VII Congresso di Rifondazione Comunista - Documenti

Disarmiamoci: liberi/e, pacifici/che per un congresso di discontinuità e radicalità

Documento De Cesaris

La proposta politica

1. Un congresso di discussione e confronto

Ci serve un congresso di discontinuità. Un congresso di routine, la cui unica finalità, dopo una sconfitta elettorale di portata storica, sia nella gara a chi conquista i “posti di comando”, è destinato ad accentuare tutte le dinamiche negative che hanno investito Rifondazione comunista e messo nell’angolo la sinistra.

Discontinuità nel modo di fare i conti con la dura realtà che le elezioni ci hanno consegnato con la violenza di uno schiaffo; discontinuità con le pratiche, fino a oggi per lo più oligarchiche e auto-referenziali che ci rendono simili al resto del mondo politico; discontinuità nella formazione dei “gruppi dirigenti” e nelle modalità del loro funzionamento: è questo che ci serve, un congresso di netta e radicale discontinuità. Questa scelta deve riprendere, rafforzare ed estendere il rinnovamento del pensiero e delle pratiche che ha segnato positivamente la storia di RC e che ha conosciuto una parabola discendente negli ultimi anni. Sono prevalsi allora il primato “governamentale” e la tentazione di risolvere, in termini di tatticismi e di alleanze tra ceti politici, la sfida della costruzione di una nuova sinistra e di una nuova visione della società: una rinnovata relazione tra libertà, liberazione e uguaglianza (uguali in quanto persone, diversi/e in quanto individualità); l’apertura dell’orizzonte dei “beni comuni”; la delineazione di una vera res pubblica, di una “cosa pubblica” − di un altro mondo possibile.

Il congresso di Venezia e la conferenza di Carrara avevano posto al centro del nostro dibattito e del confronto di RC con le altre forze della sinistra temi essenziali per mantenere in vita, in quest’epoca storica attraversata da inedite e a volte ancora inesprimibili contraddizioni, la scommessa di un pensiero critico e di un agire politico di sinistra: la ridefinizione del rapporto con i movimenti e la critica femminista dell’intreccio tra patriarcati (vecchi e nuovi) e globalizzazione capitalista; la nonviolenza come decostruzione del potere e dei poteri; la critica della forma-partito − a cominciare dalle separatezze e presunzioni che contraddistinguono in maniera crescente i comportamenti dei gruppi dirigenti; la ricerca di nuove modalità dell’azione politica, di nuovi spazi pubblici, di democratica partecipazione popolare.

Tutto ciò si è perso ed è stato contraddetto dalla frenesia politicista, che ha permeato la nostra azione alla ricerca di alleanze e di equilibri di governo. L’illusione di rendere permeabile l’Unione e il governo Prodi alle istanze dei movimenti si è trasformata in realpolitik, nel compromesso su tutto, a danno delle esperienze di movimento straordinariamente avanzate come quelle del “No Dal Molin”.

Ripartire da dove ci siamo fermati e garantire il rilancio autentico del processo innovativo di RC: a questo ci serve il congresso.

Dopo una sconfitta di dimensioni inedite, e inattese, avremmo dovuto chiuderci in un “silenzio zapatista” necessario per avviare una riflessione profonda e un ascolto non confinato nelle nostre anguste stanze, al fine di proporre una via d’uscita unitaria indispensabile per un rafforzamento di RC. Senza RC ogni processo a sinistra rischia di ridursi a una realtà depauperata.

Al congresso non si può chiedere a nessuno/a il solo gesto di schierarsi: per tutti/e noi è il tempo dell’assunzione di responsabilità dopo aver discusso ed esserci confrontati/e su analisi, riflessioni, proposte.

Abbiamo subito una sconfitta drammatica. Non serve minimizzarne la dimensione storica. Dobbiamo indagare i nostri errori: dobbiamo assumercene collettivamente la responsabilità, partendo da chi ha rivestito ruoli dirigenti politici e istituzionali. Serve una discussione che vada oltre i confini di RC.

Un congresso di “avvicinamento”: la precipitazione del dibattito congressuale è necessaria ma non sufficiente. La nostra proposta è di istruire una discussione di largo respiro, libera da costrizioni di schieramento.

Per questo motivo, avanziamo una proposta: il dibattito del congresso di luglio sia considerato come la prima fase di un percorso, come l’apertura di un confronto che si rivolge anche all’esterno del partito. Un congresso di avvicinamento ai e di esplorazione dei difficili problemi dinnanzi a cui siamo. Un congresso di ricerca collettiva che riconosca la nostra inadeguatezza a intendere a fondo la società e i mutamenti che la attraversano e, perciò, non pretende di fornire risposte ultime e proposte definitive.

Per disarmare il dibattito interno, assumiamo un impegno: nel congresso di luglio non si elegga il/la segretario/a del partito e con un atto di responsabilità collegiale si chiami alla direzione e alla gestione soprattutto gli/le esponenti delle realtà territoriali di partito, senza seguire criteri di rappresentanza per componenti cristallizzate. Analoghe gestioni unitarie vengano sperimentate nei circoli, nelle federazioni, nei regionali, a sancire il comune riconoscimento della non-autosufficienza di tutte le parti “in campo”.

L’immediata mobilitazione sociale è fondamentale per costruire l’opposizione alle destre a livello territoriale così come a quello delle politiche generali. Sul tema di fondo della sinistra e del carattere del processo unitario fermiamoci a riflettere, continuiamo una discussione approfondita tra di noi ma anche e soprattutto con chi è fuori del partito e fuori dai partiti. Ripartiamo dall’impegno collettivo per salvaguardare il patrimonio di RC e la sua cultura, avendo cura della sua esistenza − necessaria per un progetto di costruzione di una sinistra plurale. Una sinistra che non può e non deve nascere dall’alto, da operazioni di “ingegneria politica”: non una Costituente della Sinistra ma un’opposizione − sociale e politica − costituente di un processo di rifondazione della sinistra.

