Intervista al presidente della Commissione di bioetica.

Giovanni Berlinguer «Le regole danno impulso alla ricerca».

Dal momento che, con l'iniziativa degli scienziati e ricercatori schierati «contro l'oscurantismo» sul transgenico, si è "scoperto" il tema della libertà della ricerca e quello complementare del controllo, il professor Giovanni Berlinguer, presidente della Commissione di bioetica, è una delle voci più competenti. A lui abbiamo chiesto di aiutarci a capire.

Anzitutto: professore, cosa pensa dell'appello di questi scienziati e ricercatori?

lo penso che ci sia una critica giusta verso una decisione politica di fermare molte ricerche in corso. E' assurdo porre limiti al sapere: ma da almeno 50 anni gli scienziati stessi e poi le leggi hanno costruito un sistema di regole sui metodi che usa la scienza. E poi ci sono regole, scopi, orientamenti che la politica promuove verso questa o quell'applicazione delle conoscenze scientifiche. Attraverso queste regole e questi orientamenti la scienza si è affermata più di prima: proprio perché intorno ad essa si è costruita, nella trasparenza, una vasta area di consenso sociale. Non c'è stato un freno, ma un impulso.

Parliamo dell'oggetto specifico della contesa: qui si tratta di ricerca applicata, e di ricerca sugli Organismi geneticamente modificati...

Riflettevo sull'articolo che ha scritto Dulbecco stamani, molto bello, su la Repubblica", a proposito della decifrazione del genoma umano. E' pieno di oneste affermazioni, sostenute da "non sappiamo... ": non sappiamo quanti siano i geni, quante siano le proteine codificate, quali azioni multiple abbiano i geni, quali effetti avrebbe una loro modificazione. Allora, se qualcuno comincia a dire: "modifichiamo questo gene e guariremo questa malattia", si dovrebbe guardare con cautela a quest'affermazione. E poi: di terapia genica si parla da 10 anni ma i risultati sono minimi e ci sono più effetti avversi o anche letali che guarigioni. Ciò non significa che bisogna bloccare la scienza, ma che deve progredire ulteriormente. Credo che un ragionamento analogo valga anche per gli organismi transgenici. Questi possono rappresentare un grande progresso: non è da questo, però, che ci si può attendere la soluzione del problema della fame. Nel mondo si produce più cibo di quanto se ne possa consumare: il problema è di distribuzione, di giustizia.

A proposito di regole: la discussione internazionale sulle nuove frontiere cui applicarle, soprattutto nei campi aperti dal "biotech" non investe il legame tra ricerca e profitto?

I primi limiti e le prime linee guida sono stati posti dal codice di Norimberga in rapporto all'esigenza di rispettare gli esseri umani, la loro libertà e la loro dignità. Successivamente ne sono stati introdotti anche per la sperimentazione animale. Ora sorge un problema nuovo: sperimentare su vegetali può produrre modifiche delle piante e delle loro relazioni con l'ambiente, che si diffondono al di là del campo strettamente sperimentale. Su questo bisogna esercitare un controllo: che non è politico, ma scientifico. Così come deve esserci un controllo sugli effetti degli Ogm sull'alimentazione e sulla salute umana. lì primo controllo deve essere dei cittadini, ognuno deve sapere quel che mangia: sia per una questione di libertà, sia perché altrimenti sarebbe impossibile stabilire chi ha mangiato che cosa e dunque, nel caso ci fosse un delitto di avvelenamento, scomparirebbe perfino la vittima. Attualmente, non c'è nessun segnale che indichi che questi cibi provochino danno. E' una ragione in più per rendere incomprensibile l'atteggiamento delle imprese agro industriali, che si oppongono negli Usa all'etichettatura. Si vantano in altri campi le leggi del mercato e in questo ci si oppone alla descrizione della merce.

Ma tutto ciò rischia, in Italia, dl essere oscurato dal puro inseguimento elettorale dl quell'appello: la comunità scientifica italiana è matura per un protagonismo davvero responsabile?

La comunità scientifica italiana è anzi tutto insufficiente e spesso migrante. Il primo problema è moltiplicare le risorse a disposizione della ricerca in tutti i campi. Si dice che questo è necessario perché siamo in un sistema competitivo: ma lo è soprattutto per elevare il nostro livello culturale. La comunità scientifica italiana è valida, in molti campi: e fa bene a far sentire la sua voce...

Eppure Marcello Cini è stato solo nel porre una domanda semplice e che invece appare provocatoria: perché, come scienziati, non si dà l'esempio e non si firma un appello contro la brevettazione dei geni?

lo concordo con Cini. Vedo con preoccupazione il fatto che il concetto di brevetto, finora applicabile alle invenzioni umane, cioè agli artefatti, si estende alle scoperte, cioè a quel che già esiste in natura. E che i brevetti si estendono alla natura dell'uomo: oggi alle sequenze del Dna, domani forse agli embrioni prodotti a scopo sperimentale. Naturalmente la ricerca deve essere incentivata: il che significa in primo luogo accrescere la ricerca pubblica. Senza, la collettività non sarebbe neanche in grado di sapere quel che accade e di esercitare un minimo controllo. E implica in secondo luogo premiare, anche coi brevetti, le positive innovazioni strumentali, tecniche.

Come si sente il presidente della Commissione di bioetica davanti al modo con cui i "poli" politici "scoprono" il biotech, sotto elezioni?

lì panorama della politica non è incoraggiante. Da un lato c'è l'operaio Berlusconi che si schiera con i premi Nobel, come si è schierato con gli allevatori delle mucche pazze. Dall'altro vi sono incertezze nel governo. Mi auguro che dopo questa scossa, certamente traumatica si ponga mano ad un programma di sviluppo della ricerca scientifica e d'orientamento delle sue applicazioni.

Anubi d'Avossa Lussurgiu
Roma, 14 febbraio 2001
da "Liberazione", 14 febbraio 2001.