VII Congresso di Rifondazione Comunista - Documenti

Rifondazione Comunista in movimento. Rilanciare il Partito, costruire l’unità a sinistra

Documento Acerbo

INDICE GENERALE

“Esci, partito, dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada” - (Majakovsky)

Questo Congresso. L’impegno unitario come scelta di libertà

Il nostro Congresso è carico di straordinaria responsabilità. Si svolge dopo una sconfitta drammatica, che ha cancellato per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana la sinistra dal Parlamento, e una vittoria delle destre che si affermano con grande consenso popolare. Un’indagine compiuta delle cause della nostra sconfitta va oltre questo stesso Congresso. Richiede l’analisi delle trasformazioni strutturali, il rilancio dell’inchiesta sulla modifica delle soggettività, l’analisi profonda del nostro rapporto con la società e con i mutamenti che la attraversano. Ma da subito siamo chiamati a dare le prime risposte, ad elaborare una proposta per la duplice sfida che abbiamo davanti: continuare nel percorso della rifondazione comunista e contribuire alla ricostruzione della sinistra nel nostro paese.

Abbiamo bisogno di un congresso democratico, in cui la voce delle donne e degli uomini che hanno scelto di appartenere a questa comunità conti davvero, dal circolo al congresso nazionale e in cui quella democrazia partecipativa che abbiamo indicato come uno dei nodi decisivi su cui rifondare la politica viva non solo nei dibattiti, ma nel nostro agire quotidiano.

Abbiamo bisogno di un congresso aperto, in cui la sovranità piena delle iscritte e degli iscritti sui destini del partito e le scelte da compiere, non delimiti uno spazio autosufficiente, separato dalla discussione con chi una tessera di partito non ce l’ha, ma con noi si interroga sul futuro della sinistra.

Abbiamo bisogno di un congresso che si intrecci con la costruzione dell’opposizione al governo Berlusconi. Per questo avanziamo a tutta la sinistra politica e sociale la proposta di elaborare insieme piattaforme condivise di mobilitazione, per impedire la regressione generalizzata che rischia di determinarsi sul versante dei diritti del lavoro, dell’ambiente, delle libertà.

Auspichiamo che sulle ragioni della divisione verificatasi in seno al gruppo dirigente del Partito si sviluppi nel Congresso un confronto franco e leale. Queste ragioni nulla hanno a che vedere – lo ribadiamo ancora una volta – con l’assunzione di responsabilità per la sconfitta, che ci chiama in causa tutte e tutti, e sulle cui radici c’è da scavare e da capire, non già da dividersi né da cercare capri espiatori.

Il punto di divisione ha riguardato e riguarda invece la prospettiva del «superamento» di Rifondazione Comunista in un nuovo soggetto politico. Questa proposta è stata avanzata autorevolmente e reiteratamente nel corso della campagna elettorale; ancora dopo la sconfitta ci è stato proposto di accelerare nel processo costituente della Sinistra Arcobaleno «con chi ci sta». Una prospettiva che non abbiamo condiviso e non condividiamo, nel merito e nel metodo, non discussa né decisa da alcun organismo dirigente del Partito. L’esistenza del Prc non è, per noi, in discussione né per l’oggi né per il domani.

La necessità di una discussione limpida sulle scelte e il futuro deve accompagnarsi comunque alla salvaguardia della massima unità del Partito.

Per questo abbiamo ripetutamente proposto un congresso con un unico documento a tesi.

Per questo ci impegniamo sin d’ora – nell’ipotesi che la nostra proposta politica venga accolta dalla maggioranza del Congresso – a una gestione unitaria del Partito.

Per questo non ci trova concordi il tentativo di trasformare il congresso in un referendum sul leader.

Un percorso congressuale realmente democratico e partecipato, la scelta di gestione unitaria del partito, sono condizioni indispensabile al rilancio del progetto politico del Prc. Ed in questo modo si può realizzare, nel difficile passaggio che abbiamo davanti, una trasformazione positiva del nostro modo di essere, che bandisca dal nostro agire ogni traccia delle logiche maggioritarie che hanno inquinato nel tempo la nostra dialettica interna. L’impegno unitario non è dettato solo dalla gravità della situazione che viviamo e dalla necessità di farvi fronte. È una scelta di libertà, per un partito che sia capace di nominare fino in fondo i problemi, assumere con limpidezza le scelte da compiere, ricostruirsi come soggetto collettivo.

Non presentiamo, dunque, questo documento con l’ambizione di scrivere “il programma” del Partito: invitiamo, invece, le iscritte e gli iscritti a contribuire, dai territori, ad emendare ed arricchire questo documento. A costruire, insieme, il progetto politico, il futuro di Rifondazione comunista e della sinistra. Ripartiamo insieme a quella sinistra reale, a quelle centinaia di migliaia di compagni e compagne con e senza tessera, che ha colorato di rosso le strade di Roma il 20 ottobre 2007.

Parte prima. La profondità della sconfitta e le sue cause

Il risultato elettorale, che ha sancito la netta vittoria della destra, la fragilità del progetto politico del Partito democratico e la sconfitta verticale della sinistra, ci consegna un’Italia profondamente diversa da quella che immaginavano.

La forza della destra

La forza della destra è stata quella di confrontarsi apertamente con la crisi del neoliberismo e di far leva sulle paure derivanti dall’insicurezza sociale e dal consumarsi della coesione sociale. È la destra stessa, cioè, ad aver costruito una risposta egemonica alla crisi neoliberista, connettendo nuovi populismi nazionalistici, individualismo competitivo liberista e difesa razzista ed identitaria delle “piccole patrie”: una risposta che è risultata dilagante, in Europa e, soprattutto in Italia, da quando la sinistra non è stata efficace né nella difesa degli interessi materiali né nel proporre un’altra idea di società.

Mentre il Partito Democratico si è mostrato fermo nel sostenere il rispetto dei vincoli liberisti e di bilancio europei, la destra li ha criticati con grande spregiudicatezza, evocando il recupero dell’intervento dello Stato, al quale riaffidare ruoli di protezione e direzione economica.

Replicando, in modi diversi, la scelta statalista operata negli anni Trenta del ’900 dopo il disastro provocato dal liberismo, la destra si è così accreditata come garante delle ragioni dei territori, a tutela degli interessi nazionali e delle comunità locali. Ciò le ha consentito di recuperare consensi presso vasti settori di lavoratori dipendenti e autonomi e, nel caso della Lega Nord, presso fasce popolari e di lavoro operaio.

La destra ha interpretato lo «spirito del tempo» dando all’insicurezza e alla paura una risposta precisa, in armonia con l’individualismo aggressivo radicatosi nel Paese nel corso degli ultimi venti anni: l’individuazione di un nemico esterno. In termini di insicurezza sociale il nemico è di volta in volta la Cina, la globalizzazione, l’Europa, lo Stato che impone le tasse. In termini di insicurezza personale il nemico è lo straniero, lo «zingaro», il diverso, chi dissente e lotta contro l’ordine sociale esistente. La destra ha riproposto la costruzione di una comunità basata sulla difesa verso l’esterno e sulla necessità di disciplinamento all’interno. «Più polizia e più dazi» potrebbe esserne la parola d’ordine. In questo contesto il fondamentalismo religioso e il richiamo ad una presunta «civiltà europea» sono connotati essenziali per costruire identità comunitarie (europea, nazionale o locale a seconda delle versioni) in cui riconoscersi e da difendere.

La debolezza del Partito Democratico

La debolezza del Pd a guida veltroniana è consistita nell’oscillare tra l’inseguimento della destra sul suo stesso terreno in materia di politiche securitarie, nella modalità plebiscitaria di costruzione della direzione politica, nell’interclassismo post-ideologico e la riproposizione di un sogno «progressista» scarsamente credibile. Ne è risultata una proposta da un lato subalterna e dall’altro minoritaria, capace di parlare solo ad una parte dell’Italia. La sconfitta di Rutelli a Roma ne è l’emblema.

Da questo punto di vista il Pd è obiettivamente dentro una crisi strategica, solo velata dalla presenza sui mezzi di comunicazione di massa. La vocazione a partito che vuole tenere insieme tutto e il contrario di tutto è spiazzata dall’azione politica che la destra pone in atto dentro la crisi della globalizzazione, sia sul piano degli interessi materiali che sul terreno culturale e valoriale, azione destinata a dividere il Pd su ogni passaggio significativo.

Non a caso la dirigenza veltroniana del Pd punta ad un ulteriore restringimento degli spazi della rappresentanza politica, alla eliminazione di ogni concorrente a sinistra con la riforma della legge elettorale per il parlamento europeo e con il referendum del prossimo anno. Contrastare questa prospettiva di riduzione bipartitica del sistema politico italiano è dunque un punto decisivo che ci consegna come interlocutori quelle parti del Pd che si oppongono a questo progetto politico e istituzionale, di segno regressivo.

La sconfitta della Sinistra Arcobaleno nell’esperienza di governo

La sconfitta della Sinistra Arcobaleno nasce dentro l’esperienza di governo. Dopo le grandi lotte di massa che hanno caratterizzato il periodo del secondo governo Berlusconi da Genova in avanti, una parte consistente del popolo italiano ci ha votato, affidandoci un cambiamento da realizzare non solo sul piano del quadro politico, ma anche direttamente sul terreno delle proprie condizioni di vita. Ma l’aspettativa di cambiamento è rimasta frustrata

Le poche scelte coerenti con l’impianto programmatico dell’Unione (il ritiro delle truppe dall’Iraq, la lotta contro l’evasione fiscale, la legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, il riavvio di una politica per il diritto alla casa) sono rimaste marginali e isolate rispetto ad un indirizzo nettamente prevalente, segnato dalla priorità del «risanamento» della finanza pubblica, dall’assenza di politiche redistributive a favore degli strati sociali più deboli, da scelte ad esclusivo beneficio di imprese e banche, come la riduzione del cuneo fiscale.

La domanda espressa dalle grandi mobilitazioni di massa sino alla grande manifestazione del 20 ottobre, di fare del contrasto alla precarietà, a partire dall’abrogazione della legge 30, il centro dell’azione del governo è rimasta inevasa. All’opposto si è sostanzialmente confermato l’innalzamento dell’età pensionabile introdotto dal precedente governo Berlusconi, né si sono abrogate le peggiori leggi di quella stagione: la Bossi-Fini, la Moratti, la legge 40. Si sono disattese le promesse in materia di diritti civili. Si è proceduto ad un aumento della spesa militare, ed invece della conferenza sulle servitù militari, si è dato il via libera alla costruzione della nuova base di Vicenza e si è riconosciuta la unilaterale e illegale dichiarazione di indipendenza del Kosovo. La mancata istituzione della Commissione d’inchiesta sui fatti di Genova ha segnato anche simbolicamente una cesura, non solo rispetto alla domanda di verità e giustizia del movimento, ma anche rispetto alla stagione delle grandi mobilitazioni su cui si era ricostruita la possibilità di sconfiggere le destre.

Nel concreto svolgersi dell’esperienza di governo, la nostra gente ci ha visto come impotenti e subalterni, cioè inutili e sovente ha subito con crescente irritazione la maniera con cui abbiamo giustificato e presentato scelte perlomeno discutibili: un atteggiamento supponente invece che l’aperta ammissione delle difficoltà e dei compromessi subiti in una situazione oggettivamente difficile.