2. Indagare le cause della sconfitta

La scomparsa della sinistra dal parlamento italiano è un passaggio epocale e segna uno spartiacque, dopo il quale o si ha la capacità di mettersi radicalmente in discussione o ci si condanna al definitivo declino. Non si può leggere la sconfitta con lenti che guardano solo allo Stato nazionale. Le sue cause di fondo rimandano alla globalizzazione neoliberista e a quella che abbiamo chiamato “rivoluzione restauratrice”. È un vento gelido che soffia verso destra, che distorce e cambia valori, coscienze, intelligenze in Europa e nel mondo intero − le elezioni britanniche ne sono l’ennesimo tassello; spira attraverso guerre che non accennano a trovare vie d’uscita, che spingono il mondo intero sull’orlo dello scontro di civiltà; lo si avverte nei cambiamenti climatici e nei disastri ambientali − e, poi, nello spettro della recessione globale, nella crisi finanziaria dei mutui subprime, nell’impennata dei prezzi dei generi alimentari e nella crisi energetica. Non esiste più nessuna certezza sul futuro.

La paura è divenuta la cifra del nostro tempo: la paura dell’altro, la paura del futuro, il panico che disarticola linguaggio e immaginazione. Noi siamo stati sconfitti da classi dominanti che hanno offerto a questa diffusa insicurezza, da essi stessi prodotta, lo sbocco della contrapposizione all’altro vissuto come nemico, costruendo identità tramite l’immaginario della guerra di civiltà e dell’opposizione al “diverso”, in cui violenza e sopraffazione divengono spesso lo strumento per riacquistare l’identità perduta.

Ha scritto l’esecutivo dei/delle Giovani comunisti/e che «il paese scopre che molti degli operai sindacalizzati del Nord hanno votato per la Lega: è lo stesso paese che li ha ignorati quando con la cieca politica economica del governo Prodi ogni redistribuzione è stata negata, ogni possibilità di politiche d’alternativa cancellata a priori». Per questo si è prodotta «la chiusura nella dimensione territoriale, la scorciatoia della competizione violenta contro ogni diversità, il giustizialismo, la sfiducia nella politica».

Il risultato tanto paradossale quanto reale è che RC e la sinistra sono apparsi quali difensori dello status quo, conservatrici; le classi dirigenti invece quali portatrici del cambiamento.

Nel nostro paese è avvenuto “un livellamento del senso comune” intriso di egoismo sociale, non confinabile solamente negli strati ricchi del nostro paese da sempre insofferenti a politiche di giustizia sociale. L’egoismo si è generalizzato così come il disprezzo per le regole e per tutto ciò che è “pubblico”. Le acque del “berlusconismo” sono filtrate anche nella PD, nell’intento di conquistare i padroni, piccoli e grandi, del Nord-est. L’Italia ha bisogno di una cultura che sconfigga, soprattutto tra le nuove generazioni, i germi dell’egoismo e della “cura del particulare”.

Il populismo, nei suoi variegati aspetti, è il linguaggio con cui le destre parlano della e alla sofferenza e solitudine, del e al profondo “disagio di civiltà” delle persone.

Dobbiamo indagarlo a fondo. Esso si esprime nel capo carismatico, nel padre benevole o nell’uomo di successo, personificati volta a volta da Berlusconi; si manifesta nell’antipolitica di Grillo e nel giustizialismo di Di Pietro; in Veltroni si celebra nel rapporto diretto del “leader buono” con il popolo, legittimato attraverso primarie costruite con i media. Il populismo è facilitato anche dalla sconfitta di RC, che con le sue battaglie per la democrazia rappresentativa è fra gli argini alle derive plebiscitarie. Dobbiamo rispondere ai fenomeni di protesta, dando di nuovo senso alla politica come ricerca di soluzioni collettive a problemi collettivi: la critica della politica come potere, intrapresa a Venezia, è una base per superare la separatezza tra politica e società.

3. I nostri errori: il governo, il PD

Il governo ha assunto per RC il carattere della sfida, mai quello della certezza. La sfida era nel cambiamento, che non è avvenuto: la sfida è stata persa. La speranza nella permeabilità del governo ai movimenti si è dimostrata illusoria, pur essendo il paese attraversato da importanti mobilitazioni − si pensi al Pride, alla manifestazione contro la nuova base di Vicenza e alla visita di Bush a Roma, al grande corteo del 20 ottobre. Esse si sono infrante contro il muro del governo. Il contraccolpo nel partito ha innescato meccanismi involutivi, mettendo a repentaglio dieci anni di innovazione politica e culturale.

Dobbiamo indagare anche le ragioni di questa impermeabilità alla luce dei processi di globalizzazione che svuotano le istituzioni nazionali della sovranità, riducendo la politica a tecnica di governance. Dobbiamo allo stesso tempo interrogarci sull’autonomia dei movimenti e sui motivi dei loro cicli carsici, altalenanti.

Dobbiamo guardare al mutamento del quadro politico del nostro paese per comprendere a fondo i caratteri di rottura che il PD tenta di immettervi per giungere a una “democrazia decidente”. Il tracollo e la scomparsa della sinistra sono indispensabili per il progetto di costruzione del bipartitismo, di cui sono elementi fondanti l’eliminazione del conflitto dalla politica, la sterilizzazione delle sue espressioni dirette (a partire dal sindacato), l’equidistanza tra lavoro e impresa.

