VII Congresso di Rifondazione Comunista - Documenti

Una svolta operaia per una nuova Rifondazione comunista

Documento Bellotti

Il fallimento dell’Arcobaleno e della sinistra di governo

Il fallimento inglorioso dell’esperienza dell’Unione costituisce la prova inappellabile della sconfitta della linea del congresso di Venezia. La prova dei fatti è stata talmente devastante da non lasciare spazio a interpretazioni o sfumature. La rottura tra il partito e la nostra base sociale è stata drammatica, l’avere subìto il protocollo sul welfare senza dare battaglia prima e senza rompere con il governo Prodi una volta che questo impose la fiducia sul testo è stato il passaggio qualitativo. Il rifiuto della maggioranza del gruppo dirigente, in tutte le sue articolazioni, di partecipare e organizzare la battaglia per il No nel referendum nei luoghi di lavoro, rompendo così con quel milione di lavoratori e lavoratrici che si espressero contro l’accordo, ha rappresentato un vergognoso abbandono del settore più combattivo e cosciente della classe lavoratrice proprio mentre questo cercava un canale e uno strumento per esprimere la propria radicale opposizione alla controriforma del welfare.

Prima di quella rottura, una lunga serie di cedimenti, adattamenti, travestimenti della realtà, aveva già logorato e minato il rapporto tra il partito e la sua base sociale. La finanziaria 2007 presentata come di svolta, il voto sulle missioni militari, il 9 giugno 2007 con le piazze contrapposte durante la visita di Bush, l’aumento delle spese militari, gli sgravi fiscali alle imprese, il rifiuto di cancellare le leggi vergogna di Berlusconi, il rifiuto del governo di ascoltare il movimento No Dal Molin, il rifiuto della commissione d’inchiesta sul G8 di Genova, l’assoluta impermeabilità del governo di fronte a qualsiasi rivendicazione salisse dal basso…

L’operazione maldestra e opportunista della lista Arcobaleno è rapidamente esplosa di fronte a queste contraddizioni insanabili e dopo le elezioni vede una vera e propria diaspora. Sinistra democratica, che fin dal giorno dopo la sua nascita ha perso un pezzo ogni settimana, sia verso i socialisti che verso il Pd, si avvia a una definitiva frantumazione. I Verdi sono già in larga maggioranza impegnati in una marcia a tappe forzate di avvicinamento al Partito democratico. Il Pdci ha lanciato la proposta della “Unità comunista”.

Chi oggi tenta di riproporre percorsi costituenti di una sinistra cosiddetta unitaria, maschera coscientemente il fatto che i nodi politici che hanno determinato il fallimento della sinistra non solo nelle elezioni, ma soprattutto nei due anni di governo, non sono stati sciolti e neppure affrontati in un dibattito aperto. Sinistra di classe e alternativa o sinistra “di governo” e subordinata al Pd? Sinistra anticapitalista o sinistra inserita nell’orizzonte dell’Internazionale socialista? Queste domande oggi più che mai necessitano di una risposta chiara e trasparente.

La realtà è che una costituente della sinistra è possibile solo dando a queste domande una risposta moderata, subordinata al Pd e fondata su una concezione socialdemocratica. Questo implica quindi una rottura profonda con il nostro partito, con la larga maggioranza dei suoi iscritti e militanti che intende militare in un partito che mantenga aperta la prospettiva del superamento del capitalismo e di una società socialista libera dal dominio del profitto. Costituente della sinistra oggi significa scissione a destra di Rifondazione comunista: questa è la realtà nuda e cruda, una volta che si tolgano i veli della retorica con la quale la si avvolge. Né da questo punto di vista si vede una differenza qualitativa fra le proposte di costituente e quelle di federazione, che altro non sono che un tentativo di andare nella medesima direzione ad un ritmo più lento, ma senza sciogliere i nodi politici sopra indicati e ripiombando immediatamente nelle contraddizioni che in questi due anni hanno portato alla sconfitta politica del nostro partito. La proposta federativa riporrebbe immediatamente il problema della sovranità del partito e dei suoi iscritti su scelte politiche decisive che saremo chiamati a compiere nella prossima fase, sottraendo il dibattito e soprattutto le decisioni al corpo militante e consegnandole a una diplomazia opaca fra gruppi dirigenti che ha già dato pessima prova di sé con l’Arcobaleno e, in precedenza, con la fallimentare proposta della “Sezione italiana della Sinistra europea”.

Rifondazione comunista rimane la forza principale della sinistra, abbiamo il dovere di investire tutte le nostre forze nel rilancio di questo partito, nell’elaborazione di basi politiche, programmatiche e organizzative che possano riaprire un percorso credibile per tutti quei compagni e compagne che proprio in questo frangente drammatico mettono a disposizione con generosità le proprie energie e la propria passione militante. È riduttivo e fuorviante un dibattito si limiti a cercare nel passato la “rifondazione ideale” dalla quale partire e individuandola, chi in quella pre-scissione del 1998, chi in quella del 2001, chi in quella di Venezia. Dobbiamo invece ripercorrere la nostra storia per salvaguardarne la parte migliore, le battaglie più limpide, il coraggio di andare contro corrente e di sfidare l’ideologia e il sistema dominante, la capacità militante, quell’“orgoglio plebeo” senza il quale è impossibile costruire una battaglia antagonista, e per liberarci di quegli aspetti deteriori, che individuiamo in primo luogo nel governismo, nell’istituzionalismo, nel distacco fra gruppi dirigenti e partito e fra partito e lavoratori, in una “innovazione” ideologica che ha travestito idee e pratiche profondamente moderate presentandole come “ultimo grido” nel rilancio teorico della rifondazione.

Per questo motivo è da respingersi anche la proposta di “Unità comunista” così come attualmente si configura, ossia come ritorno alla Rifondazione precedente alla scissione del 1998. Quella divisione non è affatto superata dalla storia, ma va rivisitata precisamente oggi, perché quello che ha rischiato di ucciderci, oggi come negli anni ’90, è stato precisamente il governismo e la subordinazione al centrosinistra, e su questo nessun ragionamento critico è mai venuto dai gruppi dirigenti del Pdci. Questo non significa ignorare o peggio guardare con disprezzo a tanti compagni che militano nel Pdci o che sono al di fuori tanto del Prc che del Pdci, né rifiutare di porsi il problema dell’unità d’azione con le altre forze di sinistra, comprese quelle che in questi anni si sono scisse da sinistra da Rifondazione.

Tale problema deve porsi oggi innanzitutto in termini di azione comune su piattaforme chiare e definite, che siano dettate non dalle necessità di fare diplomazia elettorale fra gruppi dirigenti, ma alla mobilitazione attiva sui terreni fondamentali dello scontro di classe e dell’opposizione al governo delle destre. Tanto più saremo in grado di costruire in questa direzione, senza nascondere le differenze politiche, tanto più sarà possibile avviare anche un confronto politico che estenda all’intero corpo della sinistra d’alternativa una profonda correzione di rotta rispetto a quanto fatto in questi anni, e che sottoponga a una critica implacabile politiche e gruppi dirigenti che sono collettivamente responsabili della sconfitta. Processi unitari veramente fertili potranno attivarsi soprattutto in presenza di un effettivo rilancio della mobilitazione di massa e del protagonismo dal basso, che creerebbero le condizioni migliori per una definitiva sconfitta del moderatismo e dell’istituzionalismo dei gruppi dirigenti. Questo fu l’esperienza dell’Flm, frutto della grande avanzata operaia del 1969 e degli anni ’70, che oggi è stata del tutto impropriamente chiamata in causa per qualcosa di radicalmente diverso se non opposto, ossia dare una copertura ideologica a un processo tutto interno alla logica istituzionale e d’apparato.

Una destra minacciosa rialza la testa

Di tutte le posizioni sbagliate diffusesi nel nostro partito negli scorsi tre anni, una delle più platealmente errate era la quella secondo la quale allearsi con l’Ulivo sarebbe servito a combattere la destra.

Mai come oggi nel nostro paese la destra e l’estrema destra conquistano facilmente terreno, diffondono la loro ideologia avvelenata, si muovono con un’impunità e un’agibilità inedite.