Il risultato lo si è misurato alle elezioni di aprile, dove abbiamo perso il consenso di larghissima parte delle persone che ci avevano votato nel 2006. In questo contesto la parola d’ordine della sopravvivenza della sinistra è risultata politicista, dettata dalla volontà di autotutela di un ceto politico di cui non era chiara l’utilità sul piano sociale.

Per un bilancio critico di Venezia

Si possono rintracciare le ragioni della nostra sconfitta in mille passaggi, ma il punto fondamentale è che nel congresso di Venezia abbiamo sbagliato l’analisi dei rapporti di forza esistenti. Abbiamo creduto che la sinistra moderata fosse permeabile alle istanze sociali, mentre essa si è mostrata assai permeabile alle istanze dei poteri forti. Abbiamo pensato che le forze sindacali potessero svolgere un positivo ruolo di pressione, quando invece hanno svolto un ruolo di stabilizzazione del governo in diretta concorrenza con la sinistra. Abbiamo pensato che la scrittura del programma legasse ad un patto le altre forze politiche e invece queste ne hanno fatto carta straccia. Abbiamo sopravvalutato la nostra capacità di incidenza sul quadro politico quando la dislocazione dei poteri reali era tutta contro di noi. Abbiamo ipotizzato che l’alternanza fosse il viatico per l’alternativa e questa ipotesi si è rivelata completamente sbagliata.

In breve: abbiamo fatto parte della maggioranza parlamentare e siamo stati nel governo, ma il Paese lo hanno governato altri, spesso nella dialettica tra sinistra moderata, opposizione e poteri forti.

In questa esperienza il Partito ha via via perso molti legami sociali e l’internità ai movimenti che ne aveva contraddistinto il progetto politico negli ultimi anni, una progressiva separazione che si è materializzata in maniera emblematica il 9 giugno 2007 con la scelta di stare nella piazza vuota dei partiti della sinistra mentre una grande manifestazione anti-Bush attraversava la capitale. Il partito si è progressivamente ripiegato su se stesso, i circoli si sono in buona misura svuotati. Si è aggravata la crisi del radicamento sociale del Partito, figlia di una insufficiente cura dell’organizzazione sul territorio. Per di più, in una fase in cui veniva a maturazione una radicale crisi della politica, ci siamo trovati a ricoprire ruoli istituzionali percepiti come totalmente interni alla «casta», sottovalutando completamente la portata dell’ondata “antipolitica” che coinvolgeva tanta parte del nostro elettoralo e rispetto alla quale ci siamo lasciati cogliere impreparati.

Oltre a questi elementi di fondo e decisivi, le modalità di costruzione della Sinistra Arcobaleno hanno prodotto ulteriori effetti negativi nella campagna elettorale.

In questo contesto siamo andati alle elezioni e abbiamo perso perché per molti qualsiasi voto – l’astensionismo, il voto al Pd in una logica frontista, addirittura il voto alle destre populiste – è sembrato più utile del nostro.

Abbiamo sbagliato l’analisi di fase e ne abbiamo subito impietosamente le conseguenze.

La nuova fase caratterizzata dalla crisi della globalizzazione capitalistica

Dalla sconfitta non si esce semplicemente riprendendo il percorso interrotto prima del governo Prodi.

In primo luogo perché oggi ci troviamo dentro la crisi della globalizzazione capitalistica, a partire dalla crisi della finanziarizzazione dell’economia e dall’esplosione della “bolla” finanziaria (con la crisi dei famigerati mutui subprime), che ha determinato chiari segnali di recessione negli Stati Uniti e, conseguentemente, il rallentamento dell’economia in Europa. La ricerca del massimo profitto a breve ha negli ultimi anni considerevolmente accentuato il carattere speculativo dell’impiego di capitale, sollecitato dal crescente indebitamento di imprese e famiglie, esasperando il connotato di finanziarizzazione dell’economia. In questo quadro, la crisi finanziaria in corso, ha il carattere di un vero e proprio cambio di fase, destinato ad avere pesantissimi effetti, nei prossimi anni, sul piano economico e sociale.

In secondo luogo perché la negativa esperienza di governo ha esaltato e fatto precipitare gli effetti di processi di lunga durata che già da tempo stavano venendo a maturazione.

Si tratta, nello scenario italiano, della chiusura di cicli storici che intervengono sia sul piano materiale che su quello delle identità politiche e culturali. E dell’intreccio di questi processi con la crisi della globalizzazione neoliberista. Il quadro tutto modificato che ci è consegnato pone domande cruciali da cui dipende la possibilità di ricostruire un ruolo storico per la sinistra.

Sullo scenario italiano consideriamo decisivi in particolare due processi:

a) la modifica radicale della composizione di classe su cui si era costruito il ciclo di lotte del ’68-69: la consunzione degli elementi di unità di classe e la frantumazione dei lavoratori in un contesto di profondissime modifiche sul piano dei processi lavorativi e dei meccanismi di valorizzazione del capitale, pongono problemi inediti ai fini della costruzione del blocco sociale di riferimento, della ricostruzione di un rapporto fra condizione materiale del lavoro e sinistra politica;

b) la chiusura del ciclo istituzionale nato dalla Resistenza e fondato sulla Costituzione repubblicana. Le spinte bipolari oggi riproposte come bipartitiche, la sostituzione dei partiti di massa con partiti costruiti attorno al leader, la rottura del meccanismo della rappresentanza sociale e la conseguente crisi della politica hanno radicalmente cambiato il quadro in cui si svolge l’azione politica rendendo sempre più impermeabili i governi al conflitto sociale. Precipitano decenni di crisi della rappresentanza e il Pd, con la sua supplenza plebiscitaria, ne è prodotto e al contempo, accelerazione.

Anche qui il terreno su cui la sinistra politica era cresciuta nel nostro Paese si presenta nettamente cambiato di segno. Persino nei processi di costruzione dell’identità. Lo stesso antifascismo, idealità fondante della nostra democrazia, è stato appannato e stravolto dal diffondersi di un revisionismo storico che ha portato a considerare la Resistenza un evento da dimenticare o da riconsiderare in un confronto bipartisan, o al più da celebrare ritualmente.

Sul piano globale l’attuale fase di crisi, oltre a quelli citati in premessa, appare connotata dall’intreccio di processi che ci paiono così sintetizzabili:

a) la crisi di un modello di sviluppo basato sulla presunzione di illimitatezza delle risorse. Già oggi l’accaparramento delle residue fonti energetiche è alla base di molti conflitti e nei prossimi anni lo sarà il tentativo di accaparramento delle fonti idriche e alimentari di base. Le devastazioni territoriali prodotte dalle grandi opere ci parlano di una contraddizione palese tra gli interessi vitali delle popolazioni e questo modello di sviluppo. L’inquinamento, i mutamenti climatici, la scarsità delle materie prime, dell’acqua, dei cereali, ci parlano della fine di una fase in cui lo sviluppo del movimento operaio e della sinistra si era intrecciato allo sviluppo economico, rendendo praticabili politiche «progressiste» di stampo socialdemocratico.

La questione ambientale si pone più che mai come questione dirimente data la forma attuale del capitalismo. La globalizzazione dei mercati accentua i fenomeni di distruzione della natura consentendo alle Imprese di smistare le loro attività nei Paesi dove trovano più convenienza: dunque dove trovano maggiore disponibilità di forza lavoro a basso costo, senza vincoli sindacali, ma anche dove trovano assenza di vincoli ambientali e maggiore disponibilità delle materie prime. Inoltre il processo moderno delle «recinzioni» si estende come mai prima al complesso e alla struttura stessa della vita, trasformando non solo la terra, l’acqua, l’aria, l’energia, ma anche gli animali e le piante e perfino il genoma, da «beni comuni» dell’umanità e del pianeta, in merci (valori di scambio) da destinare a profitti privati.

Il modello che ne scaturisce ha le unghie e gli artigli ancora più affilati e raffinati del vecchio saccheggio sviluppista. Da una parte, mascherandosi dietro la categoria pseudoriformista dello «sviluppo sostenibile», continua a perseguire, anche per le generazioni future, lo stesso paradigma di crescita e di sviluppo (di «malsviluppo»). Dall’altra, si affretta a praticare una shock economy: un modello di accumulazione fondato sulla redditivizzazione delle catastrofi, impegnato a trasformare il disastro ambientale causato dalle imprese (riscaldamento globale, desertificazione, rifiuti, crisi idrica, ecc.) in un affare per le imprese stesse: un «ecocapitalismo», insomma, che, grazie ai protocolli e alla governance internazionale, assume a livello planetario i caratteri della rapina, in un una sorta di inedito ecocolonialismo (sfruttamento delle risorse, commercio delle emissioni, bioprospezioni, brevetti, guerre d’acqua, trasformazione della terra produttrice di cibo in bioenergia, ecc.).

b) la ripresa della corsa al riarmo e la guerra preventiva e permanente. La nuova corsa al riarmo (anche nucleare) va di pari passo con l’acuirsi di una tendenza alla guerra come mezzo di risoluzione violenta delle controverse internazionali e di conflitti regionali decisi sulla base delle esigenze geopolitiche ed economiche dei potenti del pianeta. Questa escalation è connessa all’indebolirsi dell’unipolarismo statunitense e alla ridefinizione dei rapporti di forza a livello mondiale all’interno della crisi della globalizzazione neoliberista.

Alla crisi di egemonia ed economica della globalizzazione neoliberista, la risposta da parte degli Usa è stata quella di lanciare, attraverso la guerra preventiva, un’offensiva su scala globale per garantirsi due obiettivi: il controllo diretto su aree strategiche del pianeta, fondamentali per presenza di risorse energetiche; la riaffermazione nel ruolo di potenza unipolare nella ridefinizione di un nuovo ordine mondiale e sul conseguente rilancio della spesa bellica come sostegno ad un’economia in crisi.

Nonostante il fallimento di tale strategia, particolarmente evidente in Iraq e in Afghanistan, non vengono ad oggi escluse possibili nuove avventure militari. Siamo di fronte ad una vera e propria geopolitica del caos, che crea instabilità permanente aprendo costantemente nuovi fronti, alimentando il terrorismo e l’erosione di libertà e diritti civili in una logica di Stato d’eccezione permanente.

Un ruolo particolare in questa strategia riveste il disegno di Grande Medio Oriente per l’area mediterranea. In questo quadro va letto quanto accade in Libano, la drammatica situazione del conflitto israelo-palestinese, cuore delle tensioni di tutta l’area. La politica del fatto compiuto portata avanti fino ad oggi, sta compromettendo una soluzione basata sul principio dei «due Stati per i due popoli», come risultato dell’espansione degli insediamenti dei coloni, della costruzione del muro dell’apartheid, della divisione in bantustan della Cisgiordania, dell’assedio a Gaza.

Alcune domande cruciali

L’elaborazione di una risposta adeguata alla crisi in cui versa la sinistra oggi non è possibile senza una risposta ai quesiti che nascono direttamente dalla chiusura dei cicli storici giunti a compimento nell’attuale fase di crisi della globalizzazione capitalistica.

Come si istituisce un legame tra difesa degli interessi materiali delle classi subalterne della popolazione e progetto di trasformazione in un contesto di crescita economica scarsa o nulla?