Dalla sconfitta elettorale del PD, Veltroni non fa discendere una proposta di alleanza nazionale di governo con la sinistra, anzi la esclude.

Non è più riproponibile lo schema-base dell’Unione, il bipolarismo invece del bipartitismo: il bipolarismo è stato già sperimentato con Prodi − ha squassato la sinistra. Il bipolarismo è morto.

La formazione del PD e le sue scelte elettorali bipartitiche manifestano una tendenza di fondo, quella della rottura con la sinistra: la scelta strategica è la competizione al centro come unico spazio della sua politica.

È sbagliato pensare che si possa riproporre in forme rinnovate la stagione del centro-sinistra: il PD chiude un ciclo, quello del centro-sinistra, e ne apre un altro, quello del centrismo dove far vivere solo la competizione con il PdL.

4. Rifondazione, l’Arcobaleno e la sinistra d’alternativa

Si parla ora di “costituente della sinistra”: il processo costituente andava aperto nel 2003, a ridosso di Genova 2001 e dell’insorgenza del movimento “no global”, altermondialista, delle grandi manifestazioni pacifiste e del referendum sull’articolo 18. Fu commesso da tutti/e noi un gravissimo errore.

Della Sinistra/l’Arcobaleno, oltre ai vizi verticistici, di mediazione fra gruppi dirigenti, va messa in luce la contraddizione di fondo: per alcune forze, il tema della partecipazione al governo era ed è irrinunciabile, tale da essere elemento di identità politica; per noi, al contrario, la critica del potere e del governo come fine − e anche come strumento neutro utilizzabile per il cambiamento − è un tratto irrinunciabile della riflessione e dell’innovazione introdotte con la “rottura costituente” del 1998 e articolate con il congresso di Venezia. Si deve essere ben consapevoli del fatto che non abbiamo mai portato alle conseguenze necessarie il confronto con il governo − nonostante per ben due volte avessimo deliberato una consultazione di popolo per decidere cosa fare e se continuare la nostra presenza nell’Unione − anche a causa del percorso avviato con Sinistra Democratica, Verdi e PdCI.

Il nostro errore è stato di politicismo e verticismo, avendo collocato al primo posto la fedeltà al governo e alla maggioranza a scapito del rapporto con i movimenti. L’esatto contrario di quanto facemmo nel 1998. Tra la fedeltà al “popolo del 20 ottobre” e quella al “quadro politico”, questa volta abbiamo scelto la seconda.

Non abbiamo, inoltre, per tempo preso atto che il governo non era permeabile da parte dei movimenti: veniva con ciò a cadere una delle scelte qualificanti del Congresso di Venezia, dove avevamo sviluppato la critica del potere come base dell’autonomia dei movimenti e del partito dal governo e dal quadro politico: principio proclamato e mai praticato.

Per questo sono sbagliate le proposte sia dell’unità dei comunisti sia della Costituente della sinistra o, peggio ancora, di una federazione tra partiti che rimangono uguali a sé stessi: prospettive autoreferenziali e, di fatto, rivolte ai ceti dirigenti. Esse eludono le due questioni di fondo: il rapporto di “internità” ai movimenti e l’autonomia dal governo e dagli equilibri delle alleanze politiche. Esse sono volte a configurare soggetti identitari, incapaci di intraprendere un itinerario di costruzione della sinistra dal basso, a partire − senza alcuna gerarchia di valore − dai conflitti di genere, di generazione, di territorio, di luoghi, di classe.

Non vogliamo definire un soggetto, bensì un processo che nasca dalla materialità e dai molteplici soggetti dei conflitti che si svilupperanno nella società, nell’opposizione al governo Berlusconi. Perciò crediamo sia inutile oggi inchiodare la discussione intorno al contenitore, si tratta al contrario di avviarsi in un percorso, di cui è chiaro il punto di partenza ma non è predeterminato quello di arrivo.

Linee di ricerca e di azione politiche

5. La globalizzazione

Per comprendere la globalizzazione, con i suoi fenomeni di “distruzione creativa”, è fondamentale l’indagine sull’impresa secondo la prospettiva di Marx: l’innovazione e il rivoluzionamento permanente quali caratteri basilari dell’impresa, motore del dinamismo dell’intera formazione sociale borghese.

Si mantiene sulla superficie chi vede la finanza solo nei suoi aspetti speculativi, perché perde la tendenza caratteristica dello sviluppo capitalistico: il rivolgimento dello stesso contesto sociale.

È questa distruzione e creazione di nuovi contesti sociali che può spiegare la contorsione in cui è preso l’operaio che “iscritto alla Fiom” si schiera con la Lega: l’innovazione capitalistica non è solo tecnologica od organizzativa, implica un rivolgimento del senso comune e, complessivamente, delle relazioni sociali. In un’ottica di mera difesa individualistica, oggi può anche vincere chi è portatore di politiche protezioniste, che sono pur sempre strumenti di guerra mercantilista nell’arena globale.

Inoltre, continuare a contrapporre capitalismo produttivo e finanza, come se quest’ultima fosse solo parassitismo e pura rendita fa perdere di vista che i « mercati finanziari sono e sono sempre stati il centro di comando del sistema capitalistico, da cui partono le direttive per ogni settore e le decisioni che vi si discutono e vi si prendono riguardano, in definitiva, sempre la pianificazione dello sviluppo futuro» (Schumpeter).