Va analizzato il ruolo specifico di queste forze. L’attivismo dei partitini neofascisti, e in particolare di Forza Nuova e della Fiamma tricolore, risponde in primo luogo, come sempre, all’imperativo di togliere l’agibilità politica alle forze della sinistra, ma non si esaurisce in questo, nelle intimidazioni, nelle aggressioni, sempre più numerose a militanti e sedi della sinistra. Oggi attraverso le campagne xenofobe e razziste condotte in collaborazione, diretta o indiretta, con i partiti della destra parlamentare, i neofascisti ottengono lo scopo fondamentale di “sdoganare” idee e comportamenti che per decenni erano stati considerati accettabili solo all’interno di ghetti ben delimitati. Decine e decine di episodi, da Opera (Milano) a Pavia, da Verona a Roma, hanno mostrato fin troppo chiaramente lo schema di queste campagne nelle quali si stabilisce una perfetta divisione dei compiti fra l’“attivismo” sul territorio (fiaccolate, “ronde”, ecc.), che vede protagoniste in particolare Forza Nuova e la Lega Nord, e le campagne più a vasto raggio che coinvolgono i partiti della destra “rispettabile” e la grande stampa.

L’importanza di queste campagne consiste quindi soprattutto nella loro capacità di rendere accettabili e legittime idee le peggiori idee razziste, xenofobe, omofobe, reazionarie in genere e nel veicolarle attraverso l’intero spettro della politica ufficiale. Il loro successo non si misura solo e tanto nei voti raccolti da queste liste (che finora sono in generale pochi), ma nel fatto che la loro ideologia e i loro contenuti vengano legittimati e rilanciati su scala più vasta.

Quanto detto qui per la questione immigrazione vale allo stesso modo per le campagne revisioniste rivolte contro la memoria storica della sinistra e del movimento operaio, per le campagne di stampo cattolico/integralista, familista, omofobico, e via di seguito.

I vertici del Pd non si fanno nessun problema nel porsi in prima fila nelle campagne xenofobe, col risultato di legittimarne gli argomenti senza per questo strappare consensi alla destra. Dall’altro lato, il fatto che ci siano stati “i comunisti” al governo crea il terreno ideale per il diffondersi della demagogia razzista precisamente in quei settori popolari più poveri, che più si sono sentiti traditi e abbandonati dal governo Prodi. La paralisi imposta al movimento operaio lascia le piazze libere per il diffondersi del veleno del razzismo.

Alla demagogia reazionaria della Lega e della destra non si risponde con la sinistra dei salotti che fa appello ai buoni sentimenti.

Dobbiamo quindi rispondere sul piano ideologico e culturale all’onda di destra, ma saremo credibili solo se la nostra battaglia si legherà in modo indissolubile a una prospettiva di classe coerente che leghi l’antifascismo e l’antirazzismo alle nostre battaglie sociali.

Una profonda crisi economica e sociale

I dati pubblicati pochi mesi fa dall’Ires-Cgil sui salari italiani confermano il totale disastro prodotto dalla concertazione basata sugli accordi del luglio 1992-93. Nel 1993-2006 i salari lordi di fatto tengono a malapena il passo dell’inflazione (ufficiale), mentre quelli contrattuali perdono in media lo 0,5% all’anno. Negli anni 2002-2007 la perdita del potere d’acquisto è pari a oltre 1200 euro l’anno, ai quali vanno aggiunti quasi 700 euro di mancata restituzione del fiscal drag che portano la perdita complessiva a 1900 euro. Mentre i padroni strillano contro le imposte, l’aliquota Irpef effettiva pagata dai lavoratori sale dal 18,5 del 2000 al 19,6 del 2006.

L’arretramento generale si accompagna a un aumento delle differenze: nel 2006 il “lavoratore standard” guadagnava 1171 euro, che scendono a 969 nel mezzogiorno, a 961 per le donne, a 866 nelle piccole imprese, a 856 per gli immigrati, a 854 per i giovani.

I giovani risultano particolarmente colpiti: un collaboratore fra i 15 e i 34 anni guadagna in media 768 euro mensili; un apprendista 736. Il tasso di povertà fra i lavoratori giovani (18-34 anni) è superiore alla media nazionale.

I profitti, viceversa, schizzano alle stelle. Il modesto aumento della produttività creato in questi 13 anni è andato per il 13 per cento ai salari, per l’87 per cento alle imprese. Secondo il campione di Mediobanca (1000 imprese con circa un milione di dipendenti), tra il 1995 e il 2006 i salari aumentano in media dello 0,4% annuo, i profitti dell’8,1 per cento: oltre venti volte di più! Una lotta di classe unilaterale condotta e vinta dai padroni.

Il capitalismo italiano rimane indietro nella competizione economica mondiale, i padroni investono poco e competono comprimendo salari e condizioni di lavoro

Particolarmente drammatica la situazione del Mezzogiorno. Secondo lo Svimez, 270mila giovani e lavoratori prendono ogni anno la strada dell’emigrazione, 120mila dei quali in forma permanente, sia per motivi di studio, sia per cercare lavoro. Sono cifre paragonabili a quelle degli anni ’60, con una differenza: mentre allora l’emigrazione garantiva un flusso di reddito verso il sud, oggi le condizioni di lavoro e di vita si sono talmente deteriorate che quegli stessi lavoratori emigrati spesso necessitano di un sostegno economico dalle proprie famiglie per sostenersi al nord, essendo insufficienti i salari e mancando la certezza del posto a tempo indeterminato, particolarmente considerato l’altissimo costo delle abitazioni e degli affitti. 10 miliardi di euro all’anno viaggiano così dal sud al nord, costituendo un’ulteriore depauperamento del Mezzogiorno. È una situazione insostenibile, nella quale le famiglie erodono rapidamente quei margini conquistati dalle generazioni passate: la proprietà di una casa, le pensioni o il reddito dei genitori, per tentare di garantire una sopravvivenza alle nuove generazioni.

È in questo contesto economico che si collocherà l’azione del nuovo governo di destra.

Il governo Berlusconi e l’offensiva confindustriale

La vittoria elettorale della destra e la cancellazione della sinistra dal parlamento aprono la strada a una violenta offensiva padronale sia sul terreno economico e sociale che su quello dei diritti, accompagnata da campagne ideologiche oscurantiste e regressive.

Il “decalogo” dettato dalla Confindustria già prima della campagna elettorale verrà ora applicato in tempi rapidi, essendo venuti meno tutti gli ostacoli al pieno dispiegarsi dell’offensiva padronale.

Il passaggio di consegne fra Montezemolo e Marcegaglia è stato accompagnato da una vera e propria dichiarazione di guerra al sindacato e alla sinistra, la cui sconfitta è stata salutata con entusiasmo dagli industriali come sconfitta delle forze “portatrici di una cultura anti-impresa, anti-mercato e anti-sviluppo”.

I punti centrali di questo “decalogo”, non più libro dei sogni dei padroni, ma programma immediato di azione, sono noti.

  1. Svuotamento del contratto nazionale di lavoro, da ridurre ai minimi termini allungandone la durata a tre anni e comprimendone il ruolo economico al mero recupero dell’inflazione “realisticamente prevedibile”, nuova denominazione di quella “inflazione programmata” che in questi 15 anni ha demolito il potere d’acquisto di salari e stipendi. Parallelamente verrebbe “potenziata” una contrattazione aziendale e/o territoriale che nel contesto dato, dove solo il 10 per cento delle aziende vede una contrattazione interna, significherebbe il ritorno alle gabbie salariali e a un aziendalismo da anni ‘50 sul modello da tempo propugnato dalla Cisl. Il sindacato verrebbe sempre più ridotto a un organismo istituzionalizzato cogestore, assieme allo Stato e alle organizzazioni padronali, di fondi pensione, in prospettiva anche sanitari, di servizi individuali al lavoratore, perdendo ogni funzione unificante, di organizzazione e di lotta. Ultima inevitabile conseguenza di questo programma, la completa soppressione di ogni forma di controllo democratico reale nel sindacato, nelle Rsu e nei luoghi di lavoro.
  2. Ulteriori privatizzazioni a partire dalla svendita del patrimonio immobiliare pubblico, dalle Poste, ecc.
  3. Nuove liberalizzazioni (all’orizzonte il trasporto pubblico locale, i trasporti ferroviari, ecc.).
  4. Ulteriore frantumazione del sistema scolastico e universitario, subordinazione alle imprese e alla Chiesa, proposta di attribuire nuovi finanziamenti solo sulla base del “rendimento” degli istituti, proseguendo nella logica aziendalista che dall’introduzione dell’autonomia scolastica e universitaria ha già fatto enormi danni all’istruzione pubblica. In prospettiva l’obiettivo di Confindustria e della destra è l’abolizione del valore legale del titolo di studio, che segnerebbe la definitiva vittoria del mercato nella scuola e nell’università.
  5. Si rilancia sulle grandi opere, dalla Tav al Ponte sullo Stretto, replicate a livello locale con progetti speculativi di ogni genere, fino a grandi abbuffate quale è l’Expo 2015 di Milano.
  6. Richiesta di ulteriori sgravi fiscali per le imprese, compresa la defiscalizzazione degli straordinari.