Come si costruisce un nuovo sistema di partecipazione democratica nella parziale inutilizzabilità del sistema istituzionale odierno?

Come si ricostruisce la coalizione del lavoro e la solidarietà di classe nel tessuto produttivo disperso, atomizzato e frantumato territorialmente?

Dalla risposta a questi quesiti e non da qualche operazione di ingegneria organizzativa dipende la possibilità di ricostruire un ruolo storico per la sinistra che altrimenti risulta completamente spiazzata. Tanto più che la forza della destra populista risiede proprio nell’avere interpretato questi processi e nell’avere individuato nella risposta al tema dell’insicurezza il punto focale della propria proposta politica. Che la risposta all’insicurezza declinata dalla destra sia al fondo fasulla e propagandista nulla toglie alla sua forza materiale nella misura in cui noi non siamo in grado di elaborare una risposta alternativa che abbia almeno pari forza evocativa e concreta efficacia.

In questo quadro avanziamo la nostra proposta politica, nella consapevolezza della sua parzialità e della necessità di agire attraverso l’inchiesta, la riflessione e la lotta per l’elaborazione di risposte più compiute e organiche.

Parte seconda. Come uscire dalla sconfitta

Siamo convinti della necessità di procedere con determinazione lungo un percorso unitario che permetta alle forze della sinistra sociale e politica di ricostruire l’efficacia della propria iniziativa su tutti i terreni di conflitto. La grave sconfitta subita il 14 aprile non indebolisce tale convincimento, semmai lo rafforza.

Alla luce dell’esperienza compiuta in questi anni, riteniamo che la ricostruzione della sinistra in Italia implichi l’attivazione di tre processi: il rilancio politico e organizzativo di Rifondazione Comunista; la costruzione della sinistra dal basso; la costruzione dell’opposizione al governo Berlusconi.

II.1. Il ruolo del Prc

La rifondazione comunista continua

Lungo i suoi 17 anni di vita, il Prc ha svolto una funzione importante nella società italiana, nel movimento contro la globalizzazione capitalistica e nel campo delle formazioni comuniste, di sinistra e rivoluzionarie in Europa e nel mondo. A nostro giudizio, la rifondazione comunista non ha esaurito la propria funzione storica.

È pertanto necessario rilanciare Rifondazione Comunista e l’idea dell’unità di forze sociali, culturali e politiche, dalle diverse identità e pratiche.

È questo il presupposto per la ripresa della costruzione dell’unità della sinistra in Italia, rovesciando letteralmente il progetto della Sinistra Arcobaleno realizzato dall’alto, senza chiarezza su nodi strategici fondamentali, come la questione del governo e la collocazione europea, e mortificando le identità politico-culturali delle forze partecipanti.

La rifondazione comunista continua perché la contraddizione tra capitale e lavoro è strutturale a questo sistema, con gli esiti devastanti dello sfruttamento e della guerra, che tale contraddizione sistematicamente riproduce.

La rifondazione comunista continua perché a fronte della crisi di un modello di sviluppo proteso simmetricamente allo sfruttamento dell’umanità e al saccheggio dell’ambiente, mai come oggi è attuale la domanda di «cosa, come, per chi produrre», la necessità di liberare la società e la natura dal vincolo della valorizzazione del capitale.

La rifondazione comunista continua perché solo all’interno di un «movimento reale» si può conoscere e trasformare lo stato di cose esistente.

La rifondazione «senza aggettivo», senza dispositivi interpretativi dell’attuale fase capitalistica, è pensiero debole, sinistra debole, un «oltre» senza orizzonte. La rifondazione comunista intende tematizzare e praticare il divenire oggi comuniste e comunisti: non una divisa statica e dottrinaria, ma una ricerca condotta nella convinzione che il sistema sociale esistente, con le sue iniquità e la sua violenza, non sia la fine della storia.

La rifondazione continua per innovarsi, per proseguire una ricerca aperta sulle nuove forme della politica, che provi a colmare il divario tra culture e pratiche politiche, a partire dalla soggettività delle donne e dall’internità al movimento altermondialista.

Il partito in movimento

La fase politica inedita che affronteremo nei prossimi mesi e anni, con l’intera sinistra priva di rappresentanza parlamentare, impone di dedicare particolare cura al rafforzamento organizzativo e all’insediamento sociale e territoriale del Partito. La condizione extraparlamentare rende ancor più necessario ripensare la nostra strutturazione organizzativa e le nostre modalità di funzionamento, partendo dalla valorizzazione di passioni ed esperienze che vivono nella comunità dei militanti e degli iscritti al Prc.

La consapevolezza dei limiti della forma-partito e le difficoltà della fase apertasi dopo la sconfitta elettorale ci spingono a proseguire sulla strada della sperimentazione e dell’innovazione, avendo ben chiaro che abbiamo bisogno di un partito radicato nella società e nei territori; capace di organizzare lotte e vertenze e di praticare forme di mutualismo nello spazio della quotidianità; autonomo dalle ideologie dominanti, aperto alla relazione con la realtà sociale e interno alle reti di movimento.

Occorre quindi proseguire la ricerca su forme dell’organizzazione politica che sappiano essere efficaci sul terreno della trasformazione sociale, coniugando partecipazione diretta e rappresentanza. A tal fine è necessario contrastare il processo di degenerazione leaderistica e plebiscitaria che ha attraversato il nostro partito: una degenerazione che, accompagnata dalla “retorica dell’oltre” , ha in realtà condotto all’indebolirsi del nostro radicamento e ad una regressione sul terreno della democrazia nella direzione del partito mediatico. E’ per questo motivo che non disgiungiamo la ricerca sulla forma partito dalla cura della comunità politica di rifondazione comunista e della sua organizzazione democratica e territoriale.

Se concepiamo il partito come strumento per la costruzione di un blocco sociale della trasformazione e se constatiamo che la crisi della sinistra affonda le proprie radici anche e soprattutto nel progressivo distacco tra le rappresentanze istituzionali e una società sempre più frantumata, diventa centrale la riflessione intorno alle forme dell’agire politico e l’accentuazione del carattere sociale del partito e più in generale della sinistra.

Ritrovare una connessione con il nostro popolo non può essere una scelta ideologica o puramente politica: deve essere al tempo stesso una pratica. Nella crisi della politica che è anche crisi della società, il «partito sociale», inteso come punto d’incrocio tra movimenti che si politicizzano e partiti che si socializzano, superando l’illusione dell’autosufficienza che sarebbe nociva agli uni ed agli altri è una feconda traccia di lavoro per Rifondazione Comunista, e – crediamo – per tutta la sinistra.

La rivoluzione delle pratiche: l’innovazione di Rifondazione Comunista

Il nostro Partito ha disatteso gli impegni collegialmente assunti con la Conferenza nazionale d’Organizzazione di Carrara. Avere proceduto in una direzione opposta alla democratizzazione del Partito è tra le ragioni dei gravi errori compiuti negli ultimi mesi, sino al deficit di partecipazione e democrazia che ha connotato le modalità di costituzione della Sinistra Arcobaleno e la formazione delle sue liste. Riteniamo indispensabile riprendere il documento di Carrara come progetto su cui lavorare.

Oggi consideriamo non più differibile il tema della riforma del Partito, di una sua vera e propria rigenerazione democratica, al fine di superare l’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti, l’incapacità di costruire relazioni positive tra centro e organismi periferici, la separatezza dei gruppi istituzionali, il burocratismo, il personalismo, l’affacciarsi dentro il Partito di comitati elettorali, il verticismo, la pratica di «esternalizzazione» delle decisioni dai luoghi statutariamente previsti.

«Innovazione» è prima di tutto superamento delle forme autoritarie, burocratiche ed escludenti – in senso proprio violente – che spesso rendono il nostro partito non accogliente, persino respingente in particolare per giovani e donne (lo dimostra l’elevatissimo turn over degli iscritti e delle iscritte), restringendo di fatto le decisioni a chiuse oligarchie, che si riconoscono autorità e si spartiscono incarichi e potere.

L’innovazione va praticata innanzitutto nella partecipazione e nell’apertura a chi non è dentro le logiche di partito (che peraltro vanno cambiate) e deve poter partecipare alle discussioni e alle scelte.

Innovazione è aprire i nostri circoli a esperienze significative di movimento, di vertenze territoriali, di pratiche associative.

Il Prc deve assumere irreversibilmente l’impegno di dare forma ad un partito bisessuato e paritario. A tale scopo non è sufficiente introdurre le regole della democrazia di genere (in primo luogo l’obbligatorietà della rappresentanza paritetica dei sessi). È necessaria anche una innovazione nelle modalità della vita democratica, al fine di cercare soluzioni condivise alle divergenze e ai conflitti e di rompere la cristallizzazione delle posizioni statiche e precostituite.

Il contributo del pensiero e della pratica politica del movimento femminista consente di alludere ad una forma partito non gerarchica, non oligarchica, non piramidale, nella quale il leaderismo e la conseguente formazione dei gruppi dirigenti per tramite di cooptazioni rispondenti a logiche di fedeltà sono definitivamente superati.

Dobbiamo tornare a sperimentare il valore di una gestione collegiale e unitaria della direzione politica. Il superamento e la critica alla forma-partito novecentesca non può avvenire attraverso una liquidazione dei processi democratici. Bisogna, invece, ripensare alla costruzione condivisa del progetto politico a partire dalle esperienze territoriali.

Correggendo la tendenza verso un partito «leggero» e «mediatico», i circoli devono essere rafforzati, dotati di strumenti operativi che rendano materialmente possibile la sperimentazione di forme di organizzazione e partecipazione più efficaci e coinvolgenti, anche riguardo ai nostri compagni e compagne residenti all’estero.

Le compagne e i compagni residenti all'estero, organizzati in circoli e federazioni, sono parte integrante del corpo del partito e costituiscono una importante risorsa politica ed umana. L’impegno politico del partito all’estero è assai importante anche alla luce delle diverse facce dell’emigrazione italiana che in questi anni si è ridotta ma non è certo scomparsa. Le esperienze, maturate in realtà sociali diverse da quelle nazionali, costituiscono quindi parte integrante dell’elaborazione e dell'impegno del partito nella lotta contro lo sfruttamento e il razzismo. Nel percorso di innovazione, il partito si impegna a rilanciare e sviluppare l'organizzazione degli iscritti all'estero, potenziando le forme esistenti e favorendo lo sviluppo di nuove forme di aggregazione, creando sempre più forti legami di reciproco e paritetico ascolto.

La gestione delle risorse deve essere trasparente e la loro destinazione va decisamente riequilibrata a favore dei territori, realizzando anche una ristrutturazione dello schema organizzativo che consenta, in aree omogenee, di avere forme di coordinamento tra le varie realtà territoriali regionali.

Va recuperata la «connessione sentimentale» con la vasta comunità politica di Rifondazione e con l’intero «popolo della sinistra». Per rompere il muro di diffidenza rappresentato dalla visione dilagante dei politici come «casta», si rende necessaria una misura concreta di autoriforma: la fissazione di un tetto alle retribuzione di dirigenti ed eletti del Partito che sia commisurato a quello dei settori sociali che intendiamo rappresentare. Anche attraverso la capacità di incarnare nella nostra vita quotidiana, la rottura di privilegi e gerarchie, si ricostruisce il senso della politica come strumento di trasformazione collettivo. Così come è necessario non disperdere una importante acquisizione di Carrara, già presente nello spirito dello Statuto del Partito: la necessità di porre limiti precisi e vincolanti, se non di evitare del tutto la sovrapposizione di incarichi istituzionali e di direzione politica.

