’esito per cui ci battiamo, la Cgil si sottrarrà al ricatto, dovrà inevitabilmente porsi il problema di una vera e propria ricostruzione della propria strategia rivendicativa e della propria pratica conflittuale al fine di non essere cancellata dai luoghi di lavoro. In entrambe le ipotesi l’alternativa è fra essere e non essere. Non è esagerato dire che dalla nostra capacità di interpretare correttamente i nostri compiti su questo terreno decisivo dipende in gran parte la possibilità che Rifondazione comunista conquisti infine quel radicamento operaio che da troppi anni costituisce il grande assente nella nostra iniziativa e nella nostra elaborazione.

Su questo si ridefinisce anche l’evoluzione del sindacalismo di base, come in embrione è già possibile vedere nelle mobilitazioni di questo autunno, che nei loro punti alti tendono a rompere gli schieramenti precedenti e a produrre nuove “coalizioni” di fatto nelle piazze e negli scioperi: uno sviluppo che può generare una feconda moltiplicazione nell’efficacia delle forze anticoncertative nell’insieme del movimento operaio.

6. Critica del keynesismo e necessità della piattaforma di alternativa

Il conflitto che riemerge in Italia incrina l’ipnosi della vittoria berlusconiana e apre una possibilità che Rifondazione comunista ha il dovere di cogliere appieno. Grida vendetta al cielo il fatto che mentre la destra si attrezza a rispondere alla crisi sul suo terreno, non esista ancora una seria piattaforma programmatica di sinistra capace di parlare al movimento in campo e di cogliere la sua radicalità, sintetizzata dalla parola d’ordine “non pagheremo la vostra crisi”.

Il nostro partito deve essere identificato come il partito del pubblico, delle nazionalizzazioni, del controllo dal basso, da parte dei lavoratori organizzati e degli strati popolari di quelle risorse che ieri, nella fase del liberismo trionfante, venivano massicciamente spostate dal basso verso l’alto e oggi vengono nuovamente dirottate dallo Stato a beneficio di coloro che sono i primi responsabili della crisi.

Il tema della nazionalizzazione delle principali leve dell’economia (sistema bancario, settori strategici dell’industria, delle comunicazioni, della grande distribuzione, del patrimonio immobiliare) diventa rapidamente comprensibile a milioni di persone. L’estendersi della crisi dalla finanza all’economia reale renderà questo punto ancora più comprensibile e urgente di fronte al dilagare di licenziamenti, crisi, chiusure aziendali.

Ciò che va analizzato sono le forme dell’intervanto dello Stato nella crisi finanziaria. Si parla di un passaggio dal liberismo al keynesismo. Ma prima di ogni altra cosa la classe dominante si propone di salvare le istituzioni economiche e finanziarie del capitalismo mondiale a spese delle classi subalterne. Non c’è traccia di investimenti pubblici tesi ad espandere il consumo, né di interventi a sostegno di occupazione e salari.

Si tratta di un keynesismo negativo che sovente assume forme criminali e predatorie in quanto i fondi pubblici mantengono le finalità precedenti, che consistono nel travaso della ricchezza dal basso verso l’alto. In altre parole il significativo afflusso di capitali statali si propone di tamponare l’emorragia ma non mira a un sostanziale cambiamento di politica economica. Non è detto che questo orientamento possa essere mantenuto, vista la vastità della crisi, ma è questa la prospettiva su cui si muovono i capitalisti su scala globale nell’attuale contingenza.

La realtà che va riconosciuta è che una classica politica keynesiana ha esaurito i propri margini (con la parziale eccezione della Cina) sotto l’imponente quantità di debiti accumulati negli ultimi due decenni tanto dagli Stati che dai privati.

L’unica forma di keynesismo praticabile in questa concreta fase storica è quella che conduce inevitabilmente alla guerra e a una sfida per l’egemonia su scala mondiale determinata dalla crisi del dominio americano e l’emergere di nuove potenze capitalistiche.

L’implicazione politica è l’annichilimento di ogni ipotesi socialdemocratica. L’idea di aggiornare il compromesso sociale tra le classi in voga negli anni ’60 e che pervade l’attuale dibattito a sinistra è la più grande delle utopie e colloca la sinistra italiana ed europea in una posizione di subalternità nei confronti delle recenti scelte del capitale finanziario, la cui tendenza dominante non è quella che va nella direzione del capitalismo di stato, delle partecipazioni pubbliche ma piuttosto quella di mantenere un controllo privato o nella migliore delle ipotesi misto ma nel quale il ponte di comando è saldamente controllato dal capitalismo privato.