I padroni vogliono mano libera su tutto: salario, orari, flessibilità, mercato del lavoro, formazione, si punta a demolire tutti i vincoli e gli ostacoli quali che siano, fiscali, ambientali, normativi (si veda l’attacco al Testo Unico sulla sicurezza da poco approvato), al pieno dispiegarsi della “libera iniziativa”, la quale peraltro non disdegna affatto gli aiuti di Stato, dagli sgravi fiscali fino ai mercati protetti costituiti dalle grandi opere di cui sopra.

All’offensiva sul terreno economico e sociale si accompagna una violenta offensiva ideologica e culturale: campagne razziste, omofobia, proibizionismo, legittimazione storica del fascismo, clericalismo rampante, aggressione costante alla legge 194 e all’autodeterminazione femminile… In queste campagne si intrecciano motivi economici e di potere (ulteriore spazio per la scuola e la sanità private, rafforzamento economico della Chiesa e della rete associativa e imprenditoriale ad essa legata, fortemente allargatasi in questi anni a seguito dei continui attacchi allo Stato sociale), ma non solo. Si punta a creare una pesante cappa ideologica e culturale, un’aria irrespirabile che renda più difficile l’organizzazione della controffensiva sociale da parte del movimento operaio e della sinistra, si vuole trasmettere la sensazione di un pesante isolamento fra gli elementi più attivi e combattivi, isolare nella paura gli strati più deboli e vulnerabili, a partire dagli immigrati e dalle donne.

Proprio la violenza dell’attacco che si prepara deve responsabilizzarci di fronte a quegli elementi che per primi vorranno porsi il problema di organizzare una resistenza e una risposta da sinistra a questa offensiva. Nell’asprezza di questo scontro inevitabilmente una nuova generazione di giovani, di lavoratori, di donne, cercherà una convincente risposta di sinistra, che sia all’altezza della sfida in tutta la sua durezza.

Tale risposta non può venire né dal Partito democratico, né dagli attuali vertici della Cgil. Si creerà pertanto lo spazio per la ricerca di altre posizioni, sul piano politico, programmatico e anche della mobilitazione organizzata. È in questo percorso, e solo all’interno di esso, che può essere avviato il percorso di una nuova rifondazione comunista che sia vitale e che sappia connettersi con quanto di più avanzato e coraggioso si esprimerà nelle condizioni difficili create dalla sconfitta dell’Unione, della sinistra e del nostro partito in particolare.

Il Partito democratico è un nostro antagonista

La campagna elettorale e le successive reazioni hanno confermato in modo inequivocabile la natura compiutamente borghese del Partito democratico. La scelta di correre “libero” da parte di Veltroni, il cosciente tentativo di distruggere le forze alla sua sinistra, non è stata una scelta tattica di posizionamento per la campagna elettorale, ma una decisione assunta in coerenza con quella che è la missione di fondo che il Pd si è dato fin dal suo nascere: distruggere la sinistra nel nostro paese, distruggere ogni forma di rappresentanza di classe, in qualsiasi modo la si voglia intendere.

La sconfitta elettorale delle politiche, alla quale si è aggiunta la sconfitta di Rutelli a Roma, ha aperto uno scontro nel Pd. Sarebbe tuttavia il peggiore degli errori ipotizzare che da questo scontro possa emergere un qualche “spostamento a sinistra” del Pd, o la nascita di una “sinistra del Pd” che possa in qualche modo riaprire spazi per il Prc. Un settore del Pd ha reagito alla sconfitta delle politiche rilanciando proposte se possibile ancora più a destra di Veltroni. Ci riferiamo alla proposta del “Partito democratico del Nord”, rapidamente bocciata da Veltroni, e che tuttavia dimostra come settori importanti del Pd ritengano indispensabile lavorare per costruire ulteriori aperture verso la destra e la Lega. Lo stesso Fassino, del resto, già mesi fa aveva esplicitamente teorizzato l’idea che in Lombardia, Veneto e Sicilia non si può vincere, e quindi governare, se non in alleanza con pezzi del centrodestra. E non a caso una delle rivendicazioni di Cacciari era precisamente che il “Pd del Nord” potesse determinare autonomamente gruppi dirigenti e alleanze politiche ed elettorali.

Veltroni prosegue per la sua strada, quella della cosiddetta “vocazione maggioritaria” del Pd, ossia del rifiuto di accordi a sinistra. La sua proposta di costituire un “governo ombra” fa ben intuire quale tipo di opposizione possiamo attenderci da questo partito nei prossimi anni: un’opposizione di Sua Maestà, sempre pronta al dialogo con la destra, e che su certi terreni potrebbe esprimere persino posizioni più liberiste dello stesso Berlusconi (si veda la vicenda Alitalia).

Alla linea dell’“autosufficienza” del Pd si contrappone ora D’Alema, che sull’onda della sconfitta ripropone una logica di alleanze e si produce in solenni certificazioni dell’esistenza in vita della sinistra (“tre milioni di voti”) nonostante questa sia stata spazzata via dal parlamento. L’operazione di D’Alema risponde a una logica forse più profonda di quella di Veltroni, ma proprio per questo ancor più pericolosa.

D’Alema sa che la sconfitta elettorale della sinistra non cancella il Prc, né tantomeno significa che sia finita la lotta di classe e il conflitto sociale. Come Cossiga ed altri che dopo le elezioni hanno manifestato la loro preoccupazione per una possibile evoluzione “estremista” della sinistra una volta che questa è stata cancellata dal parlamento, D’Alema si preoccupa per il futuro e lavora per far sì che quando in futuro, di fronte agli attacchi della destra e dei padroni, si manifesterà una nuova spinta a sinistra, il Prc sia ben ingabbiato all’interno di un’alleanza col Pd, che la sinistra (che sanno bene non essere affatto morta nonostante la sconfitta) rimanga saldamente ancorata al Pd, continui a ruotare attorno ad esso come un satellite, che la sua politica si riduca sempre e soltanto a mendicare la graziosa concessione di una alleanza elettorale che possa ricostituire una presenza in parlamento e nelle istituzioni.

La manovra è quindi evidente, soprattutto se la si collega alle proposte di inserire uno sbarramento elettorale anche per le elezioni europee, che costringa le forze che componevano l’Arcobaleno a restare unite. Si intende usare quelle forze moderate come Sinistra democratica (o quello che ne resta) e il settore istituzionalista dello stesso nostro partito per mantenere il cordone ombelicale fra il Prc e il Pd, per impedire che dalla sconfitta dell’Unione possa nascere una sinistra di classe, combattiva, radicata fra i lavoratori e i giovani, realmente antagonista.

È un’offensiva insidiosa che va respinta con una altrettanto lucida controffensiva sul piano politico, programmatico e di lotta. Se è vero che il governo di destra sarà il nostro primo nemico nei prossimi anni, è altrettanto vero che nessuna alternativa reale verrà dal Pd; l’unica via per una rinascita del nostro partito è quella di un conflitto antagonista anche nei confronti dello stesso Partito democratico. Questo significa non solo rifiutare ogni tentativo di riproporre una nuova versione dell’Unione o del centrosinistra, ma anche rompere quelle alleanze locali che tuttora vedono il nostro partito coinvolto in amministrazioni regionali e comunali responsabili di privatizzazioni, liberalizzazioni, precarizzazione, tagli, pesantemente compromesse con i peggiori blocchi di potere economico e clientelare.

L’esempio della Campania è solo il più drammatico. Grida vendetta al cielo che dopo che la sinistra ha perso 4 voti su 5 (200mila su 250mila) in quella regione, dopo la crisi dei rifiuti, mentre il sistema di potere costruito da Bassolino mostra il suo volto più inguardabile, il Prc permanga in quella maggioranza di governo; lo stesso dicasi per la manifesta volontà dei gruppi dirigenti del Prc calabrese di riavvicinarsi alla giunta regionale guidata da Loiero.

Campania e Calabria sono solo i due casi più clamorosi. Il profilo confindustriale, repressivo, liberista del Pd è emerso chiaramente anche nelle giunte locali, dalle giunte Bresso e Chiamparino che marciano in prima fila a favore della Tav, alla giunta Capitelli (Pavia) responsabile negli sgomberi dei rom in favore dei progetti speculativi immobiliari del gruppo Zunino, fino ai vari Cofferati e Domenici… La rottura col Pd deve essere quindi estesa alle giunte locali, facendola finita una volta per tutte con equilibrismi e ipocrisie con le quali fino ad oggi si sono giustificati accordi e alleanze inaccettabili.

