Siglato un megaffare: la Amgen si appresta a incorporare la Immunex

Il biotech salvato dall'antrace

Come le multinazionali della genetica hanno approfittato dell'allarme terrorismo.
Il ruolo delle piccole società e del capitale speculativo: dal laboratorio al boom in borsa

C'è gran fermento in casa biotech. La Amgen, la più grande compagnia biotecnologica del mondo, si avvia a incorporare la Immunex, azienda specializzata in prodotti anti-artrite.
Anche se l'affare non è ancora concluso il suo semplice annuncio rassicurerà gli azionisti abituati a un 20 per cento annuo di crescita da parte dell'azienda. Nel frattempo MedImmune ha annunciato l'acquisto della Aviron mentre Millennium Pharmaceuticals si accinge a mettere le mani sulla Cor Therapeutics.
Le fusioni, comuni nel mondo della grande industria farmaceutica - meglio nota come big pharma - sono più rare nel biotech e, dopo due anni di crisi, fanno notizia. Ma per spiegare l'inversione di tendenza che ha stupito gli analisti economici, conviene fare un passo indietro.

Capitalisti di ventura

Si chiamano Venture capital society le cosiddette "finanziarie ad alto rischio" specializzate nelle puntate più ardite. Sono state loro il motore del boom di internet e, ancora prima, sono state loro a foraggiare il successo del biotech.
Dove c'è puzza di buoni affari, rendite del trenta, quaranta per cento a stretto giro di posta, lì si tuffano le Venture capital.
Ma come fare a decidere se investire quando il distinto signore che hai di fronte parla in genetichese stretto?
Niente paura. Ai margini delle finanziarie che gestiscono capitali speculativi fioriscono piccole società di consulenza come la Bio Venture Consultants, fondata dalla spumeggiante autrice di From Alchemy to IPO ovvero "Dall'alchimia all'Opa ", l'offerta pubblica d'acquisto che sancisce l'entrata in borsa.
La dottoressa Cynthia Robbins-Roth di San Mateo, California, ha avuto davvero una bella idea che le ha valso l'entrata, sancita da Forbes, fra le 25 "stelle del biotech" del '99, ma ha anche il merito di parlare molto chiaro nel suo manuale rivolto a chi vuole farsi un giro alla roulette del mercato azionario puntando sul transgenico.
L'importante, scrive la consulente, è capire il tipo di rapporto che intercorre fra big pharma e società biotecnologiche. Salvo rare eccezioni le aziende biotech sono delle "start up" ovvero delle piccole società, povere ma creative che si concentrano su di un solo prodotto con il quale sperano di fare il colpo grosso.
Mentre i grandi marchi farmaceutici lavorano sul sicuro, le società biotech puntano sul nuovo con il quale sperano di attirare l'attenzione delle finanziarie speculative o delle grandi, cui sperano di vendere le proprie idee.
L'obiettivo è fare il grande salto, ovvero di "diventare pubbliche" e quotarsi sul mercato azionario. Una volta entrati in borsa si può smettere di sudare sulle provette.
Basta avere un canale diretto con i media e si possono far soldi senza bisogno che la medicina arrivi sul mercato.
Quanto sia importante un amico giornalista lo dimostra Gina Kolata, potentissima responsabile della pagina scientifica del New York Times.
Grazie a una prosa farcita di punti esclamativi, aggettivi esuberanti e titolazione esplosiva, la giornalista ha trasformato una storia di esperimenti sui topi in un propellente micidiale: le azioni della Entremed sono passate da 12 a 85 dollari nello spazio di un mattino, il tutto per un farmaco che, se tutto va bene, potrebbe entrare in commercio fra dieci anni.
E' proprio per questo tipo di giochetti - come si può immaginare alquanto redditizi - che la giornalista ha avuto qualche problema legale. Niente, naturalmente, che i milioni di dollari da lei guadagnati nel corso della sua attività borsistica non possano risolvere.

