Dopo il pessimo risultato elettorale della sinistra alle regionali 2010

Se non ora, quando?

Di fronte al risultato elettorale diverse voci si levano ora a proporre un allargamento di alleanze per la costruzione di un fronte di “sinistra alternativa” contro le destre di Berlusconi e della Lega, contro lo stravolgimento totale della Costituzione. (...). Qualsiasi proposta di alleanza nella forma di patto federativo o di semplice blocco elettorale richiede, se non si vuol finire fagocitati dall’alleato, un soggetto comunista forte e strutturato. (...). La questione dell’unità dei comunisti per la ricostruzione di un partito comunista adeguato ai problemi della nostra epoca è più che mai all’ordine del giorno.

I passaggi elettorali da un lato esprimono - per quanto deformate da falsa coscienza - le posizioni politiche del paese (comprese quelle di chi si astiene): sono un “termometro” che i comunisti non possono ignorare. Dall’altro costituiscono un mutamento nei rapporti di forza tra le classi sociali - anche se, come ben sappiamo, non esprimono tutti i reali rapporti che sono nella struttura economico-sociale - perché consegnano il governo all’una o all’altra forza politica.

Le elezioni regionali del 2010 si sono svolte nel pieno della più grave crisi capitalistica del secondo dopoguerra, che ha già provocato un pesante peggioramento delle condizioni economico-sociali del proletariato e di vasti strati di piccola e media borghesia (col suicidio non metaforico di diversi piccoli imprenditori del nord-est) e che è ben lungi dall’essere risolta, ad onta dei rassicuranti messaggi di propaganda. Per di più, alle contraddizioni generali del capitalismo, si aggiunge in Italia l’anomalia del berlusconismo: le diverse frazioni delle classi proprietarie (in cui ha un peso rilevante il nanocapitalismo, che differenzia notevolmente il nostro paese dagli altri grandi capitalismi della UE) non hanno ancora trovato la formula politico-istituzionale più adeguata per gestire nella fase attuale i rapporti interni ai dominanti da un lato, e quelli con le classi subalterne dall’altro. Il berlusconismo è stata la formula che per oltre 15 anni ha risposto, benché contraddittoriamente, al passaggio di fase della storia italiana post 1989, con la demolizione della repubblica nata dalla Resistenza. Ma le sue pulsioni sovversive, il conflitto permanente con uno dei poteri dello stato, la magistratura, e una politica estera non sempre del tutto allineata con USA e UE (rapporti con Russia, Bielorussia, Libia…, anche se per ragioni tutt’altro che limpide), lo rendono poco accetto alla grande borghesia europea e ai poteri d’oltreoceano, che preferirebbero oggi un’Italia governata, parafrasando D’Alema, da una “destra normale” (opzione Fini).

Ora, in una situazione che dovrebbe segnare un forte indebolimento dell’egemonia dei dominanti a causa della duplice crisi (economica, che rivela le contraddizioni strutturali del capitale; politica, per le frizioni tra le diverse frazioni borghesi), il risultato elettorale da un lato, pur mutando i rapporti interni alle forze politiche dominanti a vantaggio della Lega, consolida il governo, dall’altro conferma, anzi accentua, i rapporti di subordinazione dei dominati. Dopo queste regionali il proletariato è più povero di rappresentanza politico-istituzionale, più emarginato, più afono.

Nel campo delle forze di governo – vista la sua tenuta e la debolezza delle opposizioni - si prepara la strada al patto d’acciaio Bossi-Berlusconi con la micidiale accoppiata di federalismo e presidenzialismo, che potrebbe dare il colpo finale alla Costituzione con una nuova forma di stato e di governo. Non sappiamo se riusciranno a realizzare effettivamente la formula politicoistituzionale adeguata all’attuale fase capitalistica, se riusciranno a costruire un duraturo dominio di “destra normale”. Sul modo in cui arrivare a questo sono ancora divisi: l’ala berlusconiana parlava di riforme costituzionali da attuare a colpi di maggioranza, quella finiana di “riforme condivise”, con l’avallo del presidente Napolitano e le aperture del PD (con la “bozza Violante” come cavallo di Troia). È una partita – ma ciò non è affatto rassicurante – che si gioca prevalentemente nel campo delle classi proprietarie e delle loro formazioni politiche.