Rompere col Pd significa rompere con le compatibilità imposte dal sistema, rifiutare quella logica fallimentare che già durante lo scorso governo Berlusconi del 2001-2006 ingabbiò le lotte dirompenti di quegli anni nella gabbia dell’Unione, condannando quella stagione di lotte generose e straordinarie a spegnersi nella palude del governo Prodi. Quella linea così pesantemente sconfitta viene nonostante tutto riproposta oggi nella logica frontista della cosiddetta “riscossa democratica”. Alla base di questa ostinata ripetizione di una linea fallimentare c’è l’illusione che dalla sconfitta del Pd possa emergere uno spostamento a sinistra di quel partito, o una corrente di sinistra al suo interno.

Si tratta di un’illusione priva di qualsiasi fondamento. Naturalmente il Pd ha raccolto il voto di tanti elettori di sinistra, grazie al ricatto del “voto utile” e all’assoluta inconsistenza politica dell’alternativa proposta dall’Arcobaleno, voti che possiamo riconquistare ad una battaglia coerente in difesa degli interessi dei lavoratori. Ma non emergerà alcuna sinistra suscettibile di produrre un cambiamento nella natura del Pd, partito organicamente confindustriale, liberale e borghese fin dalla sua costituzione. Ciò che può emergere nel Pd è al l’illusione ottica di una sinistra, uno specchietto per le allodole volto ad abbagliare il ceto politico più deteriore che dopo il tracollo dell’Arcobaleno va in cerca di ricollocazione istituzionale, nonché a mantenere accesa l’eterna illusione di “condizionare” da sinistra, ieri l’Unione, oggi il Pd, quella stessa illusione che è stata alla base del disastro prodotto dalla linea governista del congresso di Venezia.

Resistere alla capitolazione della Cgil

La destra e i padroni si apprestano ora a schiacciare la Cgil sul piano sindacale come hanno schiacciato la sinistra sul piano elettorale.

Il Pd ha condotto una vittoriosa guerra di conquista nell’apparato della Cgil, una guerra della quale la firma del protocollo sul welfare del 23 luglio 2007 e la successiva campagna referendaria nelle fabbriche sono stati i punti di svolta cruciali. Quel settore dei vertici Cgil che veniva accreditato come riferimento sindacale della sinistra ha dimostrato nel giro di poche settimane il suo completo opportunismo capitolando alla pressione del Pd. La sola Fiom è rimasta come punto di riferimento alternativo, peraltro non senza incertezze e cedimenti, come testimoniano sia il rifiuto di organizzare una campagna attiva e militante nei luoghi di lavoro per il NO alla controriforma sul welfare, sia i contenuti dell’ultimo contratto dei metalmeccanici. Solo ridotti settori di delegati, lasciati nell’isolamento più totale dalla disastrosa decisione del nostro partito di estraniarsi da quella battaglia fondamentale, delegati e lavoratori per lo più legati alla Rete 28 aprile, hanno condotto una vera campagna nei luoghi di lavoro, tentando di offrire un canale di espressione a quel milione di lavoratori che hanno testimoniato con il loro NO la loro opposizione alla concertazione. Il sindacalismo di base si divise fra chi sostenne il NO e chi – la maggioranza delle organizzazioni – assunse una miope posizione astensionista.

Oggi, in un quadro ulteriormente compromesso dall’esito elettorale e dalla pesante egemonia del Pd sull’apparato della Cgil, il vertice sindacale si appresta ad una nuova e più pesante capitolazione entrando nella trattativa sulla controriforma del contratto nazionale di lavoro. Si profila il pericolo di un nuovo luglio 1992.

La maggioranza del gruppo dirigente della Cgil sta assumendo rapidamente l’armamentario che per anni ha contraddistinto la Cisl. Se non un sindacato unico vero e proprio, è certo che si vede avanzare una sorta di “cislizzazione” della Cgil. A farne le spese saranno i diritti dei lavoratori da un lato, e la democrazia nel sindacato e nei luoghi di lavoro dall’altro.

Le prove generali sono già state fatte durante il governo Prodi: campagne di criminalizzazione del dissenso, con la ricorrente accusa di contiguità col terrorismo; strette organizzative negli apparati, con il tentativo di centralizzare ulteriormente scelte e potere decisionale sugli accordi e di imporre una rigida disciplina alle categorie e agli organismi; restringimento della democrazia alla base, con numerosi tentativi di ridurre ulteriormente la rappresentatività delle Rsu e il loro legame con i lavoratori che le eleggono (controllo burocratico delle candidature, esclusione di candidature critiche, campagne volte a delegittimare i delegati “fuori dal coro”).

Questo processo può precipitare anche in tempi brevissimi con una nuova pesante stretta che inevitabilmente accompagnerebbe la conclusione della “trattativa” sulla controriforma del modello contrattuale. Si pone quindi come compito urgente e di assoluta priorità quello di costruire una forte battaglia del nostro partito nei luoghi di lavoro, nelle Rsu e nella stessa Cgil.

Va abbandonata ogni forma di diplomazia nei confronti dell’apparato burocratico del sindacato. Va condotta una campagna seria e sistematica fabbrica per fabbrica, categoria per categoria, Rsu per Rsu, in difesa del contratto nazionale e in favore di una piattaforma sindacale radicalmente alternativa e anticoncertativa. Va sostenuta ogni eventuale forma di resistenza che il gruppo dirigente della Fiom dovesse decidere di opporre alla deriva della Cgil, ma senza in alcun modo limitare o vincolare le nostre scelte e la portata della nostra battaglia alle scelte di Rinaldini, il quale pur contrapponendosi giustamente all’accordo del 2007 ha mostrato già in quell’occasione di non avere le determinazione necessaria ad allargare la battaglia uscendo dagli organismi e dagli apparati ed estendendola al di fuori della stessa Fiom.

Va a maggior ragione sostenuta la battaglia della Rete 28 aprile, unico settore della Cgil a farsi carico, pur con insufficienze limiti, di organizzare un’opposizione dal basso al protocollo del 23 luglio e al rinnovo contrattuale dei metalmeccanici.

Il nostro obiettivo non sarà quello di costituire una corrente di partito in Cgil, ma di proporci come sostegno e punto di riferimento per tutti quei lavoratori e delegati che vorranno opporsi alla capitolazione di Epifani e al definitivo soggiogamento della Cgil al Partito democratico.

La sola battaglia interna al sindacato è oggi più che mai insufficiente. Opporsi alla controriforma del contratto nazionale e all’ulteriore degenerazione concertativa della Cgil significa non solo avanzare una forte piattaforma alternativa, ma anche investire tutte le energie in percorsi di autorganizzazione dal basso, che al di là e al di sopra di tutte le barriere interposte dagli apparati burocratici, sappiano rivolgersi direttamente alla base, nei luoghi di lavoro, con proposte di autoconvocazione, coordinamenti di delegati e comitati, mobilitazioni dal basso in tutte le forme possibili. Come nel 1992, come nel 1984, alle capitolazioni dei vertici e alla cappa concertativa si deve rispondere tornando alla migliore tradizione del movimento operaio italiano, alla tradizione della democrazia operaia e consiliare che può rinascere in futuro in reazione alla deriva moderata delle burocrazie.

Come conseguenza della svolta governista e dell’allontanamento dalle concezioni di classe, il Prc ha perso gran parte dell’influenza e dei rapporti che aveva in passato col sindacalismo di base. Parallelamente si è sviluppata in diversi settori dei sindacati di base una risposta che teorizza l’autosufficienza dell’azione sindacale e il rifiuto della battaglia politica, in una logica di sostituzione del sindacato al partito. Questa situazione, unita alla storica frammentazione di quest’area, ha limitato di molto la possibilità dei sindacati di base di svolgere un ruolo propulsivo negli scorsi due anni, anche a causa dei limiti storici di frammentazione. La situazione creata dall’ulteriore involuzione della Cgil ci deve spingere a riaprire tutti i possibili terreni di convergenza e azione comune sulla base di piattaforme condivise e di un metodo ispirato ai criteri della autentica democrazia sindacale, mettendo al centro i delegati eletti e percorsi di autoconvocazione e autorganizzazione. Non si tratta di proporre l’ennesima “costituente” in campo sindacale, che diventerebbe immediatamente terreno di scontro fra organizzazioni e apparati e di contraddizione fra chi è collocato nelle aree di sinistra della Cgil e della Fiom e chi milita nei sindacati di base, ma di lavorare in maniera leale e trasparente a piattaforme chiare e condivise e a percorsi di mobilitazione volti ad allargare il più possibile il fronte della lotta contro il nuovo patto concertativo.