Le ragioni della divisione

Le divisioni del gruppo dirigente che segnano questo Congresso si sono determinate sul terreno della prospettiva e della stessa esistenza di Rifondazione Comunista. Le ragioni della divisione, che è essenziale aver chiare per comprendere le scelte che siamo chiamati ad assumere, nulla hanno a che vedere – lo ribadiamo - con l’assunzione di responsabilità di una sconfitta, che ci chiama in causa tutte e tutti. Tutto il gruppo dirigente della maggioranza emersa dal Congresso di Venezia, a partire da molti firmatari di questo documento, è parimenti responsabile.

Il punto di divisione ha riguardato e riguarda invece la prospettiva di scioglimento di Rifondazione Comunista in un nuovo soggetto politico.

Nel corso della campagna elettorale è stata autorevolmente avanzata la proposta politica del «superamento» di Rifondazione Comunista all’interno di una costituente della sinistra, da fare «con chi ci sta». Tale proposta politica è stata ripetutamente formulata sui mezzi di comunicazione di massa e ha visto la predisposizione di appelli finalizzati a questo scopo. È stata cioè presentata da una parte del gruppo dirigente come una prospettiva politica da praticare attraverso fatti compiuti e «irreversibili». Ancora dopo la sconfitta elettorale è stato proposto di accelerare nella prospettiva del «processo costituente» della Sinistra Arcobaleno.

Su questo si è diviso il gruppo dirigente, sia per ragioni di metodo, di espropriazione del dibattito collettivo – poiché la proposta di superamento del Prc non era mai stata discussa né decisa da alcun organismo dirigente del Partito – che di merito.

La critica delle «costituenti»

Per diversi ordini di ragioni consideriamo sbagliata la proposta di una «costituente della sinistra».

In primo luogo questa proposta non fa i conti con la sconfitta della sinistra. Il punto su cui si è determinata la sconfitta non riguarda le forme di organizzazione della sinistra politica ma il rapporto tra la sinistra e la società. Siamo stati percepiti come non utili dai nostri referenti sociali e non siamo stati in grado di aggredire gli effetti della crisi della globalizzazione, il diffuso senso di insicurezza e paura su cui le destre populiste hanno costruito un processo egemonico che le ha portate al successo elettorale. Mettere al centro i processi di riaggregazione politica della sinistra (concretamente tra Prc e Sinistra Democratica, vista l’indisponibilità di PdCI e Verdi), non ci fa fare un passo in avanti nella soluzione della crisi verticale in cui è la sinistra è precipitata nel suo rapporto con la società.

In secondo luogo la proposta di una «costituente della sinistra» aumenta la concorrenza interna alla sinistra stessa e questo è, con tutta evidenza, il contrario di ciò che serve per ripartire.

Nella fase in cui la sinistra di alternativa ha funzionato meglio, a partire da Genova e nella fase successiva dell’opposizione a Berlusconi, un punto fondante era infatti l’unitarietà del processo di costruzione del movimento che ha evitato sia spinte centrifughe e distruttive, sia gli elementi di moderatismo e di politicismo. In una situazione di sconfitta il punto dell’unità è infatti decisivo.

Una «costituente di sinistra» aprirebbe spazi politici alla proposta speculare di una «costituente comunista», altrettanto sbagliata perché fondata esclusivamente su base ideologica e simbolica, priva di respiro programmatico e di apertura ai movimenti, e dunque incapace di incidere positivamente sulla realtà. Entrambi questi processi determinerebbero un terreno di spaccatura strutturale del movimento e metterebbero in grave difficoltà la costruzione di una sinistra e di una opposizione efficace.

La realizzazione di queste «costituenti» rappresenterebbe quindi la negazione del progetto politico di Rifondazione Comunista maturato dopo Genova.

In particolare la riproposizione del progetto della «costituente della sinistra» comporta la riduzione di Rifondazione Comunista a un fatto politicamente residuale e conservatore. Tale proposta non coglie il ruolo storico del progetto della rifondazione comunista, basato, a partire dalla rottura con lo stalinismo, sull’unità dialettica di due termini che si qualificano a vicenda: la scelta dell’innovazione radicale e la scelta di rifarsi criticamente e praticando profonde cesure, ad un filone politico qualificato dal tema della rivoluzione, intesa come superamento del modo di produzione capitalistico.

Il termine «comunista» è sinonimo di «rivoluzionario». Proprio nell’attuale fase di crisi della globalizzazione capitalistica, in cui le politiche socialdemocratiche si rivelano inefficaci perché subalterne al neoliberismo, ed in cui la destra populista si presenta con un volto “rivoluzionario”, la messa in discussione delle compatibilità capitalistiche rappresenta l’unica politica in grado di contrastare l’egemonia alla destra.

La proposta di una «costituente della sinistra» non rappresenta quindi in alcun modo l’inveramento del progetto politico di Rifondazione Comunista ma la sua negazione in chiave moderata. Il cui unico effetto concreto sarebbe garantire la sopravvivenza di ceti politici nella dissoluzione del progetto politico, proprio quando questo si presenta come effettiva necessità storica e non come mera conservazione di un patrimonio.

II.2. La costruzione dell’unità a sinistra

Le ragioni dell’unità

La sconfitta della Sinistra Arcobaleno non ha per nulla ridotto la necessità di unire la sinistra.

In primo luogo vi è una richiesta di unità, di lavoro comune che viene posta da tanti compagni e compagne, in particolare dopo la sconfitta elettorale. Questa domanda si fonde con la necessità di organizzare rapidamente l’opposizione al governo Berlusconi e da questa riaprire il cammino dell’alternativa. Ma le ragioni di fondo dell’unità risiedono soprattutto nel fatto che oggi solo una parte dei compagni e delle compagne che svolgono attività politica a sinistra si riconoscono in un partito. Moltissime persone fanno politica in comitati, movimenti, associazioni, sindacati; praticano attività volontarie di aggregazione del tessuto sociale, di risposta a problemi reali delle persone, costruiscono elementi di mutualità o solidarietà sociale che nulla hanno a che spartire direttamente con il terreno della rappresentanza politica.

Nel corso di questi anni – e il movimento altermondialista ne è stato un esempio – si è approfondita la crisi della rappresentanza, ma sono cresciute al tempo stesso mille forme di attività e di lavoro politico che occorre riconoscere e rendere quanto più possibile efficaci. Per questo è necessario lavorare al loro coordinamento e alla loro sinergia, favorendone la messa in rete.

Si tratta quindi di porsi il problema di come unire la sinistra, dalle forze politiche alle associazioni, ai singoli individui, senza ripetere gli errori e le forzature che hanno caratterizzato la Sinistra Arcobaleno.

Rovesciare il processo: costruire la sinistra nella società

La Sinistra Arcobaleno è nata dall’alto come accordo di vertice tra forze politiche. Non è stata una federazione, che avrebbe chiesto regole democratiche chiare, un processo di partecipazione, il coinvolgimento non solo dei vertici dei partiti ma di tutti i soggetti interessati. Nulla di tutto ciò è avvenuto. L’esproprio della discussione e della decisione collettiva ha inferto una ferita alla nostra comunità politica. Una ferita resa più amara dalla mancanza di chiarezza nella proposta politica, dalla sua stessa presentazione sul terreno mediatico.

Da ultimo, nella riduzione del comunismo, del femminismo e dell’ecologismo a «tendenze culturali» si è manifestato il tratto eclettico e politicista dell’operazione, tesa a ridurre i soggetti a «culture critiche».

Non è, dunque, il ritardo nella sua costruzione ad aver sottratto credibilità alla Sinistra Arcobaleno, bensì il metodo e le pratiche con cui è stata costruita: una mancanza di progetto e di soggetto che l’ha connotata come una sinistra senz’anima.

Ora si tratta di rovesciare il processo, anche valorizzando il percorso della Sinistra europea, costruendo la sinistra dal basso, a partire dal sociale, in forme democratiche e partecipate, coinvolgendo le iscritte, gli iscritti e tutti coloro che a diverso titolo intendono contribuire alla rinascita di una forte sinistra sociale e politica.

Noi non pensiamo alla sinistra, come un campo né come un microcosmo da riaggregare e tanto meno come uno spazio politico «apertosi» – come pure è stato detto – alla sinistra del Pd. Pensiamo occorra ridefinire oggi il significato della sinistra a partire dalla sua utilità sociale e dal suo concreto progetto politico. Pensiamo alla rifondazione della sinistra non sulla base di formule e modelli, ma a partire da soggetti, esperienze, sperimentazioni. La concepiamo come un percorso destinato a procedere per approssimazioni successive, a partire da esperienze e contenuti di lotta.

Il progetto unitario

Il nostro progetto unitario è rivolto a tutti i soggetti che si schierano a sinistra e non chiede a nessuno di sciogliersi, si tratti di un comitato o di un partito.

Occorre costruire una sinistra plurale non come fase di passaggio a più alte e mirabili sintesi, ma come condizione fisiologica di una sinistra articolata in una pluralità di pratiche, di culture politiche e di riferimenti ideali.

Se la sconfitta che abbiamo subito deriva principalmente dalla percezione dell’inutilità sociale della sinistra, il percorso unitario deve ripartire dal radicamento sociale, dalla presenza nei luoghi del conflitto e sui territori.

In primo luogo proponiamo di costruire in ogni quartiere, in ogni paese «case della sinistra»: spazi pubblici in cui poter socializzare i risultati dell’inchiesta sociale, mettere in rete le diverse forme di iniziativa, costruire vertenze territoriali, pratiche di mutualità, consulenze, spazi di socialità e lavoro culturale.

Se la destra costruisce la sua egemonia sulla paura e su un’insicurezza sociale vissuta come dramma individuale, le «case della sinistra» devono essere, al contrario, luoghi in cui – come ci ha insegnato don Milani – i problemi individuali vengono affrontati collettivamente. E nei quali i legami sociali e politici vengono costruiti attraverso la partecipazione diretta e il metodo del consenso.

In secondo luogo proponiamo di dar vita subito a una coalizione su base nazionale tra tutti i soggetti organizzati per costruire l’opposizione al governo Berlusconi; questa deve vivere sui territori coinvolgendo singoli, comitati e associazioni, in una sorta di forum dell’opposizione sociale.

Non sfugge a nessuno l’urgenza di una iniziativa politica costante, che non può ridursi all’organizzazione di una manifestazione nazionale per l’autunno.

Si tratta di un punto decisivo poiché i propositi del governo Berlusconi sono chiari e lasciano presagire una potente offensiva reazionaria e anti-sociale sul terreno del lavoro e delle relazioni sindacali, sull’ambiente e sulle grandi opere, sul welfare, sull’immigrazione e sul terreno di una politica estera aggressiva, subalterna ai dettami della Nato e degli Stati Uniti.

In terzo luogo, a partire dalla pratica dei due obiettivi sopra descritti, proponiamo di impegnarsi in un processo aggregativo di tutta la sinistra.