Si prenda ad esempio la nazionalizzazione delle banche inglesi o del colosso Fortis in Belgio, ma anche l’intervento in corso negli Stati Uniti. Si tratta nella sostanza di un afflusso di capitali pubblici nelle banche senza che questo implichi la partecipazione dello Stato ai consigli di amministrazione, né un reale controllo che possa essere esercitato. Puro e semplice salvataggio dei banchieri.

è da questo punto di vista che la questione del controllo pubblico assume un’importanza decisiva, forse fin qui troppo poco esplorata, nella nostra discussione.

Non basta proporre la nazionalizzazione delle banche e del sistema finanziario, su cui timidamente si è iniziato a discutere in Rifondazione, ma è necessario porsi il problema dell’utilizzo delle risorse per una politica economica orientata a uno sviluppo sostenibile e socialmente qualificato. Si pone in definitiva il problema di chi produce, come produce e per cosa produce, di un modello di società sottratto dalle grinfie del profitto privato e messo a disposizione del bisogno complessivo dei lavoratori e della società nel suo insieme.

Si pone la necessità di individuare strumenti di controllo democratico e partecipato che non possono che avere un carattere extra-statuale. Il terreno non può essere individuato se non nel vivo del conflitto sociale, che nelle punte più alte, si traduce spesso e volentieri in esperienze consiliari che ricalcano, pur nella loro modernità, le esperienze più avanzate delle passate fasi rivoluzionarie.

Il tema del controllo operaio e popolare attraverso una pluralità di strumenti e di forme di contropotere ad ogni livello è la vera lezione che ci arriva dall’America latina. Esperienze che si pongono oggettivamente sul terreno dell’alternativa di sistema e che allo stesso tempo agiscono nella inevitabile dialettica che si produce nelle articolazioni della vecchia società capitalistica.

La questione della proprietà e del controllo obiettivamente ci pone su un terreno di superamento del capitalismo, come dimostra ancora l’esperienza latinoamericana. Tuttavia ciò pone solamente il problema, che va risolto anche da un punto di vista soggettivo, ossia con lo sviluppo di un programma e di una strategia che sappiano dare forma compiuta e cosciente a questa necessità radicata nella situazione sociale, nella crisi, e che indubbiamente troverà anche espressione nel conflitto di classe.

Solo sulla base di questo punto è possibile dare un senso a quelle rivendicazioni difensive pure urgentissime e necessarie (ammortizzatori sociali, salario ai disoccupati, controllo dei prezzi, salvaguardia dei servizi pubblici, del risparmio delle classi popolari, delle pensioni, difesa dei diritti democratici…).

Il nodo più critico sul quale lavorare riguarda precisamente il nesso fra le rivendicazioni difensive, immediate, si potrebbe dire di sopravvivenza, e la prospettiva che dobbiamo saper far vivere nei conflitti già oggi in campo e in quelli che inevitabilmente si apriranno come conseguenza della crisi economica. Il punto del programma di transizione diventa centrale. In assenza di tale prospettiva generale qualsiasi rivendicazione, anche la più avanzata, può essere piegata alle compatibilità esistenti e resa sterile.

L’obiettivo di un’uscita a sinistra della crisi e del recupero a sinistra del lavoro dipendente in tutte le sue forme non può che partire da qui e non certo dalla rivendicazione della svolta culturale e antropologica e delle stridule grida sulla “crisi di civiltà” totalmente inefficaci nel contrastare la reazione populista, xenofoba e securitaria.

7. La crisi della sinistra

Il compito è quindi, classicamente, triplice: di lotta (intervento nel movimento), politico-programmatico, teorico.

Le proposte oggi in campo di “riorganizzazione” della sinistra italiana sono da respingersi innanzitutto in quanto prescindono colpevolmente e coscientemente da tutti e tre questi compiti cruciali. Questo è vero in primo luogo per la proposta di “costruzione della sinistra”, alla cui negatività di fondo si somma l’ulteriore paradosso di essere una proposta che pur riproponendo fino alla nausea i concetti di “efficacia” e “massa critica” è espressa precisamente da gruppi dirigenti che si sono distinti per essere stati la quintessenza dell’inefficacia e per aver ridotto la “massa critica” della sinistra al livello odierno.