Va quindi sviluppata un’ampia campagna per la democrazia nel sindacato e nei luoghi di lavoro, che senza cedere in nulla alla propaganda demagogica e reazionaria contro la cosiddetta “casta” sindacale, avanzi rivendicazioni quali: eleggibilità e revocabilità dei funzionari da parte dei lavoratori; salario operaio a tutti i livelli; allargamento della rappresentatività e dei poteri delle Rsu, abolizione delle quote riservate a Cgil Cisl e Uil nelle Rsu, apertura delle candidature a tutti coloro che lo richiedono, aumento del numero di delegati; effettiva libertà di organizzazione con l’abolizione delle norme antidemocratiche che limitano i diritti di assemblea per le organizzazioni non firmatarie dei contratti nazionali; consultazioni vincolanti e democratiche dei lavoratori interessati su piattaforme ed accordi, con la possibilità di far conoscere con pari dignità le diverse posizioni. La rappresentatività del sindacato e dei delegati deve essere misurata solo ed esclusivamente in base alla volontà dei lavoratori, liberamente espressa.

La stretta imposta dall’apparato Cgil contro la segretaria Fiom di Milano, costituisce un’accelerazione e un salto qualitativo nel processo in corso. È chiaro l’intento di provocare una scissione o un’esodo dalla Cgil da parte dei settori più combattivi, nella Fiom e non solo. Il messaggio della burocrazia è chiaro: piegarsi o andarsene. Siamo quindi di fronte a uno scontro decisivo, dal quale sarà impossibile uscire con un compromesso. O la linea della burocrazia verrà sommersa da un’ondata di rivolta dalla base e dai luoghi di lavoro, oppure diverrà indispensabile porsi il problema di quale battaglia sarà possibile in una Cgil normalizzata e definitivamente soggiogata al Pd. La deriva moderata crea il rischio di una rottura che potrebbe essere la più profonda dai tempi della rottura fra Cgil e Cisl del 1947. Tanto più sarà decisa la nostra battaglia oggi, quanto più sarà possibile evitare dispersioni e demoralizzazione e legarci in modo indissolubile alle migliaia di lavoratori e delegati, non solo nella Fiom, che rifiuteranno gli ultimatum burocratici e lotteranno per mantenere aperta la battaglia di un sindacalismo di classe, democratico e di massa nel nostro paese.

Il mezzogiorno fra degrado e rivolta

La situazione nel mezzogiorno sta raggiungendo livelli intollerabili. La borghesia italiana si è dimostrata completamente incapace di dare una prospettiva di sviluppo economico e sociale. Dopo l’epoca dell’industria di Stato e delle “cattedrali nel deserto”, chiusa con il processo di privatizzazione e smantellamento dell’industria pubblica a partire dalla fine degli anni ’80, è stata la volta dei piani di “sviluppo” fondati sui vari patti d’area e sui finanziamenti europei. Ancora una volta, mentre si comprimevano salari e diritti di lavoratori, si dava spazio a una imprenditoria predona e parassitaria, votata a una logica di saccheggio del territorio e delle risorse umane, che investiva a costo zero per poi ritirarsi dal territorio non appena finivano gli incentivi lasciando la situazione immutata.

Da tempo ormai la questione meridionale non si può porre semplicisticamente in termini di lotta all’arretratezza. Il capitalismo del mezzogiorno, in particolare quello criminale, è pienamente inserito nei flussi economici e finanziari internazionali, fruisce di tutte le opportunità derivanti dal controllo del territorio, dai legami politici stabiliti ai massimi livelli (anche fuori dall’Italia), si inserisce in tutti i settori dell’economia, come dimostra la vicenda dei rifiuti in Campania, ricicla i propri giganteschi profitti sulle piazze finanziarie “rispettabili”.

A fronte di questa situazione vediamo il rinascere di un movimento antimafia che dimostra come nonostante tutto settori importanti particolarmente fra i giovanissimi siano alla ricerca di un’alternativa. Negli scorsi anni il mezzogiorno ha visto alcune delle lotte più significative e radicali, dalla Fiat di Termini Imerese nel 2002, a Melfi, a Scanzano Ionico, ad Acerra, al porto di Gioia Tauro.

La lotta contro le mafie non può essere condotta né come lotta per una astratta “legalità”; lo stesso concetto di “antimafia sociale” va come minimo qualificato, pena il rischio di cadere in una logica volontarista generosa ma inefficace rispetto alla scala del problema. Le mafie possono essere sconfitte solo se vengono aggredite le radici fondamentali del loro potere, che sono in ultima analisi le radici stesse del capitalismo italiano. Il potere criminale vive sul degrado sociale, sul controllo di enormi risorse economiche, sulla compenetrazione con l’apparato statale, la lotta alle mafie è quindi innanzitutto lotta di classe.

La centralità della classe lavoratrice, ieri, oggi, domani

Con la sconfitta del movimento operaio occidentale nei primi anni ’80 e il successivo crollo dei regimi dell’Est, si è aperta una nuova fase sul piano economico e geopolitico. Il modo di produzione capitalistico che usciva trionfatore dalla “guerra fredda” ne traeva vantaggio in varie direzioni. Un vantaggio economico e commerciale era determinato dall’apertura di nuovi mercati nei paesi del vecchio blocco “socialista”, parallelamente sul piano politico si assisteva a un indebolimento progressivo delle organizzazioni del movimento operaio e della sinistra anticapitalista.

In un contesto del genere l’imperialismo non aveva più freni nell’imporre la propria volontà e la guerra tornava ad essere la condizione normale del capitalismo.

Il profondo processo di riorganizzazione capitalista che ne è scaturito, se da una parte produceva una estrema finanziarizzazione dell’economia e una gigantesca delocalizzazione delle forze produttive, dall’altra determinava una concentrazione della ricchezza senza precedenti. A questo faceva da contraltare un gigantesco processo di impoverimento e precarizzazione del proletariato e delle classi subalterne.

Alla deindustrializzazione che si produceva nelle zone centrali del capitalismo faceva da contrappeso una rapida industrializzazione in altre zone del mondo (Asia in particolare). Ed è così che il proletariato industriale che pure si è accresciuto su scala mondiale è più “diluito” e “disperso” in Europa, in Italia più che altrove.

Da una parte la manifattura si spostava alla ricerca di bassi salari, dall’altra parte le nuove tecnologie favorivano una forte scomposizione del ciclo produttivo e un ridimensionamento dei siti industriali nel vecchio continente (oltre che negli Usa).

La grande fabbrica con decine di migliaia di operai su cui si è appoggiato per decenni il movimento operaio organizzato ha così subito un declino oggettivo. Sono nate nuove figure lavorative. La classe lavoratrice non è più quella degli anni ’70. Sulla base di questa affermazione quasi banale si sono costruite varie scuole di pensiero.

In particolare una, che per anni ha avuto grande eco nel nostro partito, ha tentato di dedurre da una descrizione puramente sociologica determinati comportamenti politici. Secondo i “teorici della moltitudine”, la classe lavoratrice è soggetto antagonista in virtù della propria conformazione sociale e non per il ruolo che occupa nel sistema di produzione capitalista. Questa concezione oltre ad essere profondamente antimarxista rappresenta una negazione della realtà e dell’esperienza viva del movimento operaio fin dalle sue origini.

Secondo questa idea falsamente oggettiva se ne deduce che la rivoluzione si sarebbe dovuta affermare lì dove il proletariato era maggiormente concentrato (e cioè nei paesi capitalisti sviluppati), e non certo nella Russia “arretrata” e più in generale nei paesi coloniali come invece è avvenuto. Sarebbe utile rileggere alcuni passaggi di Gramsci sulla rivoluzione in occidente per gettare più luce sull’argomento.

Per altro le trasformazioni del capitale e le conseguenti mutazioni del lavoro dipendente non sono una novità degli ultimi 20-30 anni. Già Marx nel Manifesto spiegava come il capitalismo ha bisogno di rivoluzionare costantemente le forze produttive.

L’avvento del fordismo ha ad esempio prodotto un nuovo tipo di lavoratore, l’operaio della catena, l’”operaio massa” che in una prima fase rappresentava la disperazione dei dirigenti sindacali dell’epoca. Spesso e volentieri si trattava di un lavoratore proveniente dalle zone depresse del paese, di recente proletarizzazione, privo di tradizioni politiche e sindacali, senza alcuna coscienza di classe e che soprattutto odiava la fabbrica e la propria condizione di operaio.

Una figura molto diversa dalla gran parte degli attivisti sindacali dell’epoca che erano: operai di mestiere, che non solo si identificavano con la propria fabbrica ma erano orgogliosi della propria condizione.