Alle compagne e compagni che si sono battuti generosamente nella campagna elettorale, senza mezzi che non fossero qualche volantino, e in un oscuramento mediatico che non è evidentemente casuale, va tutta la gratitudine dei comunisti. Il loro impegno ha evitato che - come era nei disegni del padronato - PRC e PdCI fossero annientati, che subissero il colpo di grazia. Ciò avrebbe facilitato e accelerato processi di erosione e disgregazione, e reso molto più difficile il lavoro di ricostruzione di un partito comunista adeguato alle difficili sfide del nostro tempo. Siamo fermamente contrari al “tanto peggio tanto meglio”, né, da quando due anni fa l’ernesto si è fatto promotore del processo di unità dei comunisti, abbiamo mai creduto che la ricostruzione del partito potesse essere frutto di una sorta di “nuovo inizio”, azzerando gruppi dirigenti e strutture. Sulla disgregazione non si costruisce. La relativa tenuta delle forze comuniste che sono l’asse portante e di gran lunga prevalente - in molti casi l’unico - della Federazione della sinistra (FdS), pur ridotte ai minimi termini, è un dato positivo che va sottolineato, contro i pessimisti organici e i disfattisti: non siamo stati spazzati via.

Ma, se guardiamo non alle percentuali, che riferite al numero dei votanti, dato il forte astensionismo, distorcono il dato reale, ma al numero effettivo dei voti nelle 13 regioni in cui si è votato, i due partiti comunisti PRC e PdCI perdono – e non a distanza di qualche anno, ma di appena 10 mesi e all’interno del medesimo contesto politico-sociale (crisi economica, governo Berlusconi) - quasi un terzo dei voti che avevano ottenuto alle europee: passano dai 910.472 voti del giugno 2009 ai 620.021 del marzo 2010 (senza tener conto che in alcune regioni come Puglia e Toscana la Federazione della sinistra si è presentata insieme con i Verdi). Con tutta la tara che si può fare tra un voto regionale (dove possono valere interessi localistici particolari) e un voto politico europeo, il dato è comunque allarmante e non può assolutamente essere sottovalutato. Poiché il voto alle europee era già in misura rilevante un voto militante, di comunisti, di quello “zoccolo duro” che non si era lasciato ammaliare dal canto delle sirene di Vendola e non accettava la cancellazione della falce e martello. Nel giro di pochi mesi quasi 300.000 compagni decidono di non votarci (e probabilmente di non votare affatto). Non possiamo non vedere che la relativa tenuta porta il segno di una resistenza residuale, non della ripresa di un forte progetto politico e organizzativo. Sarebbe sciocco – e anche politicamente colpevole – trincerarsi dietro la magra consolazione che tutto sommato si sopravvive ancora.

Di fronte al risultato elettorale diverse voci si levano ora a proporre un allargamento di alleanze per la costruzione di un fronte di “sinistra alternativa” contro le destre di Berlusconi e della Lega, contro lo stravolgimento totale della Costituzione. Si propone il rafforzamento della FdS e una forma di alleanza con Sinistra Ecologia e Libertà (SEL). Questo in sé, nella situazione data, non è certo sbagliato: è nella tradizione comunista la politica delle alleanze. Ma, c’è un ma.

Qualsiasi proposta di alleanza nella forma di patto federativo o di semplice blocco elettorale che evidentemente non sono affatto la stessa cosa) richiede, se non si vuol finire fagocitati dall’alleato, un soggetto comunista forte e strutturato. Senza questo non andiamo da nessuna parte, o, peggio, distruggiamo le poche residue forze che abbiamo. La questione dell’unità dei comunisti per la ricostruzione di un partito comunista adeguato ai problemi della nostra epoca è più che mai all’ordine del giorno.

