Virus H5N1, influenza aviaria

VACCINARE È INUTILE, ANZI DANNOSO
(MA È UN AFFARE)

Se la pandemia è un rischio concreto, ha senso lanciare una campagna di vaccinazione di massa?

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Dopo una colossale campagna mediatica volta a convincere gli italiani che sta per arrivare la Peste nera, ora si passa... all'incasso: ai milioni di euro già stanziati per acquistare farmaci e vaccini se ne preventivano altrettanti da destinarsi agli spot che devono convincere gli under-65 a vaccinarsi. Senza alcun senso di responsabilità vengono sparati numeri da capogiro, inventati di sana pianta oppure veri ma fuori contesto - che indicazione forniscono sei decessi in Indonesia, paese con 200 milioni di abitanti? - secondo le ben note strategie di quel marketing della paura su cui sono concentrati ormai quasi tutti gli sforzi dell'industria farmaceutica. Cerchiamo quindi di fare un po' di chiarezza, sia per smarcarci dall'allarmismo strumentale agli interessi di big pharma che dal rischio di ignorare un problema reale.

In primo luogo le cattive notizie. L'ipotesi che possa ripresentarsi una pandemia influenzale come la Spagnola, che nel 1918 uccise circa 40 milioni di persone, non è soltanto una leggenda metropolitana. Può succedere. Anzi, come scoprirono gli scienziati che studiarono le vestigia del famoso virus, è abbastanza probabile che prima o poi accada. I virus, contro cui gli antibiotici sono totalmente inefficaci, sono le creature più efficienti e adattabili esistenti in natura, c'erano prima di noi e ci saranno dopo. La mutevolezza del rivestimento glicoproteico, per usare un termine tecnico, consente al virus influenzale di rendere inefficaci le difese dell'organismo che si basano proprio sul riconoscimento delle proteine di superficie per attaccare gli intrusi. E a differenza di altri virus quello influenzale muta ininterrottamente, con grande gaudio dei produttori di vaccini che possono commercializzare una nuova formula ogni autunno. Per il virus la ricombinazione di due proteine, H e N, è fondamentale sia per azzeccare la combinazione invisibile al sistema immunitario umano che per fare il cosiddetto "salto di specie", cioè per passare dagli animali all'homo sapiens. E il virus influenzale è un asso nel transitare per quelli che vengono chiamati "serbatoi animali", ovvero uccelli e maiali, un passaggio decisivo per trasformarsi nuovamente. In sostanza, l'influenza che mi ha tenuto a letto l'anno scorso, e che i miei anticorpi hanno imparato a fronteggiare, dopo una passeggiata nel Dna di polli o maiali cambia faccia, ed è pronta per ricominciare. Così i ricercatori si ritrovano fra le mani una sorta di slot machine genetica: se il virus azzecca la combinazione giusta - come nel 1968, quando sono morte mezzo milione di persone - sono guai. Ecco perché l'influenza avicola allarma così tanto gli scienziati. Fino a questo momento il ceppo A (che sta per avicola) H5N1 non preoccupava i virologi perché indicava un virus influenzale isolato nel '61, aggressivo fra i polli ma innocuo per gli esseri umani. Ora però si è visto che lo stesso ceppo è in grado di uccidere anche la nostra specie, e il fatto che non si riesca bene a capire come - per via aerea? Attraverso il contatto con le carni infette? - è ancora più allarmante.