Oggi sono tutti unanimi nel dire che quel soggetto considerato privo di coscienza ebbe un ruolo centrale nell’Autunno caldo e nelle grandi lotte degli anni ’70.

Similmente in futuro ci saranno soggetti oggi considerati non conflittuali che raccoglieranno il testimone delle lotte; non saranno necessariamente gli operai industriali a muoversi per primi e non è accettabile identificare la classe lavoratrice solo con queste categorie di lavoratori. Vedremo i precari dei call-center, del servizio pubblico, degli ipermercati, dei trasporti, e tutte quelle figure del lavoro intellettuale che subiscono un rapido processo di proletarizzazione e le cui condizioni si precarizzano ogni giorno di più, rendersi protagonisti di lotte altrettanto radicali.

Come diceva il padre dell’operaismo italiano, Raniero Panzieri: dall'analisi del "livello del capitale" non si può dedurre l'analisi del "livello della classe operaia"

I grandi cicli di lotte non sono l'espressione di un dato sociologico ma il prodotto di complessi processi strutturali e sovrastrutturali, che in alcuni momenti si saldano e determinano quel salto di coscienza politica che assume un carattere dirompente sugli equilibri dominanti. L’aspetto politico-soggettivo e più precisamente il ruolo del partito operaio assume un’importanza enorme da questo punto di vista.

Il capitalismo è certamente cambiato in questi anni, come è cambiata la classe ma ciò che non sono mutate sono le leggi fondamentali del sistema che Marx analizzava già un secolo e mezzo fa.

Il marxismo ha certo bisogno di essere aggiornato ma, come diceva Gramsci, a partire dalle sue basi.

La struttura di classe non dice tutto, per quanto è importante indagarla per trarne conclusioni di tipo politico-organizzativo o tattico. Ma il ruolo decisivo della classe lavoratrice deriva dalla centralità dell’estrazione del plusvalore nell'ambito della società capitalista. Questo era e questo è.

Lo sfruttamento non è qualcosa che riguarda il passato ma ha assunto caratteristiche sempre più brutali nel lavoro dipendente come in quello “parasubordinato” o che ingiustamente viene definito autonomo.

Tutto questo produrrà nuovi conflitti antagonisti nel cuore del sistema che porranno oggettivamente le basi per il superamento del capitalismo.

Da qui deduciamo sul piano teorico l’importanza e il ruolo di un moderno partito comunista che, libero dalle incrostazioni dello stalinismo, si proponga come organizzazione generale della classe lavoratrice e di tutti gli sfruttati.

Riaprire il dibattito sul programma, nel Prc e fra i lavoratori

Da quasi un decennio il nostro partito ha di fatto chiuso qualsiasi tentativo di discussione programmatica complessiva. Gli anni della “sbornia” movimentista, durante i quali veniva esplicitamente teorizzato il rifiuto di qualsiasi piattaforma in nome della “contaminazione” e della “crescita del movimento come fine del movimento stesso” sono stati seguiti dagli anni della collaborazione col centrosinistra, durante i quali il partito ha dissolto ogni residuo profilo rivendicativo e programmatico autonomo, subordinando le proprie parole d’ordine alla necessità della continua mediazione con le forze dell’Unione. È stata la fase mortificante e fallimentare nella quale il famigerato “Programma dell’Unione” veniva sbandierato in modo sempre più patetico nel tentativo di dare un’identità al partito mentre si sprofondava nella palude governista.

Tale impostazione ha continuato a vivere dopo la caduta di Prodi e persino, assurdamente, dopo la rottura con Veltroni, poiché la stessa logica fallimentare è stata alla base della mediazione con le altre forze dell’Arcobaleno.

Lavoriamo per gettarci definitivamente alle spalle quella fase e per riaprire un forte dibattito, nel partito e fra i lavoratori, su quale programma sia necessario per contrapporsi alle destre. Senza pretesa di esaustività, indichiamo alcuni punti di partenza imprescindibili.

  1. Questione salariale. Il crollo del potere d’acquisto di salari e stipendi va affrontato con rivendicazioni che agiscano su diversi livelli, in una logica di ricomposizione del ventaglio di condizioni salariali e normative sulle quali è stata frantumata la classe lavoratrice. Va rivendicato un salario minimo intercategoriale, fissato per legge e non solo nei contratti, che costituisca la soglia minima al di sotto della quale nessun rapporto di lavoro in nessuna forma può scendere. Tale salario di 1000 euro al mese dovrebbe costituire la base sulla quale parametrare tutta la condizione salariale definita dai contratti nazionali, dimodoché rivalutandosi il salario minimo trascini verso l’alto l’intera struttura salariale, costituendo così la base di una nuova scala mobile.

    Parallelamente vanno rivendicati forti aumenti salariali su basi egualitarie (300 euro come indicazione di base) come mezzo per ridurre il distacco accumulato dai salari più bassi.

    Va ribadita l’inderogabilità del contratto nazionale rispetto a qualsiasi tentativo di sfondamento verso il basso su base territoriale e/o aziendale. La contrattazione articolata deve essere uno strumento di ulteriore miglioramento e tutela dei lavoratori, non un grimaldello per aggirare leggi e contratti di valore universale. Va infine riaperta la battaglia per un salario ai disoccupati, legato al salario minimo legale e indicizzato.

    Una forte offensiva sul terreno salariale è indispensabile per riaprire la battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro e contro la flessibilità dilagante, che in molti casi si impongono ai lavoratori precisamente a causa della intollerabile situazione salariale.

  2. Precarietà. Abolizione delle leggi precarizzanti: legge 30, Pacchetto Treu. Conversione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Abolizione delle agenzie di lavoro interinale e ricostituzione di un effettivo collocamento pubblico sotto il controllo dei lavoratori e delle loro rappresentanze. Introduzione di maggiore rigidità e controllo delle Rsu e dei lavoratori sull’orario di lavoro in tutte le sue problematiche: part-time, turni, cicli continui, lavoro domenicale e festivo, turni spezzati, ecc.

  3. Sicurezza sul lavoro. La questione sicurezza è innanzitutto questione di potere in fabbrica. Solo lavoratori tutelati sul piano normativo e salariale possono essere in condizione di combattere efficacemente le condizioni di rischio sul luogo di lavoro. Nello specifico va rivendicato l’aumento del numero degli Rls, della loro formazione e soprattutto dei loro poteri. Diritto degli Rls di interrompere la produzione in presenza di situazioni di rischio. Elezione degli Rls sulla base di tutti i lavoratori presenti in un determinato sito produttivo. Abolizione di tutte le forme di subappalto per le imprese che operano nel settore pubblico. Abolizione della legge 66 che permette lo sfondamento verso l’alto dell’orario di lavoro giornaliero. Reintroduzione dell’obbligo in forma inderogabile delle 11 ore di riposo tra un turno di lavoro e l’altro.

  4. Per la ripresa della lotta alla guerra, per il ritiro delle missioni militari da tutti i teatri di guerra. Per la chiusura delle basi Usa e Nato sul nostro territorio, per l’uscita dalla Nato. Lotta alle servitù militari. Rilanciare il nostro internazionalismo costruendo legami politici e organizzativi con le esperienze rivoluzionarie più avanzate a livello mondiale, fuori dai limiti politici e organizzativi della Sinistra europea, fortemente condizionata sul piano politico da logiche di compatibilità, e fuori dalla logica “campista” che lega le speranze della lotta all’imperialismo non ai movimenti di massa dei popoli oppressi, ma alle contrapposizioni diplomatiche e militari fra gli Usa e regimi reazionari come l’Iran o la Russia di Putin, o alle posizioni del governo cinese, da oltre un quarto di secolo impegnato in una “lunga marcia” verso la reintroduzione del capitalismo.

  5. Immigrazione e diritti. Ci battiamo contro ogni legge che determini clandestinità e discriminazione e quindi contro la logica dei flussi e delle quote, la quale inevitabilmente impone il mantenimento di un apparato repressivo che garantisca internamenti ed espulsioni dei clandestini. Permesso di soggiorno per tutti, diritto di voto in tutte le elezioni per chi risiede in Italia da un anno, pieno accesso ai servizi sociali, cittadinanza dopo 5 anni di residenza per chi ne faccia richiesta.

  6. Casa. A 10 anni dalla controriforma della legge sulla casa e dall’avvio dello smantellamento del patrimonio abitativo pubblico, il bilancio è disastroso. L’Italia è il paese europeo con meno edilizia pubblica, la gran parte delle famiglie è stata gettata in mano alle banche e alle finanziarie per poter accedere al diritto alla casa. Mentre la speculazione immobiliare conosce uno sviluppo frenetico, si sta creando una vera e propria emergenza abitativa.