Spese pubbliche e profitti privati

In principio fu la Genentech. Il 14 ottobre 1980 la società venne quotata in borsa quando ancora non produceva niente.
In appena venti minuti, e contro ogni previsione degli esperti, le sue azioni passarono da 35 a 89 dollari l'una.
Genentech cominciò a produrre farmaci solo 4 anni dopo: l'insulina poi il discusso ormone della crescita umana e, infine, l'interferone per la cura dell'epatite.
Stranamente però proprio quando l'attività sembra avviata la Genentech comincia a perdere colpi.
Come mai? Secondo la Robbins-Roth è colpa dei progressi della conoscenza scientifica perché «non è difficile vendere una molecola quando nessuno ne sa niente. E' quando cominciano ad arrivare dei dati che la gente non crede più alla cura miracolosa». Altra storiella edificante riguarda proprio la Amgen che, prima dell'annunciata espansione contava già 5000 dipendenti e un giro d'affari di 2,7 miliardi di dollari l'anno.
L'idea di partenza dell'azienda, fondata nel '79, fu quella mettere dei manager provenienti dalla finanza speculativa insieme a dei ricercatori stanchi dei regolamenti accademici. Il nuovo settore ancora non regolamentato del biotech consentiva infatti di "sperimentare la propria creatività più visionaria senza noiose pastoie", come scrive la Robbins.
La liberalizzazione degli investimenti dei fondi pensione, che furono riversati nel promettente settore, fece il resto. Il prodotto che ha consentito alla Amgen di fare il grande salto, si chiama Epo, ovvero l'eritropoietina, il fattore di crescita dei globuli rossi che ogni tanto salta fuori dalle analisi degli atleti. Per sintetizzarlo l'azienda doveva disporre di grandi quantità della proteina naturale per sequenziarne il Dna e poi riprodurlo.
Ma la proteina si trova solo nell'urina umana e in modiche quantità. L'ostacolo venne aggirato grazie all'aiuto di una nota società chimica, la Dow, che fornì alla Amgen le sue interessanti relazioni internazionali in cambio di una partecipazione azionaria: in breve la Amgen poté disporre addirittura dei campioni di urina di un intero esercito.
Si tratta niente di meno che delle Forze Armate italiane sulle cui urine la più potente società biotech del mondo ha costruito la sua fortuna economica. Costo dell'operazione? Ufficialmente zero.
A meno che i ministri della Difesa italiani degli anni '81, ‘82 e '83 non ne sappiano qualche cosa. Negli ultimi due anni le società biotecnologiche avevano perso gran parte delle loro attrattive. I capitali di rischio hanno trovato in internet un modo ancor più veloce di fare soldi, senza dovere nemmeno aspettare che il prodotto - la cura miracolosa, il test o quant'altro - imbocchi almeno la strada della sperimentazione animale, ovvero il primissimo stadio del lungo percorso di verifica dell'efficacia e della non tossicità di un farmaco.
Alcuni gravi scandali hanno inoltre costretto gli organismi di controllo, come la Fda statunitense, a essere più prudenti nelle autorizzazioni. E, alla fin fine, per una "rivoluzione" scientifica che ormai viaggia sui vent'anni, le innovazioni prodotte sono davvero ben poche: basti pensare agli incredibili progressi che la chirurgia ha fatto nel frattempo. Così, mentre gli analisti di borsa suonavano la campana a morto, l'arrivo dell'antrace è stato una vera benedizione.
Oltre a incrementare la domanda di antibiotici - di cui ha beneficiato big pharma - la paura del bio-terrorismo ha la giusta dose di virtualità necessaria al biotech per prosperare. Ecco allora i test per gli agenti biologici della Cepheid o quelli, elettronici, della Nanogen, oppure i test anti-virus della BioReliance. Ecco i vaccini biotecnologici della Dynport, della Acambis e il vaccino anti-antrace della BioPort.
Funzioneranno? In borsa certamente sì.

Sabina Morandi
Roma, 18 dicembre 2001
da "Liberazione"