Inoltre, la paura del ritorno di una pandemia simile alla Spagnola viene alimentata dalla consapevolezza di quella che gli scienziati chiamano "l'unità microbica" del pianeta. La rapidità dei collegamenti aerei garantisce ai patogeni (gli agenti che portano le malattie) passaggi molto veloci: un'epidemia trasmissibile per via aerea come l'influenza può fare il giro del mondo in 24-48 ore. Proprio in previsione di questo fenomeno l'Organizzazione mondiale della sanità istituì nel 1952 la Global Influenza Surveillance Network (Rete di sorveglianza globale sull'influenza) con il compito di registrare immediatamente i primi focolai d'infezione e mettere in guardia le strutture sanitarie locali. Il problema è che, da una ventina d'anni a questa parte, i grandi finanziatori internazionali hanno attaccato in tutti i modi la sanità pubblica, smantellando i presidi che potrebbero segnalare e contenere un'epidemia. In Africa, Asia e America latina i programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario hanno preteso la distruzione dei sistemi sanitari nazionali in cambio della dilazione dei pagamenti del debito estero mentre, dalle nostre parti, pressioni più sfumate ma altrettanto implacabili hanno imposto pesanti tagli sulle spese, sugli stanziamenti per la ricerca e perfino sulle reti di monitoraggio epidemiologiche, quelle che raccolgono dati sulla diffusione delle malattie. L'epidemiologia italiana, un modello invidiato e imitato da molti paesi del mondo, sta letteralmente agonizzando nella penuria di mezzi e ricercatori, mentre la rete dei controlli veterinari - i vecchi istituti zooprofilattici che nel nostro paese impedirono la diffusione del morbo della mucca pazza - subisce la stessa sorte. Chi pensa di invertire la tendenza con una quindicina di laboratori ad hoc (i cosiddetti Flu) è privo di qualunque nozione medica o in malafede.

Se la pandemia è quindi un rischio concreto, ha senso lanciare una campagna di vaccinazione di massa? Ci sono pochi dubbi a questo proposito: non solo non ha senso, ma potrebbe addirittura essere dannoso. Prima di tutto gli esperti sanno bene che in caso di allarme pre-pandemico o di pandemia dichiarata l'immuno-profilassi attiva (ovvero le vaccinazioni) è inutile se non pericolosa. E' inutile perché, una volta effettuato il salto di specie, il virus tende a mutare ulteriormente per "accomodarsi" nell'ospite umano. Quando alla fine raggiunge una forma stabile, e può essere isolato, sono necessari fra gli 8 e i 12 mesi per mettere a punto un vaccino sicuro e per organizzarne la distribuzione.

In secondo luogo, il ceppo virale che potrebbe dare luogo alla paventata pandemia ha caratteristiche che rendono l'impiego dei vaccini ancora più discutibile. Come sottolinea Ernesto Burgio, medico pediatra attivo nella rete Attac, autorevoli virologi ed epidemiologi (Webster, Dianzani) sconsigliano l'uso di vaccini «in tutti i casi in cui si teme che il patogeno possa essere appunto un nuovo ricombinante (e in particolare un virus che abbia compiuto di recente il salto di specie): visto che, almeno in linea teorica, il vaccino potrebbe causare una produzione eccessiva di anticorpi e peggiorare la tempesta di citochine che sembra essere la vera causa dell'evoluzione maligna della malattia». Insomma pasticciare con i vaccini - quelli classici, mirati sui ceppi influenzali noti (H3N2), e quelli nuovi, da confezionare per contrastare H5N1 - in presenza di un virus che sembra avere effetti letali proprio per un'eccessiva reazione del sistema immunitario, non sembra una buona idea. Non solo c'è il pericolo di scatenare una risposta iperimmune (lo shock allergico considerato l'arma segreta del virus) ma si rischia di incrementare l'ulteriore ricombinazione del mutante con ceppi influenzali più comuni. Visto che la caratteristica del virus influenzale è proprio la sua capacità di utilizzare pezzi di differenti genomi per rendersi invisibile al sistema immunitario, i nuovi vaccini rischiano di mettere a disposizione del virus un altro po' di "materiale" e rendere più efficiente la sua capacità di trasformazione. Insomma «se c'è un'annata in cui il vaccino non andrebbe consigliato» conclude Burgio «è proprio quella di una possibile pandemia».

Per difendersi dalla spagnola, così come per gestire qualsiasi tipo di epidemia, non ci sono "proiettili magici" o cure miracolose. E' necessaria una rete sanitaria efficiente e ramificata, in grado di contenere e di gestire l'eventuale emergenza. Ci vogliono, come suggerisce Burgio, corsie preferenziali per i cittadini che presentano sintomi sospetti, e centri regionali di specializzazione dotati di laboratori con massimo livello di bio-sicurezza per isolare e studiare il virus. Ci vuole personale medico e paramedico abbondante e addestrato per contenere l'epidemia e dare il tempo al virus di evolversi in una forma meno letale, secondo il percorso naturale dei patogeni. C'è bisogno insomma proprio di quel sistema sanitario nazionale che, negli ultimi anni, si è tentato in tutti i modi di smantellare.

Sabina Morandi
Roma, 6 ottobre 2005
da "Liberazione"