    Questa politica va completamente invertita. Si deve avviare un immediato censimento del patrimonio abitativo lasciato sfitto dalla speculazione immobiliare e finanziaria. Le grandi immobiliari vanno espropriate senza indennizzo e le loro risorse vanno impiegate in un piano di ricostituzione e riqualificazione di un patrimonio immobiliare pubblico che offra case popolari con canoni non superiori al 10 per cento della retribuzione. Come misura temporanea contro l’esplosione degli interessi sui mutui a tasso variabile, che sta strozzando migliaia di famiglie, va istituito un fondo pubblico che garantisca la conversione gratuita di tutti i mutui delle famiglie che ne facciano richiesta in un prestito a un tasso fisso determinato al di sotto dei livelli di mercato.

  7. Stato sociale, scuola, servizi pubblici. La penetrazione delle logiche aziendaliste determinata dalle varie riforme Bassanini, Berlinguer e Moratti, ecc. ha causato esclusione di fatto di una parte della popolazione dai servizi pubblici, aumento dei costi, peggioramento delle condizioni di lavoro del personale, esternalizzazioni dilaganti, minando fortemente il principio dell’universalità dei diritti sociali e del servizio pubblico, oggi ulteriormente messa a rischio dalle proposte federaliste della Lega.

    Dobbiamo rilanciare quindi la battaglia per un welfare universale e gratuito, nel quale il pieno coinvolgimento dei lavoratori e degli utenti garantisca la qualità e la capillarità dei servizi. Dobbiamo riaffermare il concetto basilare di un welfare rivolto a tutti in quanto individui titolari del diritto alla salute, alla casa, all’istruzione, ecc. combattendo ogni tentativo di legare le prestazioni dello stato sociale a logiche familiste o aziendaliste. Tale battaglia non può essere in alcun modo sostituita dalle logiche del volontariato e del “privato sociale”, che hanno dimostrato in questi anni di essere pienamente funzionali al processo di smantellamento dello Stato sociale, nonché spesso responsabili di condizioni di lavoro inaccettabili dei propri dipendenti.

  8. Diritti. La continua aggressione alla legge 194 e ai diritti delle donne non può essere contrastata in una logica puramente difensiva. In realtà la legge 194 è già ampiamente minata nelle sue basi. Va pertanto rilanciata sui punti cruciali: estensione e rilancio della rete dei consultori pubblici, esclusione dai consultori di qualsiasi struttura privata, in particolare quelle legate alla Chiesa, gratuità degli anticoncezionali, introduzione della RU 486 su tutto il territorio nazionale, educazione sessuale nella scuola. La legge 194 andrà infine emendata per chiudere quei varchi che sono stati ampiamente sfruttati da tutte le forze avversarie del diritto all’aborto e dell’autodeterminazione femminile, primo fra tutti la cosiddetta obiezione di coscienza, nonché per garantire appieno i diritti delle minorenni.

    Unioni civili con parificazione dei diritti e doveri con il matrimonio, legge contro l'omofobia e la violenza omofobica e possibilità di cambio di sesso anagrafica per i/le transessuali a inizio del percorso di transizione.

    Difesa e completamento della legge 180 (Basaglia) contro i tentativi di reintroduzione di pratiche coercitive nella cura del disagio mentale. Incremento delle dotazioni organiche destinate ai dipartimenti di salute mentale pubblici e dei finanziamenti rivolti ai progetti di inclusione socio-lavorativa delle persone disabili.

  9. Opposizione alle “grandi opere” speculative quali la Tav o l’Expo di Milano, alle linee dei vari piani per i rifiuti e per l’energia, basati su logiche speculative e di saccheggio del territorio. La battaglia del movimento operaio sui temi della salute, del controllo pubblico del territorio e dell’ambiente va rilanciata in una logica di classe, che metta al centro il concetto di nazionalizzazione delle risorse chiave come mezzo per garantire il controllo dei lavoratori e dei cittadini sul proprio ambiente di vita e di lavoro.

  10. Raddoppio immediato dei finanziamenti destinati all'istruzione pubblica. Cancellazione dell'autonomia scolastica e universitaria, e di tutte le proposte che mirano a trasformare istituti ed atenei in fondazioni. Taglio di ogni forma di finanziamento alla scuole private o paritarie. Abrogazione di tutte le controriforme dell'istruzione (Berlinguer, Zecchino, Moratti). Per la gratuità dell'istruzione e di tutti i servizi a essa correlati (libri, mezzi pubblici, alloggi, mense…) se essa è un diritto, o è gratuito o non è.

    Contro la selezione di classe: rifiuto di ogni forma di doppio binario, di regionalizzazione, e di sbarramenti come numeri chiusi o test d'ingresso. Innalzamento dell'obbligo all'istruzione fino a 18 anni, alla divisione tra “arti umanistiche” e “arti meccaniche” va contrapposto un percorso di studi unico fatto di materie umanistiche, scentifiche e tecniche, a partire un biennio unico per le scuole superiori. Cancellazione del meccanismo dei debiti-crediti, sia alle superiori che all'università. Abrogazione immediata del decreto riguardante la reintroduzione dell'esame di riparazione.

    Contro ogni forma di scuola-lavoro. Gli stage, se necessari devono essere retribuiti e sotto il controllo di rappresentanze sindacali e studentesche. La formazione professionale deve essere pubblica e non deve essere in alcun modo sostitutiva del percorso scolastico.

    Contro l'autoritarismo, per una scuola e un'università democratiche. Pariteticità del consiglio d'istituto e di facoltà fra le varie componenti, con diritto di revoca dei rappresentanti. Diritto di assemblea d'ateneo e di facoltà una volta al mese, con conseguente sospensione delle lezioni. Moltiplicazione degli appelli in università, abolizione ogni forma di sbarramento.

    Per un piano nazionale di edilizia scolastica pubblica. Contro il sovraffollamento, non più di 20 alunni per classe. Abolizione dell’ora di religione, per una scuola e un'università laica e scientifica.

  11. Pensione pubblica, egualitaria, con ritorno al sistema a ripartizione, riconsegna del Tfr ai lavoratori e inglobamento dei fondi pensione in un unico sistema Inps. Scorporo delle prestazioni assistenziali dall’Inps, trasferendole a carico della fiscalità generale.

Proprietà pubblica, nazionalizzazioni, controllo operaio

La crisi finanziaria ha fra le sue conseguenze una crisi dell’ideologia liberale sulla quale per quasi tre decenni si è fondata la pratica dominante nella cosiddetta “globalizzazione” capitalistica. Di fronte alla crisi del loro stesso sistema, i rappresentanti del capitale “riscoprono” l’importanza dello Stato e dell’intervento pubblico per salvare banche e finanziarie dal fallimento.

Al tempo stesso in America Latina, e particolarmente in Venezuela, Ecuador e Bolivia, vediamo dopo i decenni del liberismo selvaggio, una inversione di tendenza che sia pure fra mille contraddizioni vede ritornare in campo una politica di nazionalizzazioni nel terreno delle risorse energetiche, delle telecomunicazioni e ora, con la nazionalizzazione da parte di Chavez della acciaieria Sidor (gruppo Techint), la quarta più grande acciaieria del continente latinoamericano, anche nell’industria pesante, per giunta in un settore attualmente in forte espansione.

Questa nuova situazione fa tornare in campo quelle che per trent’anni erano state vere e proprie “parole proibite”, anche a sinistra: nazionalizzazione, esproprio, pianificazione. La discussione sul programma deve partire precisamente da questo punto. Possiamo riaprire un dibattito e soprattutto una mobilitazione di massa attorno a parole d’ordine centrate sui concetti di proprietà pubblica e controllo operaio e popolare dei settori economici strategici.

Nel dopoguerra il movimento operaio italiano conobbe due grandi momenti di discussione attorno a questi temi. Il primo successivo alla sconfitta del 1948, quando la Cgil lanciò il Piano del lavoro; il secondo negli anni ’60, quando con primo centrosinistra si avviò il dibattito sulla “programmazione”. Il Piano del lavoro fu un tentativo della Cgil di uscire da un duro isolamento e dalla sconfitta politica della sinistra, tuttavia partiva dal presupposto errato che uno sviluppo della produzione fosse incompatibile con le dinamiche del capitalismo del dopoguerra, che invece si avviava alla forte espansione del “miracolo economico”; centrato su obiettivi produttivi, perse qualsiasi implicazione antagonista e antisistema. La programmazione del centrosinistra costituiva invece un esplicito tentativo di cooptare almeno un settore della classe operaia nelle logiche del sistema. Per quanto diversi, quindi, quei due precedenti storici ebbero in comune la caratteristica di non indicare nella pratica il nesso tra obiettivi parziali e immediati e rottura con le compatibilità del sistema, e quindi con la prospettiva della trasformazione sociale e del superamento del capitalismo.

