Alcune questioni suscitate dalla vicenda della “classe islamica” alla scuola Gaetana Agnesi di Milano

La scuola della nazione

Velo islamico, crocefisso, multiculturalismo, classi islamiche

Le bambine e i bambini hanno una nazione? Il dibattito sul velo in Francia e quello sui crocefissi in Italia, le polemiche sul multiculturalismo e quelle sulla classe islamica al liceo Agnesi di Milano, si moltiplicano parallelamente all'irruzione sulla scena sociale dei figli degli immigrati. La loro identità nazionale non è ancora definita e, dunque, è contesa.  Di questa contesa la scuola rischia di divenire lo spazio privilegiato. Lo dimostrano alcuni episodi accaduti nello scorso anno scolastico: di seguito li esaminiamo per tentare alla fine una qualche sintesi sulla questione.

Il velo islamico

Dopo aspro dibattito il governo francese ha adottato una legge che vieta agli studenti di recarsi a scuola ostentando simboli religiosi. Formalmente la misura si rivolge a tutte le confessioni, nei fatti è stata varata per impedire che ragazze di fede islamica entrassero in classe con il velo. Spesso si è fatto ricorso alle “tradizioni di laicità” dello stato francese per spiegare questa legge. In realtà il “laico” stato francese riserva alle scuole private (quasi tutte cattoliche) un trattamento di assoluto favore, impensabile, per ora, in Italia: paga gli stipendi degli insegnanti delle scuole private, abbattendo così drasticamente il costo delle rette. E si tenga conto che il numero di studenti delle private francesi è ben superiore a quello italiano. Dopo un primo momento in cui sembrava che la legge dovesse applicarsi anche alle scuole private, il governo ha lasciato perdere e dunque: le scuole cattoliche francesi possono “ostentare”, quelle pubbliche, frequentate in massa dagli studenti di origine araba, No.

Si è detto che il divieto viene incontro ad una esigenza delle stesse ragazze, costrette dalla famiglia ad indossare il velo. Le ragazze islamiche però non sono certo le uniche a vedersi imporre dai genitori la maniera in cui vestire, e lo stato non ha varato alcuna legge per tutelare la libertà dei giovani di vestirsi come pare loro. Al contrario, discriminando le sole ragazze islamiche, lo stato francese sta già creando un riflesso “etnico”, una unità difensiva padri/figli che ostacolerà nelle famiglie islamiche la possibile e normale dialettica generazionale. Non difendiamo il velo, stiamo solo affermando che uno Stato come quello francese (o italiano) che tollera la più totale mercificazione del corpo femminile (dalla pubblicità ai programmi televisivi), non può farci credere di essere improvvisamente diventato “femminista”. La realtà è un'altra.

La decisione di proibire l'“ostentazione” di simboli religiosi in classe, come si sa, è scattata quando nel settembre dell'anno scorso salirono alla ribalta una serie di casi di ragazze che preferivano non andare a scuola pur di non rinunciare al velo.  Quel che il governo gaullista (ma anche gran parte della sinistra all'opposizione) vuole scoraggiare, è la possibilità che si costituisca un'identità nazionale “altra” rispetto a quella francese “classica”. La Francia è alle prese con una crescente fetta della popolazione di origine araba. Il riflesso “di pancia” della Francia profonda è Le Pen, che gli immigrati li vuol cacciar tutti, ma è una strada che i poteri forti e la borghesia “illuminata” non possono permettersi di intraprendere, dato che di manodopera a basso costo han pur bisogno. Vogliono però che il loro Stato continui a mantenere un sentimento nazionale unitario, cioè il loro. In quest'ottica “stato” e “nazione” sono due termini che in qualche modo devono esser fatti coincidere. E' anche la ragione per cui tutti i governi d'Oltralpe si sono sempre fortemente opposti a sia pur minime concessioni nei confronti delle minoranze nazionali “territoriali” (baschi, catalani, bretoni, corsi). Uno Stato al cui interno proliferano differenziazioni nazionali (a base linguistica, religiosa, o altro), specie nei momenti di crisi, può minare alla radice le sue ambizioni di grande potenza, che deve sempre garantirsi alle spalle una ferrea unità nazionale. La religione può essere un elemento culturale intorno al quale si produce una linea di rottura “nazionale” nella Francia di oggi, differenziando un gruppo sociale vasto, in espansione, demograficamente dinamico, coeso: quello degli “islamici” contrapposti ai “francesi doc”. Se questa separatezza culturale coincide con una omogenea condizione di classe, come ad esempio negli Usa è il caso degli afro americani, allora le preoccupazioni governative aumentano: le lotte dei neri americani hanno procurato scosse alla stabilità dello Stato Usa ben più consistenti dei tradizionali conflitti di “classe”. E le banlieux francesi piene di figli di immigrati sono sempre più simili ai ghetti neri statunitensi.