C’è stato nel nostro tempo un salto nel rapporto tra economia e società. Lo slogan – “l’economia domina la politica” – nella sua semplificazione coglie un fenomeno di assoluto rilievo storico perché se è vero, come mostrato da Polanyi, che il capitalismo ha sempre trasformato mondi vitali in relazioni mercantili pure non era mai riuscito a mercificare completamente l’intera esistenza. Ora ogni cosa non solo può essere prodotta dall’impresa privata e scambiata sul mercato, ma si pretende che solo lo scambio di mercato guidato dal profitto sia indice di socialità dei beni (materiali, biologici, relazionali che siano). La stessa scienza e la conoscenza in generale sono divenute da organismi esterni all’impresa, che trasformava in tecnologie e merci le loro scoperte e “brevetti”, le sue divisioni interne di R&S, di ricerca e sviluppo.

La sfida da portare è all’impresa e al mercato, ed essa deve riguardare: a) la condizione di generalizzata precarietà mirando, al tempo stesso, b) a mettere in discussione “chi decide cosa, come e per chi produrre”.

In questo contesto sostenibilità ambientale e sociale, relazioni umane solidali e assunzione del limite della riproducibilità delle risorse naturali, allargamento della sfera della convivialità e decrescita della sfera mercantile sono condizioni per interpretare e praticare l’economia come cura della casa comune: sono valori che orientano la prassi trasformatrice per un’alternativa di società.

6. Rompere la precarietà, riprendersi la vita

L’impresa pretende di gestire in assoluta libertà il lavoro, e di controllare l’intero tempo di vita. Il neoliberismo − quello della “modernizzazione”, dello Stato sociale minimo per ridurre le tasse ai ricchi, della globalizzazione delle imprese e del mercato come motori capaci di trascinare il mondo verso “sorti migliori e progressive”− ha fatto molti adepti, fino a permeare il PD.

Dopo aver attaccato e mortificato salari pensioni e diritti, il capitalismo risponde alle nuove crisi finanziarie con l’aggressione al contratto di livello nazionale, perché le condizioni di lavoro ed economiche dei lavoratori diventino variabile dipendente della produttività dell’impresa e il profitto funga da esclusiva “autorità salariale”. Con l’aggressione al lavoro pubblico esso si prefigge l’ulteriore riduzione della spesa sociale per dare spazio al libero mercato nei settori del welfare. Al capitale privato interessa intervenire sul lavoro pubblico non per migliorarne efficacia ed efficienza, ma per ridurre i servizi e liberare risorse: si mira a più ampie privatizzazioni in nome della lotta al “capitalismo municipale”.

Negli ultimi venti anni, la politica dei redditi e la moderazione salariale, la necessità di “acquistare sul mercato” servizi che prima erano erogati dalle istituzioni pubbliche, i tagli delle pensioni, il ricorso sempre maggiore al lavoro precario, la permanente evasione fiscale, hanno spostato enormi masse di ricchezza, circa il 15 % del PIL, dai redditi da lavoro dipendente ai profitti. I ricchi sono meno numerosi e più ricchi, i poveri sono più numerosi e più poveri.

Il sindacato non è stato capace di contrastare queste politiche. Dovremo far sì che il movimento sindacale tutto, rispettandone l’autonomia (che dovrebbe valere innanzitutto nei confronti del governo e del padronato), affronti una profonda e critica riflessione sull’efficacia delle sue strategie e sulle ragioni della progressiva passivizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori.

Si assiste a una nuova crisi del diritto del lavoro, sottoposto a un’azione di restaurazione: l’impresa tende a imporre un ritorno alla libera contrattazione della forza-lavoro sul mercato. Le persone tornano a essere pura merce, al pari di tutti gli altri “fattori” produttivi. Battersi per salari e pensioni “decenti” è importante quanto conquistare diritti nei luoghi di lavoro per la libertà e l’autonomia reali della prestazione lavorativa, sottraendole al dominio e al controllo della gerarchia aziendale. La precarietà, e con essa, l’insicurezza del lavoro si sono generalizzate, provocando una schizofrenia del lavoratore tra il suo essere sociale e il suo essere politico: con il sindacato dentro la fabbrica e con la Lega fuori. La sconfitta elettorale interroga anche i sindacati, sia quelli di più lunga storia sia quelli nuovi.

È perciò necessario avviare da subito campagne di mobilitazione contro la cancellazione del contratto nazionale di lavoro e contro l’attacco al lavoro pubblico da parte del governo Berlusconi. Difendere il contratto nazionale per evitare ulteriore precarizzazione, frammentazione, impoverimento e solitudine nelle fabbriche e nei posti di lavoro; difendere il lavoro pubblico per migliorare l’insieme dei servizi a garanzia dei diritti sociali universali, che concernono in primo luogo i “beni comuni”. La società che vogliamo edificare è una società dove lo spazio pubblico è luogo della democrazia partecipata ma anche della gestione da parte di tutti/e delle risorse e dei “beni comuni” − acqua, terra, aria, risorse naturali, energia.

Va ripresa la piattaforma della manifestazione del “4 novembre” 2006, guardando con attenzione anche ai contenuti di quella grande e “moltitudinaria” parade precaria che è l’euro-mayday. Si deve riscrivere l’intera legislazione su lavoro e sul welfare abrogando le tre leggi cardine della precarietà: la legge 30, avendo come riferimento la “proposta Alleva”; la legge Bossi-Fini sui migranti; le leggi sulla scuola (da Berlinguer alla Moratti).

La garanzia del diritto a una continuità di reddito per le precarie e i precari è la rivendicazione da cui partire − superando la tradizionale ottica lavorista – per tentare una ricomposizione del polverizzato mondo del lavoro precario: rimane valida la proposta per il reddito sociale messa a punto dai Giovani comunisti/e e dal dipartimento lavoro.

