lI giorno dopo il dolore non si attenua.
Anzi, alla giusta collera si aggiunge il freddo ragionare sulle nefaste conseguenze
che avrà l'inverosimile sentenza di Venezia. Lo sapevamo - noi comunisti più
di altri per un antico pregiudizio - che la via giudiziaria non porta quasi
mai alla verità e menchemeno alla giustizia sociale.
Ma che a raccontarcelo oggi sia persino Gianni De Michelis, ci arriva come
uno sberleffo. Né ci rincuora venire a sapere che indignazione vi è nei più
disparati settori; dai leghisti agli amministratori del centro destra, dai
sindacati moderati ad alcuni noti commentatori dei giornali filo-confindustriali.
Sentenze del genere sono peggio di niente: consegnano una patente di impunità
agli inquinatori di tutte le risme, conosciuti e potenziali.
Il danno immediato e futuro sarà grave per l'ambiente e per la salute pubblica.
Forse è per questo peso che si porta appresso che il presidente del tribunale
Ivano Nelson Salvarani ha sentito il dovere di anticipare ai giornalisti,
in una conferenza stampa fuori d'ordinanza, le sue ragioni. Ma le sue giustificazioni
non mi sembrano francamente convincenti:
«Noi siamo solo dei giudici e abbiamo fatto il nostro lavoro. Abbiamo giudicato applicando il diritto penale. Non siamo dei politici e nemmeno degli storici».
Una frase due volte falsa, poiché fa intendere che i tribunali non avrebbero
alcuna discrezionalità nell'applicare le pur lacunose leggi dello stato italiano
(ovvero, che il lavoro dei vari Casson, Schiesaro, Ramacci… per non citare
Amendola e tanti altri magistrati che interpretano diversamente da lui i codici,
sarebbe da incompetenti), secondariamente perché finge di non sapere che tra
politica, storia e giustizia - nella sacrosanta separatezza dei poteri e autonomia
dei ruoli - ci sono sempre forti, reciproche influenze. Solo che a volte vanno
nella direzione di migliorare le tutele degli interessi comuni e dei diritti
delle persone, altre volte in quella opposta delle grandi industrie e dei
loro padroni.
Una sentenza, quindi, culturalmente di retroguardia - se vogliamo dare un
parere da “storici” -, concretamente reazionaria, se invece vogliamo esprimerci
da amministratori pubblici.
Il giudice, ad esempio, è arrivato ad affermare che:
«Lo stato attuale di contaminazione dei canali industriali e dei pesci, pur rilevante, non costituisce pericolo reale per la salute pubblica»,
contraddicendo quanto da anni stanno facendo tutti i poteri dello Stato che hanno proibito la pesca e avviato colossali opere di messa in sicurezza, di disinquinamento e di bonifica di tutti i siti contaminati dagli scariche e dalle percolazioni delle industrie di Porto Marghera. Gli amministratori pubblici verranno denunciati per «procurato falso allarme» o per «distrazione di denaro pubblico»?
Ma la questione più rilevante per il futuro di tutte le lotte per la salute
e l'ambiente è la questione dell'evidenza scientifica del nesso causale.
Secondo i giudici, i responsabili della Montedison si sono salvati perché,
fino ad una certa data, non era espressamente vietata la manipolazione e la
respirazione di quella specifica sostanza cancerogena.
E, dopo quella data, deve essere ancora dimostrato che sia morto qualcuno.
Siamo al rovesciamento del principio precauzionale, al capovolgimento di ogni
razionalità logica ed umana: l'onere della prova non spetta a chi mette in
produzione o in commercio sostanze nocive, ma alle vittime stesse, sempre
che riescano a «produrre in giudizio» le loro piaghe.
Un giro vizioso di impunità, in cui gli operai (ma anche gli abitanti di un
territorio) contano meno delle cavie; almeno la salute delle bestie da laboratorio
è monitorata. Gli operai esposti al cloruro di vinile hanno incominciato le
visite e le cure (gratuite) solo dopo l'avvio del processo. In questo almeno,
giudice Salvarani, si dovrà contraddire e concorderà con noi, il processo
non è stato inutile.