Di fronte alla crisi economica e sociale, al fallimento completo delle politiche di liberalizzazione, all’irrazionalità economica, sociale e ambientale che caratterizza in modo sempre più evidente questo sistema economico, dobbiamo lanciare una battaglia di massa che indichi una serie di priorità economiche e di diritti sociali da affrontare con obiettivi unificanti che leghino la rivendicazione immediata e universale di un diritto, al tema delle basi economiche per soddisfare tale rivendicazione, del controllo di massa, da parte dei lavoratori e degli utenti, su tali risorse come unica forma possibile per garantire la soddisfazione dei bisogni sociali, e per dare una base concreta e comprensibile all’idea della nazionalizzzione e del controllo operaio, che come detto rinasce oggi in America latina nei punti più avanzati del conflitto di classe.

Una serie di piattaforme elaborate e discusse a livello di massa su temi quali: diritto all’istruzione, alla salute; reti di trasporto, acqua, energia, ciclo dei rifiuti, telecomunicazioni, casa, ecc, che ponga in relazione la definizione dei bisogni, la questione della proprietà statale e del controllo e gestione di tali risorse economiche andrebbe a costituire un profilo politico e anche una base di mobilitazione sulla quale ricostuire ciò che più drammaticamente manca alla sinistra e al nostro partito oggi: un progetto di società che possa legarsi in modo credibile ai bisogni dei lavoratori e di tutti i settori oppressi della società.

Si tratta quindi di una visione contrapposta a quella di chi propone come sbocco alla crisi sociale la logica del volontariato, dell’associazionismo più o meno no-profit che in realtà costituisce l’altra faccia della medaglia dei processi di privatizzazione e sussidiarietà avanzati in questi anni e che, come già si dimostra in questa fase, è in gran parte integrabile nella logica lobbistica proposta dal Partito democratico.

Strettamente legato a questi temi è quello della inversione del processo di privatizzazione che nel giro di 20 anni ha regalato ai privati settori decisivi dell’industria italiana.

“Que se vayan todos!”: per la ricostruzione del partito

Definiamo “svolta operaia” quella che riteniamo necessaria per il rilancio di una vera e propria nuova rifondazione comunista. Con questa espressione intendiamo sottolineare

  1. la necessità di un programma intransigentemente di classe;
  2. la necessità di combattere tutta quella revisione ideologica che per varie vie tende a sminuire o a negare la centralità della lotta di classe;
  3. la necessità di un partito saldamente insediato nella classe lavoratrice, nel quale strutture, apparati, gruppi dirigenti, metodi di funzionamento e democrazia interna vengano subordinati a questo obbiettivo essenziale.

È necessario compiere una vera e propria rivoluzione interna che faccia piazza pulita dei veleni del carrierismo e dell’istituzionalismo, nonché di tutte le pratiche deteriori legate alle logiche del partito leggero e d’immagine. Il gruppo dirigente responsabile del disastro deve essere messo da parte per creare le condizioni di una rinasciia del nostro partito.

I circoli e le federazioni devono diventare innanzitutto luoghi di intervento e di dibattito politico costante, di studio della società e della condizione sociale, di approfondimento teorico della storia del movimento operaio, della situazione internazionale, dei punti più avanzati del conflitto di classe. Solo una militanza organizzata, cosciente, politicamente consapevole può generare un regime interno autenticamente democratico, nel quale la democrazia non sia solo un simulacro o un brutta copia di un parlamento borghese.

Gli organismi dirigenti debbono essere selezionati in base a questo criterio. Mantenendo uno scrupoloso rispetto delle diverse posizioni politiche e del pluralismo, anche gli organismi più ampli (cpf, cpr e cpn) dovrebbero essere visti non solo come spazi di dibattito e confronto, ma anche come organismi operativi e di lavoro. Ogni componente di questi organismi dovrebbe essere inserito in una struttura d’intervento specifica dove esercitare la propria funzione di dirigente. È questa anche la via migliore per aprire la strada a una selezione dei gruppi dirigenti basata sulla qualità politica e sulla capacità di costruzione.

Un partito operaio ha assoluta necessità di un forte apparato organizzativo. Tuttavia tale apparato va selezionato in modo trasparente, democratico e mantenuto sotto un costante controllo della base e dei militanti. Va introdotto innanzitutto in forma rigida e inderogabile il criterio del salario operaio a tutti i livelli istituzionali e per qualsiasi incarico di partito. Va introdotto un meccanismo effettivamente democratico di selezione delle candidature da parte dei militanti per tutti i livelli elettorali.

Nella scelta dei dirigenti a tutti i livelli vanno privilegiati innanzitutto lavoratori e compagni giovani che abbiano dimostrato una capacità di costruzione nel proprio contesto sociale; un delegato Rsu capace di raccogliere consenso nel proprio luogo di lavoro, uno studente capace di costruire un effettivo intervento nella propria scuola o università, un attivista protagonista delle vertenze territoriali… questo è il tipo di figura al quale dobbiamo guardare al momento di scegliere un segretario o di assegnare una responsabilità di una commissione o di un dipartimento.

Il dirigente deve smettere di essere considerato, come è avvenuto in maniera predominante in questi anni, come un compagno “parcheggiato” in attesa di candidatura istuzionale alla prima tornata elettorale utile, ma deve essere la figura di un militante che in maniera volontaria o, nel migliore dei casi, per un salario modesto, sia disposto a mettersi a disposizione di un lavoro paziente e spesso oscuro di costruzione, di formazione, di aprire campi difficili per l’attività dell’insieme dei militanti.

Ogni circolo dovrebbe, con l’aiuto delle strutture superiori, studiare con attenzione il tessuto sociale, economico e produttivo circostante, costruire relazioni sistematiche con tutte le realtà lavorative, lavorare alla costruzione di circoli o nuclei in tutti i luoghi di lavoro e di studio significativi.

Questo non significa trasformare il partito o i circoli in organismi parasindacali, che discutono solo di salario o precariato. Al contrario, la svolta operaia deve significare lavorare per portare verso i lavoratori tutte le tematiche politiche, sociali, internazionali, persino ideologiche, legate alla crisi sociale e alla nostra prospettiva di lotta rivoluzionaria per il cambiamento della società.

È necessario organizzare una discussione in tutto il partito riguardo al nostro quotidiano Liberazione, che culmini in una conferenza per il rilancio del quotidiano su basi completamente nuove. Liberazione può vivere solo se diventa effettivamente giornale di partito, ossia espressione viva dei circoli, dei militanti e dell’intera area alla quale il partito si rivolge. Le competenze professionali e le risorse tecniche esistenti debbono essere messe al servizio di un progetto che si fondi sull’idea che i 2000 circoli del partito possono essere occhi, orecchie e voce e braccia di un grande quotidiano comunista, capace di parlare un linguaggio accessibile e non elitario, di affiancare il lavoro di costruzione del partito con una propria capacità di inchiesta e di agitazione politica, di fare formazione e informazione per i nostri compagni e per il popolo della sinistra.

Va infine ricostruita una seria tradizione di autofinanziamento del partito, sia interna che esterna.

Per un partito di lotta e di opposizione!

Ci aspetta una lunga battaglia controcorrente. L’emarginazione del partito da qualsiasi prospettiva di governo non può essere vista come una semplice parentesi dalla quale uscire al più presto. Il Prc si ricostuirà nelle lotte e in una battaglia coerente di opposizione al Pdl e al Pd; ogni altra prospettiva porta inevitabilmente alla dissoluzione politica. Oggi siamo ridotti elettoralmente ai minimi termini, ma esiste un enorme potenziale per la nostra ricostruzione, un potenziale che si esprimerà nei prossimi anni nei conflitti sociali che si produrranno in reazione alle politiche della destra. Nelle grandi battaglie che si preparano tornerà al centro la necessità imprescindibile di un partito che rappresenti e organizzi in maniera coerente i lavoratori e gli sfruttati. La nuova rifondazione comunista devc guardare con fiducia a questa prospettiva: immergiamoci con umiltà e con fiducia nella nostra gente, e scopriremo quelle risorse inesauribili di combattività, coscienza di classe e capacità di sacrificio sulle quali da sempre si sono costruite le migliori battaglie dei comunisti.

Claudio Bellotti, Simona Bolelli, Alessandro Giardiello, Mario Gavazzi, Jacopo Renda
Roma, 19 maggio 2008