La precarietà non è più una dimensione legata esclusivamente al singolo contratto di lavoro, diviene una condizione esistenziale generale che mina la possibilità stessa di immaginare e progettare la vita di ognuno/a. Con questa dimensione non siamo ancora in grado di fare i conti, affezionati a categorie e pratiche ormai del tutto inadeguate a intendere il tempo presente e a parlare alla e della materialità delle vite delle persone. Così quando parliamo, per esempio, del voto operaio al Nord ci dimentichiamo che stiamo nominando solo metà dei soggetti perché l’altra meta è costituita dal lavoro migrante che, forse perché privo del diritto di voto, appare dimenticato e marginale nella nostra iniziativa. Il nostro resta un partito “biancocentrico”, ancora restio a fare i conti con un fenomeno globale – quello delle migrazioni – che è soltanto all’inizio e rispetto al quale non dobbiamo avere alcuna esitazione o reticenza nell’affermare il diritto di fuga da guerre, fame, disastri ambientali, fenomeni purtroppo ormai permanenti nel nostro tempo.

7. La sfida ambientalista

L’ambiente dovrebbe essere la leva della “grande trasformazione”, e invece è diventato un’occasione per allargare i business, gli affari, per colonizzare ancora una volta il Sud del mondo e riprodurre gli insostenibili stili di vita dell’Occidente.

Le ripetute tragedie ambientali, i mutamenti climatici e la fame ripropongono il tema decisivo del rapporto con la natura. La globalizzazione capitalistica sta determinando con la distruzione del pianeta un salto nel buio, e provocando una rottura tra processi produttivi e riproduzione sociale- ambientale: l’interruzione del ricambio organico tra esseri umani e natura. Come ripetutamente argomentato da L’insostenibile, la novità è che dal movimento dei movimenti sono venute proposte per un altro modo di fare economia, sociale, non più affidato alla “crescita”, ma basato su una capacità di interazione positiva con i cicli ambientali. È possibile creare un’economia fondata sulla qualità merceologica che, non creando rifiuti, non richiede inceneritori e discariche, bensì recuperi e riusi in modo sistematico; garantire la sovranità alimentare come pratica del “ciclo corto”, capace di tenere in equilibrio agricoltura, industria, servizi e distribuzione, valorizzando il lavoro e il diritto per tutti gli esseri umani al cibo di qualità, Ogm free; affermare il diritto alla “mobilità sostenibile” attraverso il trasporto pubblico collettivo; fermare la cementificazione e le grandi opere definendo, invece, grandi piani di risanamento territoriale e di riuso urbano. È necessaria una politica energetica fondata su risparmio e fonti rinnovabili: fermo deve rimanere il no al nucleare e a fonti inquinanti come il carbone.

Per tutto ciò la cultura rossoverde, quella della critica della merce insegnataci da F. Giovenale e che G. Nebbia continua a proporci, va assunta nella costruzione dei nuovi orizzonti della sinistra.

Ha scritto Vandana Shiva, traendo una “lezione” dallo tsunami, che si attaglia alla tragedia birmana e al terremoto in Cina con le loro decine di migliaia di vittime: «Lo tsunami ci ricorda che non siamo meri consumatori in un mercato che tende al profitto. Siamo esseri fragili e interconnessi, e abitiamo un pianeta fragile. Questo è un richiamo alla responsabilità e al dovere nei confronti della terra e di tutte le persone».

8. I valori della democrazia e della nonviolenza

Si è andata imponendo una costituzione economica che mina alle fondamenta il costituzionalismo democratico: ne sono espressione esemplare i Trattati dell’Unione europea, che hanno assunto la concorrenza come “principio” guida. Così si è configurata una “cittadinanza di mercato”, ridotta a libero accesso alle contrattazioni mercantili, quindi non più fondata sui diritti della persona. La crescita delle istituzioni ademocratiche è conseguenza della presa egemonica dell’impresa e della finanza che piegano le istituzioni alle loro esigenze, spostando i centri decisionali in sedi tecnico-economiche slegate dalle sedi della rappresentanza politica.

Rimane valida l’intuizione di Gramsci secondo cui la contraddizione di fondo della società capitalistica, in parallelo con lo sfruttamento delle persone, sono la scissione tra dirigenti e diretti, e il restringimento alle élites del potere decisionale, con il risultato di comprimere le potenzialità intellettuali e creative dell’intera società.

La democrazia maggioritaria e il bipartitismo – introdotto dall’accordo Veltroni-Berlusconi − hanno già cambiato di fatto la Costituzione. Il bipartitismo comporta la competizione tra partiti di centro, partiti pigliatutto, programmaticamente simili, che si confrontano solo per conquistare consensi elettorali al fine di gestire il governo entro le compatibilità stabilite dalle dinamiche dei poteri capitalistici.

Siamo di fronte a un’Italia in rapido e inquietante mutamento, a una profonda metamorfosi antropologica del senso comune. Questa trasforma le complesse e differenti ragioni dell’insicurezza in cui vivono oggi ampi strati della popolazione, in fantasmi e paure indirizzate soprattutto a esorcizzare l’altro come il nemico che insidia i nostri territori e i nostri beni. La sicurezza senza oggetto preciso, assurgendo a valore in sé, si trasforma in un delirio ossessivo che dà legittimazione a un pervasivo controllo poliziesco del territorio.

Le carceri, da sempre, sono il contenitore dell’esclusione: tossicodipendenti, migranti costretti al lavoro nero e all’illegalità, prostitute sono le figure ricorrenti della popolazione carceraria. Contro le nuove e le vecchie forme di “istituzioni concentrazionarie” va condotta la lotta per la garanzia dei diritti dei/delle detenuti/e, ormai cancellati in nome del “sorvegliare e punire”. C’è un paradosso dell’illegalità: è creata dalle stesse leggi dello Stato – quella Bossi-Fini o quella sulla tossicodipendenza −, produce devianza sociale ma è sempre lo Stato a punirla. In questo senso la battaglia antiproibizionista non è una rivendicazione per pochi, ma l’apertura a un’idea generale di società che rifiuta il carcere e la repressione come soluzione ai problemi dell’insicurezza sociale delle persone. Rimane sempre attuale la prospettiva delineata da L. Ferrajoli di uno Stato e un diritto penali minimi.