Quello del governo francese dunque è il disperato tentativo di ridimensionare il potenziale dell'islam come fattore di aggregazione etnica, per ridurlo a “normale” fatto di religione, così come in Germania da secoli la divisione dei tedeschi tra cattolici e protestanti non è causa di instabilità sistemica, nemmeno nei momenti di più grave crisi sociale. Ma proprio l'aver individuato gli islamici come “blocco” e come “problema”, senza averlo fatto per i cattolici là dove essi sono forti (le scuole private), caratterizza quella legge come un'operazione che non è “neutra” sul piano culturale: è l'azione della nazione dominante, “francese doc” - laica o cattolica, ma bianca e senza ascendenze arabe. Come accaduto innumerevoli altre volte nella storia, ciò innescherà una reazione difensiva “etnica”, aumentando la capacità unificante dell'islam sul suolo di Francia, incoraggiando a considerare la religione un utile “cappello” per ripararsi dall'offensiva di chi discrimina sul piano della distribuzione del reddito e del potere all'interno della società. Soffermiamoci in breve su questo fenomeno sociologico.

Un gruppo etnico individua se stesso come gruppo “separato” dagli altri in due casi: quando deve mantenere dei privilegi dall'“invasione” territoriale di altri gruppi, o quando deve difendersi dagli attacchi degli altri. La spinta identitaria cioè può essere “offensiva” o “difensiva”. Senza scontro tra etnie l'identità etnica di un individuo è estremamente vaga, e comunque non viene vissuta in contrapposizione a quella degli altri. Quando un immigrato algerino arriva in Francia, spontaneamente cerca di inserirsi in quella società, perché trova ciò conveniente sul piano materiale. Ma nel momento in cui gli “autoctoni”, lo individuano come problema, perché parte di un gruppo separato, concorrente sul piano della distribuzione del reddito e di altre prerogative, la sua reazione sarà quella di coalizzarsi insieme a tutti coloro che condividono la stessa condizione di discriminazione. Oggi il tratto identitario individuato come “pericoloso” dall'etnia dominante in Francia e in tutto l'Occidente è quello “islamico”. Ma se l'elemento caratterizzante fosse stato l'essere “arabo” stiamo pur certi che ciò avrebbe provocato un agglutinamento identitario difensivo intorno all'elemento linguistico e culturale arabo. Il problema non è la crescita dell'islam in Francia: al contrario, è il crescere dell'ostilità anti islamica in Occidente che crea una reazione difensiva identitaria uguale e contraria.

La questione del crocefisso

Si ricorderanno le polemiche sul crocefisso nelle aule scolastiche e l'“incoraggiamento” della Moratti alla sua diffusione. Nel mese rovente di quel dibattito i sondaggi mostravano l'esistenza di una sorta di isteria collettiva degli “italiani” in difesa del “proprio” simbolo religioso. Le apparenze sembrerebbero indicare che si tratta di un caso diverso dal quello francese: là un governo scoraggia l'ostentazione religiosa, qui un altro fa l'opposto. Non è così.

Come abbiamo visto, quella francese è una legge “anti islam”, in uno Stato il cui carattere nazionale dominante, e la corrispettiva ambizione di potenza, non è dato dalla religione. Il compromesso di potere dello stato francese di impronta gaullista si basa sul fatto che alle scuole cattoliche si passano un mucchio di soldi, in cambio di una non interferenza della Chiesa nelle questioni politiche. Al contrario lo stato italiano si è strutturato intorno ad un compromesso con la chiesa cattolica che perdura in maniera ininterrotta dal fascismo, e che assegna a quella religione una serie di privilegi “monopolistici” (economici, fiscali, culturali, ecc.), in cambio di una interferenza positiva, cioè di un appoggio attivo, nei confronti delle “élites” politiche. Questo scambio è alla base del carattere largamente formale della laicità del nostro Stato. Per questo la religione cattolica è considerata dai più un dato fondante dell'identità “nazionale” italiana. Gli stessi ebrei italiani ne fanno le spese: periodici sondaggi ribadiscono come per una parte consistente dei nostri cittadini, essere “ebrei” è cosa diversa dall'essere “italiani”. Viviamo in uno stato “laico” dove i bambini sono costretti sin dalla materna a due ore di catechismo cattolico. L'ora alternativa è una farsa: i genitori intenzionati ad avvalersene sanno per esperienza come sia penoso per un bambino essere separato dai propri compagni per non fare, nella gran parte dei casi, nulla, dato che tante scuole non si preoccupano o non hanno la possibilità di proporre alternative vere.