La questione fu posta con chiarezza già due anni fa, all’indomani della debacle dell’“arcobaleno”. Il congresso del PdCI (2008) la fece propria, quello, difficilissimo, del PRC, pur salvando il partito dal progetto liquidazionista di Bertinotti e Vendola, no, salvo componenti di minoranza, quali l’area de l’ernesto. La lista PRC-PdCI alle europee del 2009 ha avviato forme di collaborazione, che non sono sfociate però in un autentico processo unitario, che è rimasto invece in mezzo al guado, bloccato dalle remore della maggioranza del PRC (c’è nella direzione del PRC chi dice esplicitamente che il PdCI è “piombo nelle ali”). La FdS è nata nel luglio 2009 come compromesso possibile tra le divergenti istanze, dell’unità comunista da un lato, e di concezioni ancorate a culture non comuniste, lontane ed estranee all’esperienza storica dei comunismo del 900 e ai movimenti antimperialisti (si veda ad es. l’articolo con forti venature antipalestinesi di Lidia Menapace del 25 3. 2010 su Liberazione). La vita stessa della FdS è stata inficiata da queste divergenti componenti (a partire dal nome, che ha cancellato anche la parola “comunista”, pur essendo la FdS composta al 95% da PRC e PdCI), e la sua proposta politica ne è risultata appannata, facendo perdere tempo prezioso. E il tempo non lavora per noi.

Quando parliamo di ricostruzione comunista non intendiamo la sola fusione organizzativa dei due partiti – che rappresenterebbe comunque un passo avanti. Occorre costruire un partito che sappia recuperare e riattualizzare la parte migliore del patrimonio ideale, politico, organizzativo dei comunisti. Non lo diciamo per una pulsione vetero-identitaria, ma perché lo riteniamo indispensabile oggi nella lotta anticapitalista. Un partito che abbia un’elaborazione politicoprogrammatica inserita in una visione strategica, che sappia assolvere una funzione dirigente delle lotte sul terreno economico-sociale (e quindi anche capace di incidere sugli indirizzi sindacali), politico, culturale, che sappia radicarsi nel territorio. Non è un modello del passato. Circola la battuta che la Lega, la formazione politica oggi sulla cresta dell’onda, sia l’unico partito organizzato sul territorio sul modello del PCI (con una linea politica e ideologica ferocemente anticomunista). Essa cresce elettoralmente anche se la sua presenza sui media nazionali è scarsa, ma è radicata nel territorio, fa politica quotidianamente.

Si discute anche se i risultati elettorali sono più o meno favorevoli se ci si presenta in coalizione col PD, o da soli, o con SEL in opposizione al PD come nelle Marche. E, con risultati tanto divergenti, ciascuno può portare l’acqua al proprio mulino, sostenendo la necessità di alleanze più organiche con SEL o col PD. Ma in realtà i comunisti raccolgono consensi lì dove hanno seminato, lì dove lavorano nei territori e si presentano con una linea politica chiara, “di classe”, lì dove si presentano come una forza utile, perchè incidente. La questione delle possibili alleanze viene dopo (e non in termini temporali): ci si può alleare con qualcuno se si è qualcuno, se si ha una propria forza e progetto.

Questo ci occorre prima di tutto, non vi sono scorciatoie al di fuori del processo consapevole della ricostruzione comunista. I comunisti greci del KKE (che pure non indichiamo come un “modello”: evitiamo banali caricature della discussione) hanno dimostrato nelle ultime settimane che un partito strutturato e organizzato come il loro sa essere protagonista e dirigente di imponenti lotte operaie e popolari contro le politiche dettate dalla UE e dal FMI che intendono scaricare sulle masse popolari la crisi del debito pubblico del paese.

Il compito prioritario è ricostruire il partito comunista, aperto al confronto a sinistra. Il che oggi, non solo è molto difficile a farsi, ma non è neppure facile a dirsi, perché la questione viene rimossa, elusa, occultata dietro il dibattito sulle “alleanze”. Come si ricostruisce il partito? Non si fa in laboratorio, è un processo che vive nei rapporti sociali, nelle lotte sociali, politiche, culturali, ideologiche. Il partito comunista si fa mentre opera nella società. Ma si fa se c’è una volontà consapevole di farlo, se si supera una mentalità e una pratica opportuniste che tendono a rinviare la questione, a muoversi nella contingenza del giorno per giorno senza indicare l’obiettivo. E, se non ora, quando?

Andrea Catone
Roma, 4 aprile 2010
da “L'Ernesto” (Editoriale l'Ernesto – Anno XVIII – Numero 1 - Gennaio-Febbraio 2010)