La critica della violenza del potere affonda la sua radice nella nonviolenza, in quanto pratica della trasformazione. Essa riguarda l’affermazione della pace e del pacifismo come valori primari, da perseguire in quanto scelta individuale e collettiva per contrastare le guerre e il bellicismo: valori che si disperdono se non si è conseguenti nel contrastare le scelte di guerra in tempo di “pace”, battendosi contro armamenti e basi, e impedendo in particolare la costruzione del nuovo “Dal Molin” a Vicenza – sciaguratamente avallata da Prodi. La nonviolenza chiama, in secondo luogo, a un lavoro di decostruzione dei dispositivi antropologico-culturali che alimentano la creazione del “nemico” interno o esterno, del “capro espiatorio”. Dunque, ci interroga direttamente come soggetti della trasformazione. La nonviolenza è stata da RC proclamata, quasi mai praticata: essa anzitutto è azione diretta di sottrazione ai meccanismi di violenza del potere, attraverso per esempio le campagne per l’obiezione fiscale alle spese militari, per il disarmo e la riconversione degli apparati dell’industria militare, per la costituzione dei corpi di pace.

Dai movimenti globali contro il neoliberismo è stata posta in discussione la scissione tra morale e politica. Essi lottano anche in nome di principi morali: la pace o la dignità della persona sono valori che sovradeterminano e limitano le opzioni e lo spazio della politica; mirando così a riarticolare il nesso tra morale, politica e diritto proponendosi di superare la separazione tra mezzi e fini, da sempre chiamata a giustificare il cinico realismo del potere e della “ragion di Stato”.

Alla politica spetta il compito di “fare società”, non di perseguire il potere, la cui critica è da agire anche al nostro interno, al fine di rompere l’autoreferenzialità e separatezza dei gruppi dirigenti, che rischia di rendere impossibile recuperare la capacità del partito ad essere reale rappresentanza sociale.

F. Bertinotti ha indicato la fallacia della “democrazia militante” in quanto questa si svela essere “democrazia dei pochi”, tratto tipico dell’ideologia del movimento operaio nel Novecento; al suo posto ha dato voce a una “democrazia deliberativa” per coinvolgere tutte le persone, e non la sola “avanguardia”, alle decisioni che le riguardano direttamente (si pensi al referendum sui contratti). In questa prospettiva la democrazia, concepita come spazio della ragione pubblica ove tutti/e prendono parte ai processi deliberativi e decisionali − nei limiti invalicabili segnati dai diritti universali della persona, essendoci infatti sfere indecidibili per ogni collettività, a essa sottratti per salvaguardare l’autonomia delle persone (quali la scelta sessuale, le credenze religiose, i tempi e le modalità individuali della propria esistenza) −, mostra la via per superare la frattura tra dirigenti e diretti, compresa quella tra “politici” di professione e cittadini/e.

9. L’europeismo di sinistra

Rompere la centralità dello Stato nazionale e del suo governo e assumere l’Europa come spazio di pensiero e di azione è condizione indispensabile per la sinistra. L’agire politico di RC deve continuare a essere europeo ed europeista. RC deve continuare a operare nel e con il GUE, con la Sinistra europea, e deve riprendere la sua attiva presenza nel Social forum europeo, la cui V edizione si svolgerà a Malmoe nel prossimo settembre. Il movimento no global europeo, e con esso RC, non ha commesso gli errori della sinistra storica, che dinanzi alla sfida europeista di Schuman, Adenauer e De Gasperi si rinchiuse nei confini dello Stato nazionale (e nel «campo socialista», cioè sotto le ali di Stalin). I movimenti sociali stanno elaborando un europeismo di sinistra, per conquistare i diritti universali – sociali, politici e culturali – e per costruire una democrazia sovranazionale.

Il costituzionalismo multilivello offre un terreno per progettare iniziative politiche in grado di determinare una discontinuità netta con le prassi intergovernative. Esso prospetta l’istituzione dal basso di una democrazia costituzionale senza Stato.

Per affermare la democrazia costituzionale europea si deve perseguire innanzitutto lo smantellamento dell’Europa-fortezza, eretta per impedire i naturali flussi migratori, peraltro indispensabili – come riconoscono gli stessi imprenditori − al funzionamento dell’economia e a contrastare il declino demografico. Essa alimenta le politiche sicuritarie, con il suo apparato di Cpt e di veri e propri campi di concentramento ai confini europei. Abbattere questa fortezza è fondamentale non solo per un dovere di solidarietà verso chi fugge fame e miseria, ma per istituire una nuova cittadinanza europea per tutti/e legata alla residenza, presupposto per una società meticcia e multietnica.

Dopo il Trattato di Lisbona, poi, non bisogna abbandonare l’impegno per il processo di democratizzazione dell’UE, che corre in parallelo con la conquista dei diritti sociali e del lavoro.

La prima richiesta, in questa direzione, è l’attribuzione al parlamento europeo della generale potestà d’iniziativa legislativa − in quest’ottica si deve anche prevedere l’iniziativa legislativa popolare; un’altra misura è l’istituzione di un’ulteriore potere d’iniziativa per i parlamenti nazionali, i quali potrebbero rivolgersi direttamente al Parlamento europeo per proporre l’adozione di regolamenti o di direttive.