Contro il progetto di spaccare la sinistra sotteso alle due proposte di «costituente», proponiamo di dare corpo a una soggettività politica basata su una rete di relazioni stabili tra diversi soggetti organizzati (partiti, organizzazioni sindacali, associazioni, movimenti, comitati di lotta ecc.), basata su regole democratiche che garantiscano la piena partecipazione dei singoli compagni e compagne.

Il Prc, senza abiure o scioglimenti, intende partecipare come soggetto collettivo alla costruzione della sinistra unitaria e plurale. Saranno pertanto le compagne e i compagni di Rifondazione Comunista a decidere democraticamente le modalità della partecipazione a questo percorso.

Al contrario di quanto accaduto nell’esperienza della Sinistra Arcobaleno, il processo unitario che proponiamo, non deve essere un accordo di vertice centralistico e antidemocratico. Per noi la costruzione della sinistra politica passa necessariamente dalla ricerca, dall’ascolto, dalla partecipazione, dalla costruzione collettiva di lotte e progettualità politica.

II.3. L’opposizione al governo Berlusconi-Confindustria

Il governo Berlusconi sta agendo molto rapidamente per la realizzazione del suo programma e, data l’ampia maggioranza parlamentare di cui gode, potrà procedere speditamente a realizzare i suoi propositi di controriforma. Visti il programma con cui il Pd si è presentato alle elezioni e la linea dell’”opposizione non pregiudiziale” del gruppo dirigente veltroniano, appare tutt’altro che scontato che questo partito faccia una vera opposizione al governo. Decisivo è quindi costruire una opposizione sociale e politica che sappia da subito misurarsi con la rapidità, la durezza e nello stesso tempo l’intelligenza dell’attacco.

L’offensiva contro i diritti del lavoro

È assai probabile che Berlusconi, lungi dal ripetere gli errori commessi nella sua precedente esperienza di governo, punti a un coinvolgimento concertativo degli attori sociali in particolare sul tema del lavoro, potendo tra l’altro contare sulla mancata distribuzione dell’extragettito e dunque su una certa quantità di risorse utilizzabili per offrire ai lavoratori soldi in cambio della cessione di potere e diritti. Una strategia funzionale alla più radicale aggressione contro diritti e livelli retributivi.

Va ricordato come la neo-presidente di Confindustria abbia subito individuato nell’attacco al contratto nazionale di lavoro – strumento fondamentale di regolazione universalistica e solidale dei rapporti tra capitale e lavoro – il principale obiettivo dell’iniziativa padronale. In questa posizione vi è una profonda assonanza con il governo Berlusconi, che vuole detassare straordinari, premi e regalie aziendali per sostituire il paternalismo individuale alla contrattazione collettiva.

La stessa proposta di introdurre le gabbie salariali va nella direzione di smontaggio del contratto nazionale di lavoro. Dopo la cancellazione della sinistra dal Parlamento, governo e Confindustria vogliono far scomparire il movimento dei lavoratori, con una «innovazione» reazionaria che ci riporterebbe all‘800.

A nessuno può sfuggire come questa offensiva non veda l’opposizione della maggioranza della Cgil: contestualmente all’attacco nei confronti della sinistra politica, è partito l’attacco alla sinistra sindacale e alla Fiom. Con l’accettazione del documento sulla riforma della contrattazione, la maggioranza della Cgil, vuole aprire un nuovo capitolo della rappresentanza sociale connotato dall’interclassismo sindacale. Questa scelta cambierebbe il modello di sindacato generale, rivendicativo, conflittuale e di classe che ha contribuito all’emancipazione dei lavoratori e ha diffuso con le lotte sindacali la conquista dei diritti nel mondo del lavoro.

Contro questa offensiva è necessario impegnarsi da subito nella costruzione di un vasto schieramento di forze sociali e politiche, in grado di opporsi a tale disegno regressivo, rilanciando il movimento di lotta per il salario e il ripristino di un meccanismo di recupero automatico del potere d’acquisto delle retribuzioni e delle pensioni (nuova «scala mobile»); contro lo sfruttamento del lavoro precario (compreso il lavoro autonomo di tante partite Iva e co.co.pro.) nel settore pubblico e privato; contro le pensioni da fame e lo smantellamento del welfare; in difesa del contratto collettivo nazionale e contro la drammatica caduta degli standard di sicurezza sul lavoro, responsabile di oltre un milione di incidenti all’anno e della tragedia di quattro «morti bianche» al giorno.

L’attacco all’ambiente,ai beni comuni, ai diritti sociali e al sistema costituzionale

L’offensiva della destra ovviamente non sarà rivolta solo al mondo del lavoro.

Le grandi opere – dalla Tav al ponte sullo Stretto ai rigassificatori, alle nuove centrali a carbone – saranno un cavallo di battaglia motivato in nome di un colbertismo anticiclico.

Contro questo modello di sviluppo distruttivo dobbiamo operare per rafforzare le lotte sui territori e la messa in comunicazione dei saperi alternativi. Dobbiamo facilitare gli elementi di coordinamento tra le vertenze in un percorso partecipato di elaborazione di un contropiano nazionale sull’energia, il trasporto, la gestione dei rifiuti.

Decisivo inoltre è difendere la società dall’offensiva privatizzatrice bipartisan, che Confindustria auspica e sospinge; questo significa difendere i beni comuni e, tra questi, in primo luogo l’acqua. Occorre dare centralità al movimento per la ripubblicizzazione dell’acqua, valorizzando la capacità costruita in anni di originale mobilitazione nei territori e di coinvolgimento delle comunità e degli enti locali.

L’attacco al welfare – con la riduzione dei servizi pubblici, la costruzione di un mercato dei servizi e il rilancio deciso della sussidiarietà – costituirà un ulteriore pilastro di questa offensiva, intrecciato all’attacco alla libertà e all’autodeterminazione delle donne, alla riproposizione della famiglia come luogo di erogazione gratuita del lavoro femminile. Il processo di riduzione del tempo dedicato al lavoro di cura, che comunque le donne hanno messo in atto in questi anni, in assenza di una risposta pubblica, si è tradotto nella diminuzione dei tempi delle relazioni, nell’aumento delle solitudini. Questa contraddizione rappresenta uno dei fattori di crisi della qualità della vita delle donne e della qualità della convivenza fra donne e uomini e fra generazioni diverse.

La lotta per la difesa e il rilancio delle politiche di welfare è dunque un punto essenziale della nostra iniziativa. Si tratta di operare per saldare le mille forme di vertenzialità specifica agiti dagli utenti e di metterle in connessione con i lavoratori dei servizi. Solo in questo intreccio si può determinare l’efficacia dell’iniziativa politica.

Una particolare importanza occupa il tema della casa, un vero e proprio dramma sociale, di cui non vi è adeguata percezione politica. La disastrosa situazione abitativa del nostro paese, esito di un ventennio di politiche liberiste, ha ridisegnato le città, espulso in periferie spesso desertificate i ceti popolari, ed è uno dei terreni su cui più immediatamente si determinano meccanismi di “guerra tra poveri”. La lotta per un piano di edilizia pubblica al fine di avere disponibilità di case ad affitti decenti è da intrecciare ad una lotta per ottenere tutele per quelle decine di migliaia di famiglie che vedono oggi crescere il costo dei mutui a livelli esorbitanti. La ripresa di una mobilitazione collettiva sul tema del diritto alla casa è punto decisivo nell’opposizione a questo governo che nella saldatura tra rendita e profitto ha uno dei suoi punti di forza materiali, e nel conflitto per l’accesso a protezioni sociali sempre più scarse, una delle leve principali della propria egemonia.

Infine, a coronamento di un organico disegno reazionario, non mancherà di farsi strada il progetto complessivo di revisione costituzionale, largamente condiviso dal Pd, all’insegna di logiche autoritarie e oligarchiche (presidenzialismo, riduzione della rappresentanza degli interessi sociali, marginalizzazione del Parlamento) e della volontà di costituzionalizzare (attraverso il federalismo fiscale) i divari di ricchezza e di sviluppo tra le varie aree del Paese.

L’attacco ai diritti di libertà e alle garanzie costituzionali si annuncia tanto più minaccioso nel clima creatosi in Italia con la vittoria della destra populista e razzista: un clima sociale e politico pericoloso, che incoraggia agguati di marca neonazista, come nel caso dell’omicidio di Verona, e pogrom razzisti contro insediamenti rom.

In questo contesto di grande allarme – esasperato dall’enfasi mediatica sulla presunta «emergenza sicurezza» – occorre sviluppare immediatamente la massima capacità di contrasto politico, sociale e culturale nei confronti della logica securitaria della destra, espressasi nelle prime decisioni del governo in materia di immigrazione e supportata purtroppo anche da vasti settori politici e amministrativi facenti capo al Pd.

La sinistra deve mostrare la propria capacità di iniziativa denunciando le ormai giornaliere aggressioni a immigrati, gay, rom; chiamando alla mobilitazione contro il clima di caccia alle streghe nei confronti di ogni conflitto e manifestazione di dissenso; impegnandosi per la ricostruzione di un senso comune antifascista soprattutto tra le giovani generazioni; ricostruendo una concezione della sicurezza alternativa al securitarismo e al giustizialismo, che rilanci costituzionalismo democratico, Stato di diritto, sistema delle garanzie. La lotta al securitarismo è rifondazione di senso, di legame sociale, di sicurezza di lavoro, di reddito, di vita. Così come va rilanciata con forza la battaglia antiproibizionista che costituisce l’altro lato delle politiche securitarie della destra.

Occorrerà riattivare i luoghi del conflitto e provare a organizzare una controffensiva sociale, con l’individuazione dello spazio europeo come terreno indispensabile per dare efficacia alla nostra azione. E si dovrà tenere viva la connessione tra i contenuti sociali e la mobilitazione per politiche di pace e in solidarietà con i popoli minacciati o direttamente aggrediti (a cominciare da Palestina, Cuba e Venezuela). In ogni caso, la costruzione dell’opposizione non sarà una operazione semplice o automatica. Non basterà dire di no: sarà necessario costruire piattaforme che riconnettano senza scorciatoie i nessi della frantumazione sociale.

Costruire l’opposizione a partire dai diversi contesti territoriali

Le differenze territoriali in questi anni in Italia sono notevolmente aumentate. Su queste differenziazioni le destre populiste hanno costruito parte consistente delle proprie fortune elettorali e politiche. Il punto decisivo per mettere in discussione questa egemonia delle destre o il controllo del territorio da parte della malavita organizzata consiste nella rivitalizzazione dei percorsi democratici e di partecipazione, finalizzati alla costruzione di una diffusa vertenzialità territoriale, che ricostruisca protagonismo sociale in grado di intrecciare la questione di classe con il rafforzamento dei legami sociali e la costruzione di comunità territoriali solidali.

La crisi sociale del Nord del Paese e dell’«Italia di mezzo»

Il Nord del Paese è attraversato da profondi cambiamenti – che in questa fase paiono acuirsi e consolidarsi – e da una lunga crisi delle forme di socialità, di aggregazione e di conflittualità, che hanno caratterizzato nel ‘900 l’Italia settentrionale.