Allo stesso modo va respinta l’idea latente che la crisi della sinistra si possa risolvere eliminando l’“anomalia” costituita dal Partito democratico e lavorando al riemergere di una forza socialdemocratica nel nostro paese, con la quale una sinistra radicale possa stabilire un rapporto di collaborazione sia pure competitiva. Tale prospettiva costituisce la traduzione politica dell’illusione di un ritorno all’epoca aurea del riformismo e del keynesismo e costituisce il manifesto politico del codismo e dell’adattamento all’ordine esistente.

Rifondazione comunista non può tuttavia concepire la propria prospettiva solo in termini difensivi, in quanto distinta da altre o ad esse contrapposta. Lo sviluppo di un movimento di massa come quello della scuola, al quale si unisce ora lo sciopero generale convocato dalla Cgil e da importanti settori del sindacalismo di base e la prospettiva di un conflitto che possa travalicare la durata di una stagione non risolve i problemi politici del nostro partito. Al contrario, li pone nella loro forma più netta. Il movimento di massa costituisce la prova determinante per giudicare la vita di qualsiasi organizzazione. Un partito che si dimostrasse incapace di trarre linfa e alimento dalla ripresa del protagonismo di milioni di giovani e di lavoratori non meriterebbe altro che di sparire. Rifondazione comunista può e deve ricostruirsi come partito del conflitto di classe. Affinché questo sia possibile è necessario non solo avanzare una chiara proposta programmatica e immergersi a fondo nel conflitto montante. È necessaria una strategia che risponda al rischio di una “sindrome argentina” per la sinistra italiana, ossia di uno sbocco della crisi attuale che porti a una frantumazione in una serie di sette politiche condannate all’impotenza teorica e politica dalla loro sostanziale incapacità di penetrare il movimento di massa e ristrette in un’orizzonte chiuso di lotta reciproca.

Questo rischio non è affatto remoto e non basta a scongiurarlo l’appello ai simboli comunisti: ne è conferma il fatto che mai come oggi gli appelli all’“unità comunista” sono numerosi, e mai come oggi si produce una frammentazione continua dei soggetti che li promuovono.

Rifondazione comunista deve proporsi senza ipocrisie come sede del processo di rinascita di un’alternativa anticapitalista nel nostro paese, fuori da qualsiasi considerazione diplomatica. Non si tratta di rivendicare un primato che non c’è, ma di assumere una prospettiva e di perseguirla con determinazione assumendo anche i contrasti e i conflitti che essa inevitabilmente provoca.

8. Sull’“insufficienza” del Prc e su come questa vada intesa

Questo non significa che il Prc esprima oggi una risposta compiuta ai problemi che abbiamo di fronte, essendo fin troppo evidente il contrario. Significa invece rifiutare la prospettiva di una sorta di “intergruppi” della sinistra italiana, che darebbe luogo solo a una disastrosa dinamica di rivendicazioni reciproche e a un dibattito esclusivamente rivolto alla conquista di spazi all’interno di un perimetro fatalmente ridotto; si tratta invece di lavorare alla ricostruzione del partito non solo come strumento di conflitto, ma anche come sede democratica e organizzata di un dibattito teorico e politico capace in prospettiva di colmare il vuoto drammatico fra le esigenze poste dalla crisi e dal movimento di massa e la completa insufficienza delle risposte teoriche e politiche fin qui prodotte a sinistra.

Il Prc è insufficiente non tanto e non solo per la sua debolezza organizzativa, ma perché tutt’ora incapace di esprimere una compiuta lettura teorica, e dunque una conseguente strategia politica, del processo in corso su scala mondiale.

Guardiamo tuttavia con fiducia alle possibilità che si aprono: contro il dottrinarismo di chi attribuisce sempre ai lavoratori le colpe dei loro gruppi dirigenti politici e sindacali, sappiamo che è precisamente in fasi storiche come questa che il pensiero rivoluzionario può elevarsi a nuove altezze, ponendo le premesse per aprire una fase interamente nuova anche sul piano dell’organizzazione del movimento, del conflitto e delle forze anticapitaliste. Negli anni recenti il risveglio latinoamericano ha visto nascere dalle stesse esigenze del movimento di massa un nuovo dibattito sui temi decisivi che oggi anche noi siamo chiamati ad affrontare: la proprietà, il potere, lo Stato, la burocrazia, l’imperialismo, i percorsi di una rivoluzione nel secolo XXI.

Allo stesso modo la crisi capitalista e il movimento porranno più e più volte in forma urgente tutti i problemi della teoria, della strategia, della tattica, della costruzione di una nuova Rifondazione comunista all’altezza dei tempi.

Claudio Bellotti
Roma, 30 novembre 2008
da “http://www.marxismo.net/