Infine, il Parlamento europeo deve divenire organo della revisione dei Trattati, con lo scopo di giungere alla costruzione, in rapporto con i movimenti sociali, di una democrazia costituzionale europea.

10. L’esperienza femminista

Non serve scrivere qui di nuovo, con il rischio dell’approssimazione, la ricca elaborazione femminista in RC, basilare contributo alla stessa critica della politica: essa resta un comune patrimonio del partito. L’orizzonte della ricerca femminista è l’intreccio tra capitalismo e patriarcato, che si esprime oggi in forme inedite, da analizzare alla luce delle trasformazioni intervenute nel corso del Novecento, a cominciare dalla straordinaria rivoluzione delle donne che ha lasciato un segno su tutto. Nei processi della globalizzazione neo-liberista, caratterizzati dal ritorno della guerra, dalla militarizzazione dei territori, delle culture e delle menti, dall’ossessiva volontà di erigere nuovi muri contro ogni diversità, dalle rinnovate forme di un infinito e devastante saccheggio del pianeta, le donne, con la loro stessa esistenza quotidiana, portano alla luce le contraddizioni essenziali tra le scelte del capitalismo globale e i bisogni primari e fondamentali dell’umanità. Le donne generano e curano quei corpi che la globalizzazione destina ogni giorno di più a un “mondo senza pianeta”, a un domani senza futuro. La contraddizione di genere, che informa le relazioni tra uomini e donne, offre chiavi d’interpretazione fondamentali per capire i problemi della contemporaneità. Il conflitto di genere, se attivato consapevolmente, modifica alla radice il modo di pensare e di agire il cambiamento.

11. Laicità, diritti e libertà

Il governo di centro-sinistra, oltre a fallire nella politica sociale e del lavoro, non è stato neppure in grado di affermare una politica dei diritti della persona, come portata avanti con successo, anche elettorale, da Zapatero in Spagna.

I diritti di ognuno/a a definire i propri stili di vita, le scelte sessuali, le forme di convivenza, la disponibilità del proprio corpo nella procreazione e nella fine della vita sono principi costitutivi per una nuova sinistra. Essi sono stati sacrificati dal governo di centro-sinistra al rapporto con le gerarchie ecclesiastiche.

Dobbiamo con coraggio, senza settarismi e anticlericalismi che negano validità alle esperienze di solidarietà di cui è capace il mondo religioso (sia cristiano sia islamico) e alla libera adesione di una persona a un “credo”, contrastare l’ideologia di una Chiesa che pretende di fondare sulla “ragione cattolica” − contro il relativismo e in nome della preservazione dei “valori ultimi” − i principi morali di ciascuno/a, le relazioni tra le persone e lo stesso agire sociale.

La dignità dell’essere umano non è un dono divino che la Chiesa cattolica è chiamata a distribuire: è una conquista storica costata tragedie come il genocidio nazista degli ebrei, dei rom e dei gay. Sono state le lotte contro l’ingiustizia e la barbarie nazifasciste, così come quelle contro i totalitarismi, che hanno condotto all’elaborazione e alla statuizione costituzionale della dignità umana.

L’attacco che la Chiesa porta alle conquiste dell’Illuminismo va contrastato e respinto. Della sua tradizione, pure impregnata di “fede” nell’ineluttabilità del progresso, non va persa l’esortazione al «Sapere aude! Osa conoscere!». Quell’esortazione fonda l’uso critico della ragione e l’affermazione delle procedure democratiche e degli spazi pubblici di confronto tra valori, idee e opinioni diversi.

Dare vigore al principio della laicità, fondamentale nella nostra Carta costituzionale, e tradurlo in concreta politica delle istituzioni sono impegni primari di RC.

Rifondazione comunista, quale progetto?

12. Politica e movimenti

Dapprima una cruciale questione: il rapporto politica-movimenti. Ha più volte sostenuto P. Ferraris che questa fase storica ha delle analogie con quella della costituzione della I Internazionale, quando forze diverse sia per collocazione sociale sia per orientamenti ideali e culturali diedero vita al primo movimento politico operaio.

Oggi dobbiamo di nuovo definire un “campo politico e ideale”: la sinistra di alternativa, connotata dai valori del movimento altermondialista e dall’autonomia dai poteri, compresi i “governi amici”. Questa era la forza della Sinistra Europea, che camminava proprio sul filo della ricucitura della separatezza tra partiti e movimenti. La SE è stata contrastata da alcune componenti di RC perché considerata contraddittoria con l’identità comunista e poi, di fatto, liquidata seccamente dal gruppo dirigente nazionale perché considerata superata dalla Sinistra/ l’Arcobaleno.

Non dobbiamo ripetere quanto è accaduto nel percorso di Sinistra/l’Arcobaleno, in particolare in relazione al rapporto tra il processo unitario e RC. Nella realtà, e al di là delle parole dei documenti, è prevalso un modo di agire che implicava una dissolvenza del partito nella costruzione di Sinistra/l’Arcobaleno. Questo è stato un errore, e come tale va riconosciuto.

Le forme organizzative e politiche che potrà assumere la Sinistra non sono definibili solo da RC, a prescindere dal dibattito con le forze e con tutti/e coloro che sono interessati/e al progetto: RC non può comportarsi come un’azionista di maggioranza della sinistra, che detta scelte tempi e condizioni.

Riflettiamo ancora sull’esperienza di SE. Essa era un’utile innovazione perché non prevedeva lo scioglimento delle forze contraenti ma la condivisione di uno “spazio comune”, legittimato dal riconoscimento dell’autonomia delle singole forze che avrebbero dovuto cedere ambiti di sovranità, cessioni mai avvenute da parte di RC. Difetti di SE sono stati quelli di non prevedere l’adesione diretta di singoli (non appartenenti a nessuna delle sue componenti costitutive), se non attraverso un’apposita associazione; di riproporre in SE organizzazioni del partito in quanto tali; di avere quali azionisti di maggioranza talune organizzazioni.