Il neo-liberismo manifesta il suo carattere pervasivo attraverso molteplici processi: l’aumento ulteriore dello sfruttamento del lavoro dipendente e operaio – sovente destrutturato dai processi di riorganizzazione e di “dispersione” delle imprese; l’utilizzo come “carne da lavoro” di lavoratori e lavoratrici migranti, identificati al contempo come i «nemici sociali»; la rincorsa continua alla competitività da parte dei soggetti e dei poteri forti, che chiede – attraverso la continua realizzazione di infrastrutture – la devastazione e la cementificazione dei territori.

In questo contesto, nel Nord, si è rafforzato l’individualismo proprietario ed è cresciuto il riferimento al territorio e alla comunità come elementi su cui ricostruire un’identità chiusa.

Le aree del Nord più sviluppate si presentano come un continuum di capannoni, fabbriche, centri commerciali e abitazioni, in cui mancano spazi pubblici e di aggregazione. Va ricostruita una forte capacità conflittuale che muova dalle mille forme di lavoro operaio, dalle tante precarietà diffuse, dalla rigenerazione di nuove forme di solidarietà, da un nuovo bisogno di comunità democratiche.

L’onda lunga del neo-liberismo si fa sentire anche in quella che i sociologi chiamavano «Italia di mezzo», mettendo anche lì in discussione modelli e forme di convivenza, di socialità, di sviluppo solidale.

Non esistono zone franche da questo punto di vista. Basti pensare all’affermazione della Lega Nord in Emilia-Romagna.

L’avanzare della cementificazione sul piano territoriale e della rendita sul piano economico porta a mutamenti profondi nella composizione sociale e nella coscienza collettiva. Va in crisi il ruolo della cooperazione, che sempre di più rischia di essere assorbita da logiche tout court mercantili; è in crisi in termini più generali e complessivi l’idea di sviluppo solidale, basato su politiche redistributive forti ed avanzate sul piano sociale, che ha caratterizzato per lungo tempo quelle regioni. Il Partito Democratico, forza di governo ancora maggioritaria (anche se non ovunque), si pone come mero gestore e spettatore di tali processi. Anche qui si afferma la necessità della costruzione dell’alternativa.

In particolare in queste aree, tra i processi di trasformazione del lavoro va consatata sia la dilatazione di forme tradizionali di lavoro autonomo che sue forme nuove, così come la dilatazione dell’area di micro-imprese assai simili al lavoro autonomo. Si tratta di sei milioni di persone, più molti altri milioni di dipendenti delle micro-imprese. Occorre ricostruire una attenzione della sinistra verso queste figure lavorative, ascoltarne le richieste, fare inchiesta e individuare politiche che permettano di riaprire un dialogo proficuo.

Il Mezzogiorno

In particolare per il Sud occorre un progetto che abbia l’ambizione di forzare i vincoli di una storica dipendenza economica ancora più aspra nel quadro contemporaneo della globalizzazione. Per questa via è possibile intaccare una realtà sociale in cui persistono e si accentuano la presenza e il peso della malavita organizzata. Un Mezzogiorno che restasse confinato nel suo destino storico di area di consumo, di manodopera precaria a basso costo cui sono riservati i segmenti poveri e nocivi della produzione, non potrebbe mai trovare gli anticorpi necessari per contrastare in radice il potere criminale.

I governi di questi anni, pur con lievi differenze, hanno segnato una grande indifferenza rispetto al Sud. Spesa pubblica, spesa in conto capitale, trasferimenti ordinari hanno subito una caduta verticale costringendo i Comuni ad utilizzare per l’ordinario i fondi europei che così non hanno inciso su occupazione e qualità sociale esponendo la programmazione alla frantumazione e alla dispersione, anche clientelare. Nessun disegno nazionale capace di selezionare gli investimenti per l’industria innovativa, i sistemi ambientali, le infrastrutture di qualità e nemmeno il cofinanziamento della legge campana, l’unica in Italia, che pur con limiti ha messo in campo un reddito di cittadinanza.

Non sorprende che in questo quadro si sia rafforzato il peso delle organizzazioni mafiose – Cosa nostra, ’Ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita – che non solo controllano militarmente vaste aree del Mezzogiorno (spesso sostituendosi allo Stato nell’erogazione di “servizi” e nella mediazione sociale), ma, muovendo un giro d’affari pari al 7% del Pil nazionale, costituiscono ormai un’insida mortale per la stessa legalità democratica.

Forti della protezione loro garantita da politici e amministratori collusi, le mafie esercitano potere di controllo e di comando nei settori degli appalti per le grandi infrastrutture pubbliche, della gestione del micro-credito e del ciclo dei rifiuti, oltre che nelle attività criminali legate al traffico di stupefacenti e al riciclaggio di denaro sporco, al racket delle estorsioni e all’usura, al gioco e alla prostituzione.

Occorre quindi invertire la tendenza, con la ripresa di una battaglia politica che saldi la questione del reddito, al modello di sviluppo, alla riforma della politica e alla lotta alla criminalità organizzata.

Per un’antimafia sociale

Contro questo cancro – che contribuisce direttamente alle pessime condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari del Sud – è urgente rilanciare l’iniziativa sociale, concentrandosi in particolare nella lotta contro le ecomafie, la realizzazione diffusa di megacentri commerciali (in realtà snodi di riciclaggio di profitti illegali) e la progettazione di infrastrutture faraoniche, devastanti e superflue come il ponte sullo Stretto.

Come ci hanno insegnato Peppino Impastato, Pio La Torre, Placido Rizzotto le mafie non sono fenomeni gangsteristici legati a nicchie di arretratezza dello sviluppo, ma intreccio tra economia legale e illegale come segmenti dei processi di accumulazione, dei processi di valorizzazione del capitale. Il neoliberismo fa bene alle mafie.

Perciò la nostra è antimafia sociale: volontà di costruire percorsi di legalità e presidi democratici sul territorio; le mafie si combattono attaccandone le ricchezze, con il sequestro e la confisca dei loro beni, ridestinandoli ad uso sociale, restituendoli alla collettività e facendone occasione di lavoro, così come concretamente sta facendo l’associazione “Libera” di don Ciotti, che rappresenta la trincea più avanzata di lotta alla mafia.

La «questione sarda»

Senza qui definire ipotesi per nuove forme organizzative, occorre elaborare un progetto specifico per la Sardegna, dove la sinistra autonomista e quella nazionalitaria stanno costruendo una impegnativa resistenza contro la funzione militare assegnata all’isola e contro il tentativo di nascondere i danni provocati alla salute delle popolazioni dalle armi in uso nei poligoni di addestramento.

La scelta di tenere il G8 in Sardegna rappresenta il simbolo del tentativo di deindustrializzare e distruggere la cultura operaia e contadina, privatizzare l’acqua, stravolgere, attraverso modelli americanizzanti di consumo, quella ricchezza di biodiversità e di cultura comunitaria e solidale che ha contribuito a formare una coscienza di classe e di popolo.

L’organizzazione e la partecipazione ai diversi movimenti di lotta e un tentativo di loro saldatura nella elaborazione di un diverso modello di sviluppo che abbia al centro la valorizzazione del percorso partecipativo costituiscono il terreno su cui dobbiamo concretamente agire.

Contro il federalismo fiscale, per il salario sociale: un nuovo meridionalismo per l’Europa

Il governo Berlusconi nasce con l’obiettivo di completare il federalismo fiscale che renderà ancora più forte i divari e la condizione di disagio delle regioni meridionali. Le criticità interne al Mezzogiorno (fragilità del tessuto democratico, debolezza delle amministrazioni locali, tendenza allo scambio clientelare) da incalzare e criticare non devono farci velo alla necessità di suscitare un grande movimento di opinione e di massa che leghi insieme disoccupati, precari, sindacati, esperienze istituzionali democratiche del Mezzogiorno.

Non si tratta di sottovalutare le contraddizioni locali ma di puntare a risolverle nella spinta tesa a cambiare la politica economica del Paese contrastando il federalismo fiscale, rivendicando un salario sociale, chiedendo la ripresa di un adeguato flusso di spesa verso il Sud, di politiche pubbliche che orientino uno sviluppo produttivo realmente sostenibile. Si tratta di battersi per un Mezzogiorno che guardi al Mediterraneo e all’Europa, tentando di fare crescere un progetto di cooperazione economica che lo svincoli progressivamente dai flussi che lo hanno destinato ad una sorte di dipendenza economica e politica.

La dimensione mediterranea è la condizione di confronto con l’Europa, per costruire forme e modelli di sviluppo che non guardino solo ad una crescita economica che ha fatto bancarotta, ma sappiano sfidare le tendenze della globalizzazione alla guerra, alla mercificazione delle persone, al dominio sulla natura e sul vivente.

Parte terza. Per l’alternativa di società. i soggetti e le culture della trasformazione

Dobbiamo confrontarci col nostro deficit di conoscenza e di analisi critica delle nuove forme del dominio, con la dilatazione tendenzialmente totalitaria del capitalismo del nostro tempo, con l’inedito processo di passivizzazione che attraversa la nostra società. La costruzione della sinistra sociale e politica pone allora il problema della costruzione della coscienza politica, della gramsciana “comprensione critica di se stessi” e, come ci ha insegnato il movimento delle donne, la costruzione del soggetto politico non può non essere un processo di liberazione dei corpi e delle menti.

La vittoria delle destre, è stata, infatti, prima ancora che elettorale, culturale: una gigantesca “rivoluzione passiva” basata sull’ideologia della sicurezza come risposta immediata all’insicurezza sociale nell’ambito di una più generale egemonia dell’impresa e del mercato. E’ questa la risposta alla crisi del neoliberismo: una risposta egemonica, divenuta senso comune. Per contrastare l’egemonia della destra, l’alternativa di società, la capacità di ricostruire relazioni e soggettività, rimane l’orizzonte della nostra possibile risposta, nel rapporto con i movimenti. La nostra inchiesta si svolge, dunque, in primo luogo per comprendere e per entrare in relazione con i soggetti dell’alternativa. La sconfitta ha assunto dimensioni tali da non consentire alcuna pigrizia nel rivedere le proprie abitudini di pensiero, le proprie chiavi di lettura della realtà e la maniera in cui definiamo i contenuti e le priorità della politica. L’elaborazione di un nuovo pensiero politico adeguato al presente sta dinnanzi a tutta la sinistra e ai movimenti. Si tratta di un lavoro di analisi e di riflessione indispensabile per costruire un nuovo senso comune di massa, ad anche un immaginario e un linguaggio capaci di contrastare l’imbarbarimento delle relazioni sociali e le ideologie e i modelli dominanti.

Ripartire dalla alternativa di società significa tornare a fare società, reimmaginare una politica che metta in connessione vertenze territoriali, esperienze mutualistiche e di autogoverno, lotte, progetto politico, speranze.

L’internità al movimento

La risposta alla sconfitta deve ripartire dalla scelta strategica dell’internità al movimento altermondialista, che ha affermato, ad esempio, la propria efficacia nell’impedire che per ben quattro sessioni negoziali della Wto le multinazionali potessero ottenere una generalizzata immissione nel mercato dell’acqua, della sanità e dell’istruzione.

Le lotte e l’elaborazione del movimento altermondialista sono all’origine della primavera latinoamericana, alla quale il nostro partito ha giustamente guardato come a un luogo avanzato di critica al neoliberismo, sviluppando relazioni forti con le realtà che ogni giorno subiscono gli attacchi delle destre reazionarie e degli Stati Uniti.