Abbiamo la “presunzione” di ritenere RC indispensabile oggi alla sinistra, accompagnata dalla consapevolezza che essa non sia sufficiente a costituire il campo della sinistra di alternativa.

Processo costituente della sinistra alternativa come processo federativo dal basso: in questo orizzonte, RC deve intraprendere un cammino di autorinnovamento che, al tempo stesso, deve rivolgersi alle forze politiche di sinistra, alla “sinistra sociale”, ai movimenti, alle esperienze di radicamento sociale (quali, per esempio, quella di Action a Roma), interessati a darsi una dimensione politica.

Il processo federativo è aperto, deve essere nelle mani di coloro che vi prenderanno parte, non è la confederazione tra partiti esistenti, che ricreerebbe la gerarchia tra chi sarebbe portatore di presunti interessi generali (i partiti) e chi di interessi particolari (i movimenti). Ognuno deve riconoscere la propria parzialità.

Processo costituente non è scioglimento dei partiti per la creazione di un soggetto indefinito che, se prodotto delle forze esistenti, riprodurrebbe un partito tradizionale (incluse le correnti organizzate). Il processo costituente è volto a formare un campo, la sinistra di alternativa, e a delineare le forme per superare la separatezza tra politica, società, movimenti: serve su tutto ciò riflessione, ricerca e sperimentazione. Non c’è una ricetta miracolistica né un demiurgo salvifico.

13. L’innovazione del fare e la politica della liberazione

Il problema centrale è trasformare i partiti che si richiamano alla sinistra da strutture autoreferenziali, e istituzionali, in organismi impegnati nel “fare società”. L’orizzonte di un nuovo mutualismo deve divenire modalità generale dell’agire politico.

RC deve continuare, a livello generale, nella sua attenta politica sui problemi della scuola e della conoscenza e “investire”sulla formazione interna per rispondere ai problemi e alle istanze dei cittadini. L’intuizione dei “beni comuni”, per esempio, si è oramai diffusa, non riusciamo però a trasformarla in azioni concrete. Ciò richiede un impegno nella “formazione e autoformazione continua” per costruire, attraverso la contaminazione dei diversi saperi e delle diverse intelligenze, proposte capaci di dare risposte ai bisogni dei cittadini.

Vogliamo portare a compimento il processo avviato con la Conferenza di Organizzazione di Carrara e realizzare un salto nel funzionamento e nel modo d’essere del partito: è necessaria una democratizzazione. Nonviolenza e ricerca del consenso non possono essere considerate buoni comportamenti nelle relazioni tra e con i movimenti e, al contrario, nel partito essere sostituiti da una logica di scontro tra schieramenti.

Il punto focale è la critica alla pratica della separatezza istituzionale, che si manifesta nello slittamento del centro di interesse e di attività del partito dalla società alle istituzioni. Quello che proponiamo è un salto: l’adozione di un modello partecipativo che rompa l’autoreferenzialità della sfera del politico, a cominciare dalle forme di adesione “generalista” che attualmente escludono la possibilità di federarsi al partito da parte di associazioni e gruppi che agiscono sul territorio. Rovesciare la struttura piramidale e gerarchica del partito, il suo carattere monosessuato, “biancocentrico”, assumendo come cogente il vincolo della democrazia di genere. Proponiamo, dopo la moratoria che prospettiamo per questo congresso, che i designati a rappresentare il partito, quelli che oggi chiamiamo segretario/a, siano sempre sessuati, una donna e un uomo.

Come già avviene in altre organizzazioni (quale la CGIL) e perfino nelle stesse istituzioni, va stabilito il limite massimo di due mandati, che può, se non porre fine, limitare il leaderismo.

Abbiamo sempre più bisogno di un partito “glocale”, diffuso, superando la centralità del partito “romano”. Riflettiamo intorno a un progetto di organizzazione che metta al centro, attraverso un’equa distribuzione delle risorse anche economiche, le federazioni territoriali e le strutture regionali del partito. L’agire politico passa vieppiù attraverso le istanze locali e il partito deve essere in grado di rispondere alle istanze e i bisogni che si manifestano sui territori.

Per superare la “divergenza” di carriere tra chi svolge la sua attività nelle istituzioni e chi invece nel partito e nei movimenti, si deve prevedere una rotazione secondo le indicazioni di “Carrara” e regolamentare in chiave egualitaria le differenze di stipendio; vanno previste misure per impedire l’esercizio di più incarichi.

Occorre un radicale rinnovamento dei “gruppi dirigenti”, non solo su base generazionale ma anche in funzione della pluralità di percorsi ed esperienze, così da rompere i meccanismi di affiliazione e cooptazione che governano e determinano molte scelte del partito… “l’obbedienza non è più una virtù!”.

La collettività politica di RC non può che avere forme di organizzazione e di relazioni coerenti con il progetto di liberazione e di eguaglianza, di cui vuole essere portatrice. Vogliamo un partito nuovo, interamente intessuto di relazioni sociali nel mondo del lavoro e del nonlavoro, intrecciato di autonomie cooperanti attraverso le reti di territorio, immerso nelle pratiche dell’altra società, un “partito sociale” e non un “partito delle cariche pubbliche”; una collettività di persone protagoniste e partecipi, in cui la trasformazione sia un processo quotidiano che riguarda anche le forme di vita, i linguaggi, le relazioni. Una collettività di uomini e donne liberi/e, senza più divise, generali, eroi.

Walter De Cesaris, Franco Russo, Gabriella Stramaccioni
Roma, 11 maggio 2008