Nel subcontinente che per primo ha sperimentato le teorie neoliberiste e monetariste, dopo l’esperienza rivoluzionaria di Cuba che pur con limiti ed errori ha resistito nonostante un embargo ingiusto e criminale, l’opposizione al neoliberismo ha visto nascere l’esperienza dei Social forum mondiali e di movimenti come quelli zapatista, indigenista e bolivariano, che oggi costituiscono una speranza di emancipazione non solo per i rispettivi Paesi, ma anche per riaprire la prospettiva di un «socialismo del XXI secolo» segnato dalla democrazia partecipativa e dal rifiuto della guerra.

La sinistra latino-americana è quindi oggi un laboratorio decisivo per tutta la sinistra di trasformazione nel mondo. È pertanto necessario operare per la ricostruzione di una non formale solidarietà internazionale e per la realizzazione di forme di coordinamento solidale capaci di garantire mutuo sostegno e convergenza politica.

Il Partito deve lavorare per rafforzare e consolidare le relazioni con il Foro di San Paolo e il Forum sociale mondiale, tentando di costruire uno spazio permanente di confronto, elaborazione e azione comune con la sinistra e i movimenti latino americani.

Su questo stesso terreno, la mobilitazione contro il G8 alla Maddalena, così come l’opposizione all’insediamento della base militare del “Dal Molin” presso Vicenza e al mantenimento del sistema delle basi Nato e Usa, sono per noi impegni fondamentali sia nell’azione di contrasto al governo Berlusconi che nell’ottica dell’internità al movimento antiglobalizzazione.

Il conflitto capitale-lavoro

I problemi e le lotte del lavoro costituiscono uno dei terreni cruciali per la ricomposizione di un nuovo movimento operaio. Intendiamo con ciò riferirci non solo ai problemi del salario (considerate anche le prestazioni dello Stato sociale) e della copertura pensionistica; e alla tutela dei diritti e delle condizioni di sicurezza contro malattie e infortuni. Ma anche al tema politico della (ri)costruzione della soggettività del lavoro come protagonista sulla scena sociale democratica.

Di fronte al drammatico impoverimento delle classi lavoratrici e allo sfondamento capitalistico sul campo dei diritti e delle tutele occorre rimettere in comunicazione tutti gli attori del conflitto di classe, a cominciare dalle organizzazioni sindacali disponibili a misurarsi su questo terreno.

Occorre porsi al servizio delle lotte delle lavoratrici e dei lavoratori per un salario adeguato e contro l’abbattimento dello Stato sociale, contro la precarietà (le leggi Treu e 30) e la vergogna delle pensioni da fame, contro lo smantellamento del contratto nazionale e a difesa della salute e della sicurezza sul lavoro. Un compito primario è ricostruire la cultura del conflitto e restituire a chi lavora la consapevolezza dell’essere classe, quindi controparte del capitale.

La ricomposizione della soggettività del conflitto chiama in causa quella vera e propria «mutazione antropologica», la frammentazione determinata dai processi di precarizzazione del lavoro e delle vite: di qui la necessità ridefinire il nesso lavoro-non lavoro, tempo di lavoro, tempo di produzione, tempo di vita. Si tratta più in generale, di analizzare la capacità del capitale di estrarre valore da ogni facoltà umana: è questo il caso del precariato cognitivo (della centralità della produzione di conoscenza nei processi di accumulazione) così come dei processi di femminilizzazione del lavoro (della capacità di relazione e cura fagocitati da un capitalismo tendenzialmente totalitario e connesso a nuove forme di patriarcato).

Dall’analisi dei processi di trasformazione del lavoro nasce la proposta di un reddito sociale come strumento di ricomposizione dei soggetti nel conflitto capitale-lavoro. Ricomporre nel conflitto per diritti e garanzie quel nuovo esercito industriale di riserva delle e dei precari significa rafforzare i diritti anche del lavoro cosiddetto garantito.

Così come si tratta di valorizzare e generalizzare l’utilizzo dell’inchiesta operaia, a partire dall’analisi dei risultati di quanto sin’ora prodotto sia dal Partito che da altri soggetti, tra cui vogliamo sottolineare il pregevole lavoro svolto dall’inchiesta Fiom.

Infine, per collocare da subito il Partito nel vivo di tali questioni,proponiamo di convocare dopo il Congresso, all’inizio del nuovo anno politico, la Conferenza dei lavoratori e delle lavoratrici, articolata territorialmente e preparata con iniziative in tutti i circoli.

Il movimento per la pace

A fronte dell’allargarsi dei conflitti e della guerra come elemento costitutivo della crisi della globalizzazione, la lotta per la pace e l’opposizione alla guerra sono indissolubilmente legate alla battaglia per l’alternativa, per la ricostruzione di una sinistra anticapitalista e di un punto di vista internazionalista sul mondo.

Sostenere le lotte dei popoli per il proprio diritto all’autodeterminazione significa riprendere il cammino per la fine di ogni colonialismo, sia nelle forme militari dove è ancora presente, sia in quelle della nuova dipendenza economica. Su questo terreno l’Europa appare divisa e subalterna all’amministrazione Bush, come hanno dimostrato da ultimo il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo, l’installazione dello scudo missilistico nei Paesi dell’est.

Per quanto riguarda la cruciale situazione mediorientale, al fine di riaprire una prospettiva politica che esca dalla dicotomia fra l’ipotesi integralista religiosa e quella del disegno nordamericano, crediamo essenziale il ruolo che possono svolgere le forze della società civile e della sinistra, in Palestina, in Israele, e in tutta l’area, dove rimangono insolute altre questioni: quella del popolo kurdo, con la Turchia che ha avviato una nuova stagione di repressione e guerra; quella del popolo Sarawhi, che ha scelto la via pacifica per una soluzione che ancora stenta ad intravedersi.

La scelta per il Prc di guardare al Mediterraneo, e di lavorare per favorire i processi di pace nella regione, significa pensare al meticciato come prospettiva avversa alla paura e agli odi, e ad una Europa non atlantica, modello di convivenza radicalmente alternativo a quello dello «scontro di civiltà».

Rifondazione Comunista deve tornare a investire nel movimento per la pace e per il disarmo, sostenendo la battaglia per una Italia e una Europa libera dalla Nato e per il disarmo su scala globale.

La sinistra in Europa

La sinistra di alternativa in Europa ha avuto nel corso degli scorsi anni alterne vicende, politiche ed elettorali. Risultano in estrema difficoltà e penalizzate, le forze che hanno provato a partecipare a governi nazionali di centro sinistra o a sostenerli dall’esterno. Spagna, Francia e Italia, ma anche l’esperienza della Svezia, ci parlano di questo dato comune.

Allo stesso tempo però, partiti e movimenti di sinistra alternativa registrano successi e crescite. Ciò avviene in Germania, Olanda, Grecia e Portogallo, senza dimenticare l’Akel di Cipro: casi differenti, ma accomunati dall’aver proposto un profilo di opposizione, radicalmente alternativo a quello delle socialdemocrazie, avverso alle politiche monetariste e di riduzione della spesa pubblica imposte dalla Banca centrale europea, e in netto contrasto ai sistemi bipartitici di fatto dominanti in quei Paesi.

In tale contesto, la Sinistra europea ha rappresentato, per l’Italia, un momento di sperimentazione sul terreno delle forme della politica. Si è trattato di un’esperienza non priva di limiti, che tuttavia ha costituito un primo tentativo di superare la concezione classica del rapporto partito-movimento, di inverare la scelta strategica dell’internità ai movimenti, di unire in una «rete di reti» soggetti politici diversamente organizzati e di dare vita a processi decisionali capaci di coniugare democrazia e partecipazione.

La tesi della scomparsa della sinistra, che nel nostro Paese ha animato le accelerazioni verso un’unità priva di fondamento politico come l’Arcobaleno, è quindi frutto di una visione parziale, legata ad alcune realtà piuttosto che ad altre.

La questione dell’unità della sinistra, come emerge chiaramente da questi Paesi, non può fondarsi sulla forma, ma sul progetto politico: un progetto che non può che essere radicalmente alternativo a quello che ha visto in tutta Europa, nel corso degli ultimi quindici anni, prevalere le politiche monetariste e di controllo della spesa imposte dalla banca centrale europea e dai criteri di Maastricht.

Anche in vista dell’imminente scadenza elettorale delle elezioni europee, occorre ribadire la nostra collocazione nel quadro delle forze che insieme a noi fanno parte della Sinistra Europea e del gruppo Gue-Ngl al Parlamento europeo: forze e partiti alternativi al progetto neoliberista, tecnocratico e oligarchico sotteso al Patto di stabilità e al Trattato di Lisbona.

La conoscenza, bene comune

Nel capitalismo globalizzato la conoscenza entra sempre più direttamente nel cuore dei processi produttivi. Ciò richiede una risposta alta, che si deve fondare sull’idea della conoscenza come bene comune e sul diritto universale al sapere.

La conoscenza e la cultura contribuiscono alla formazione dei livelli di consapevolezza degli individui e quindi sono patrimonio di tutti, bene inalienabile, ambito strategico di investimento pubblico.

Vogliamo politiche economiche e sociali che garantiscano a tutti l’accesso alla produzione e alla fruizione della cultura; che ai lavoratori della cultura siano riconosciuti i diritti di tutti gli altri.

Vogliamo la piena valorizzazione del patrimonio di beni culturali e ambientali, sottratti alla logica della mercificazione.

La scuola, in questi anni, ha svolto nel suo insieme un ruolo di tenuta democratica, rispetto a valori come l’uguaglianza, la pace, le diversità come arricchimento per tutti/e. Consideriamo irrinunciabile un sistema formativo pubblico, laico ed ispirato ai valori della Costituzione.

Il diritto allo studio, esigibile come bene fondamentale ed universale, dalla scuola dell’infanzia all’università, deve crescere quantitativamente e qualitativamente, integrarsi col sistema della ricerca scientifica e tecnologica. L’elevamento dell’obbligo scolastico fino ai 18 anni, collegato a forme di reddito sociale, in un sistema sostanzialmente unitario, costituisce perciò un obiettivo strategico.

Va rilanciata la battaglia contro la dequalificazione della ricerca pubblica e contro la concezione mercantilistica della conoscenza, per una politica di investimenti massicci, per dare risposte alle decine di migliaia di intelligenze precarie e per consentire attraverso la stabilità lavorativa uan ricerca pubblica di qualità. La Rete e le tecnologie informatiche sono oggetto dello scontro tra chi vuole imporre nuove “recinzioni” e chi difende e promuove condivisione e cooperazione (software libero, difesa della privacy e della libertà di espressione, filesharing, copyleft, ecc.) e rappresentano un terreno nel quale sissperimentano e si reinvestano nuove forme di democrazia e agire collettivo.

La soggettività politica femminista

Il movimento delle donne ha rimesso al centro della politica nodi «tradizionalmente impolitici», quali il rapporto tra i sessi, il rapporto tra personale e politico, il rapporto tra corpo e legge. La critica femminista ha messo a tema la critica all’ordine patriarcale vero e proprio sistema proprietario e colonizzatore, fondatore di un tempo e di uno spazio di violenza non soltanto interpersonale ma anche sociale e simbolico: ha svelato, dunque, la falsa neutralità del maschile e posto il tema della fondazione della politica sulla rimozione di uno dei due generi.

Siamo oggi di fronte di fronte ad una vera e propria reazione culturale che si misura ancora una volta sul corpo delle donne. Una nuova generazione politica femminista, nella fertile relazione col movimento Lgbtq, è uscita dal silenzio. Ha posto alla sinistra il tema della sua rifondazione a partire da nodi considerati eticamente sensibili, ma, per noi, pienamente politici: l’autodeterminazione e la difesa della legge 194; l’abrogazione della legge 40 e la critica al familismo; la lotta contro la violenza maschile sul corpo delle donne e per l’estensione dei diritti civili a partire dal riconoscimento delle coppie di fatto.

I migranti

Il punto da cui partire è la presenza stabile di quattro milioni di uomini e donne migranti all’interno dell’economia e della società italiana. L’ideologia che giustifica i meccanismi di esclusione (e di inclusione subordinata nell’economia sommersa e illegale) è un composto in cui si mescolano vecchie e nuove forme identitarie, la concorrenza fra strati sociali impoveriti, la frammentazione delle relazioni, l’insorgere di una condizione perenne di paura che fa dell’immigrato il capro espiatorio su cui scaricare tensioni.

Occorre operare su più fronti, intervenendo nella società e nelle istituzioni per concrete politiche che aggrediscano questo razzismo in quanto strumento di legittimazione di pratiche di sfruttamento materiale.

Vanno combattute le limitazioni alla libera circolazione delle persone, l’inscindibilità fra contratto di lavoro e permesso di soggiorno, qualsiasi forma di detenzione amministrativa, con la chiusura dei Cpt, che negano lo Stato di diritto.

La percezione degli «stranieri» come causa di insicurezza sociale, va combattuta svuotando i bacini di marginalità, collaborando per la realizzazione di forme di mutuo solidarismo e, soprattutto, lottando per il pieno riconoscimento dei diritti delle e dei migranti in materia di diritti sociali, diritti civili – a partire dal diritto di voto – e relativi alla libertà religiosa. Si tratta di un lavoro di lungo respiro da fare con le/i migranti, che devono trovare più stabili spazi di agibilità sociale, culturale e politica.

Le nuove generazioni

La vulgata dominante parla de «generazione nichilista», frammentata dalla precarietà e attratta – come dimostra l’analisi del voto di aprile – dalla risposta offerta dalla destra al problema dell’insicurezza: parrebbe questa la condizione giovanile oggi in Italia.

Ma tale rappresentazione trascura aspetti rilevanti, che testimoniano dei nuovi processi di soggettivazione che negli ultimi anni, hanno dato vita a esperienze di resistenza, critica e lotta.

Si pensi alle lotte per riprendersi spazi nelle metropoli e nelle periferie urbane e per liberare la conoscenza come bene comune nella scuola e nell’università-azienda; si pensi alle tante esperienze associative e cooperative nate per sottrarsi alla logica mercificante della competizione; e si pensi al crescente successo di manifestazioni come l’Euromayday. Tutte queste esperienze parlano dell’emergere di una nuova generazione politica.

Rifondazione Comunista aveva costruito con la scelta della collocazione nei movimenti una particolare relazione con le nuove generazioni che si traduceva anche in consenso elettorale e in una diffusa simpatia. Durante l’esperienza di governo si è logorato questo rapporto di fiducia e molte aspettative nei nostri confronti sono andate deluse lasciando spazio a umori “antipolitici” e all’astensionismo. Recuperare questo rapporto è un imperativo categorico e una possibilità reale.

«Il nostro tempo è qui e comincia adesso»: liberare il futuro di questa generazione è la scommessa della sinistra ed, in primo luogo, delle e dei Giovani comuniste/i, che – nel recupero della loro reale autonomia – debbono essere in grado di costruire il senso di appartenenza ad una comunità politica democratica che ponga al centro i territori, la partecipazione, il confronto e il conflitto dentro una reale pratica di movimento.

La nonviolenza

Noi vogliamo contribuire a costruire e a far vivere un’idea della nonviolenza come teoria e pratica di lotta: come forma attuale di costruzione dell’egemonia e come critica dei rapporti violenti di potere tra le persone, lontana tanto da qualsiasi assoluto metafisico quanto dalle versioni che la assumono come un metro eurocentrico con il quale giudicare il mondo.

La nonviolenza è per noi la forma intrinseca dei processi di trasformazione della società; disobbedienza dinanzi al potere di classe e al patriarcato; rifiuto della guerra e delle pratiche terroristiche di annientamento di sé per uccidere l’altro.

La critica allo sviluppismo

Rifondazione comunista, nella prospettiva della rielaborazione di un pensiero comunista e anticapitalista, assume l’ecologia politica come una cultura critica e fondativa e non solo come un’analisi foriera di lotte e di azione.

L’ecologia politica si pone infatti storicamente come una prospettiva radicale di cambiamento del sistema. E oggi più che mai – nella fase della globalizzazione dei mercati, della colonizzazione dei viventi, della occidentalizzazione delle culture – si pone come un modello economico, etico e politico del tutto alternativo.

L’ecologia politica si pone anche come alternativa a quell’ecologia “superficiale” che oggi impera anche in alcune associazioni ambientaliste e nel Pd che spinge verso una «ecologia del fare», mero aggiustamento tecnocratico nel governo dell’ambiente, attento a non mettere mai in questione le basi del sistema di produzione e di consumo dominante. Il risparmio, il ripristino, la conservazione, il riuso, sono alcune delle categorie proposte dall’ecologia politica per la difesa dei beni comuni e dei valori naturali, nonché dei viventi e delle loro relazioni. In questo quadro decisivo è il tema dei beni comuni che rappresentano il paradigma della lotta alla mercificazione di ogni ambito sociale e naturale.

Laicità e diritti civili

La laicità per noi non è un contenuto da difendere, o un insiemi di valori. E’ lo spazio della politica, in cui i soggetti si autodeterminano e liberano. La politica delega al papa e alla Chiesa cattolica il terreno dell’etica, immiserendosi in una visione ridotta alla gestione dell’esistente. Occorre porre fine a questa deriva reazionaria: costruire un’etica pubblica libera dal potere del sacro, spezzare la sovrapposizione tra religione e norma.

Una rigorosa difesa della laicità, dunque, non solo come lotta all’invadenza della Chiesa cattolica nella vita pubblica e privata di donne e uomini, ma anche come difesa e sviluppo delle libertà personali. Si tratta di affermare una nuova comunità umana in cui l’omosessualità, il bisessualismo e il transgenderismo siano peculiari espressioni naturali dell’individuo e non motivi di esclusione sociale.

La questione morale

Lungi dall’essere una disdicevole ma accessoria caratteristica dei poteri forti nazionali e locali, la corruzione, al contrario, plasma la costituzione materiale del capitalismo italiano. Accanto alla quotidiana aggressione al territorio, e spesso intrecciata con essa, la malversazione rappresenta un elemento di illegalità specificatamente italiano nella redistribuzione di classe della ricchezza a favore dei ceti egemoni. La peculiarità della sua dimensione la rende questione di prima grandezza.

Mentre i lceto politico ha teso a derubricare il tema mostrando una certa insofferenza bipartisan verso il costante emergere di scandali legati all’intreccio affari-politica, l’opinione pubblica ha mostrato una crescente preoccupazione che si è trasformata per larghe fasce di popolazione in sfiducia generalizzata verso la politica.

La sottovalutazione di questi temi, insieme a quelli della riforma della pubblica amministrazione e dei costi della politica, non ci ha consentito di intercettare una diffusa domanda di cambiamento.

Senza alcuna concessione alle spinte giustizialiste, occorre allora ricongiungersi alla migliore tradizione della sinistra italiana, che in tutte le sue espressione ha sempre coniugato la difesa dei lavoratori e delle fasce più deboli della società con la lotta senza quartiere e a tutti i livelli contro il partito degli affari e contro gli affari dei partiti.

In conclusione

La rifondazione continua, allora, in primo luogo riprendendo quella ricerca sulla innovazione della propria cultura politica costitutiva della sua soggettività. Una ricerca che si è costruita, non nella sommatoria di culture critiche, ma nella relazione e nel riconoscimento di altre soggettività. Uscendo da sé, senza perdersi. Dunque, l’innovazione non è per noi un patrimonio da “preservare” o contendersi, nella dialettica interna, ma l’asse lungo cui pensiamo che la ricerca della rifondazione comunista possa essere utile, nella sua relazione con le altre soggettività, alla lettura degli attuali processi di globalizzazione. Si tratta non solo di elaborare una lettura complessiva delle contraddizioni del presente: la scommessa che abbiamo di fronte è quella della ricomposizione delle soggettività del conflitto, della costruzione di un nuovo movimento operaio.

Acerbo Maurizio, Amadio Beatriz Paula, Amagliani Marco, Amato Fabio, Antonaz Roberto, Arnaboldi Patrizia, Assogna Antonio, Atene Maria Franca, Barassi Paola, Barbarossa Imma, Belisario Mauro, Benassi Giuseppe, Bertoni Romina, Boghetta Ugo, Bozzi Dino, Bracci Torsi Bianca, Brai Stefania, Brandoni Giuliano, Burgio Alberto, Campese Maria, Capelli Giovanna, Caporusso Mimmo, Cappelloni Guido, Cartocci Carlo, Casati Bruno, Cesaria Nicola, Ciano Giuseppe, Cimaschi Mauro, Cirigliano Francesco, Conti Giacomo, Crippa Aurelio, Cristiano Stefano, Daniele Francesco, Deambrogio Albero, Della Vecchia Luciano, Di Martino Marco, Di Sabato Italo, Donini Monica, Emprin Gilardini Erminia, Fantozzi Roberta, Favilli Alessandro, Federico Maurizio, Fedi Veruska, Ferrari Saverio, Ferrero Paolo, Ferrin Laura, Forenza Eleonora, Fraleone Loredana, Fresu Gianni, Fucito Alessandro, Gelmini Marco, Ghiglione Rita, Goracci Orfeo, Grassi Claudio, Iervolino Domenico, Jorfida Enzo, Kocijancic Igor, Lenti Maria, Leoni Alessandro, Lindi Letizia, Linguiti Donatella, Lombardi Angela, Loro Piana Maria, Macrì Vittorio, Mainardi Ferdinando, Mangianti Cesare, Mantovani Ramon, Marchetti Laura, Maselli Citto, Milani Enrico, Morrone Rossella, Mozzetta Guido, Mungo Donatella, Mura Betti, Nappo Franco, Nesci Marco, Nicolosi Nicola, Nicotra Alfio, Nocera Vito, Occhi Gianni, Pace Costanza, Papandrea Rocco, Patta Nello, Pillai Vincenzo, Poselli Patrizia, Ruffini Daniela, Russo Spena Giovanni, Santilli Serena, Saragnese Luigi, Serrao Domenico, Sgherri Monica, Sperandio Gino, Steri Bruno, Stufara Damiano, Tagliazucchi Nora, Tavella Rosa, Tedde Giuseppina, Trotta Alessandro, Vaccargiu Jole, Valsecchi Claudia, Vangeri Daniela, Vinci Luigi, Vinti Stefano, Voza Pasquale
Roma, 19 maggio 2008