Del crocefisso in sé, alla gran parte degli italiani (di cui non più del 15% frequenta la Messa) non importa un bel nulla. Quindi, dal punto di vista “morale”, si tratta di una difesa oscena, perché scollegata da qualsiasi valore evangelico realmente vissuto e condiviso. L'insurrezione a favore del crocefisso c'è ora e non c'è stato prima (quando pure il crocefisso era assente da tante scuole) perché prima “gli altri” (gli immigrati, gli arabi, l'islam) non c'erano. Imporre il crocefisso significa da parte degli “italiani” affermare: questa scuola è “nostra”, è la scuola degli “italiani”. E' una reazione “etnica”, tribale. E' la difesa dei confini territoriali della “nostra” tribù, da quelli degli “altri”.  Del resto il governo italiano è quello che in sede europea più si è battuto perché nella Costituzione UE fosse indicata l'origine cristiana delle radici europee. E non è solo colpa di Berlusconi, sappiamo che anche parte del centrosinistra avrebbe accondisceso alle richieste vaticane.

Proprio per la problematica “etnica” che sta dietro alla questione “crocefisso” anche quotidiani “laici” come il Corriere della Sera hanno preso seccamente posizione a favore della sua affissione in ogni dove. Ernesto Galli Della Loggia e Angelo Panebianco, due tra i maggiori editorialisti del quotidiano di Via Solferino, ragionano da tempo sulle caratteristiche della “identità italiana”, insieme ad altri “pensatoi”, come ad esempio l'equipe della rivista Limes. Si chiedono come mai l'Italia, pur avendone tutte le potenzialità, non sia ancora uno Stato potente quanto la Francia o il Regno Unito o la Germania. La conclusione alla quale sono giunti è che la causa risiede nella debolezza dell'identità italiana. Troppe volte, dicono, l'Italia si è divisa nei momenti cruciali tra “guelfi e ghibellini”, troppo timidi siamo nel dar valore alla “difesa dell'interesse nazionale”. L'identità francese è data dall'assunzione, per intero, di tutta la sua storia e dalla lingua, quella tedesca dalla sua territorialità e dalla sua lingua, ecc. Queste identità “forti”, dicono, rendono più concrete la proiezione di potenza dei loro Stati, perché nei momenti di crisi essi non si dividono, e uniti affrontano la sfida nei confronti degli altri stati-nazione. Dunque, secondo questi intellettuali, l'elemento portante della debole identità nazionale italiana non può essere la sua storia perché “divide” (ragion per cui Panebianco all'epoca del governo di centrosinistra aveva fatto fuoco e fiamme contro lo studio del Novecento a scuola), e nemmeno la lingua, in un Paese in cui fino a cinquant'anni fa la gran parte della gente parlava in dialetto. Per questo, secondo loro, la religione cattolica non può che essere un elemento essenziale di definizione dell'“italianità”. Si badi bene: da parte di costoro non vi è alcun autentico interesse spirituale. Del cristianesimo e dei suoi valori non interessa loro proprio un bel nulla. Anzi: polemizzano spesso con la Chiesa quando questa, preoccupata dei suoi interessi globali (perché la Chiesa non sta solo in Italia, e dunque non ha intenzione di legarsi ai destini di una sola nazione), prende posizione contro la guerra. In maniera un po' più rozza e più stupida, anche la Moratti si pone gli stessi obiettivi, e li traduce in decreto: si ricorderà che la sua legge di riforma prevede lo studio della civiltà italiana, europea e... basta.

La logica che presiede al divieto del velo in Francia, dunque, è assolutamente identica a quella dell'imposizione del crocefisso in Italia. Per farla breve qui non si è vietato il velo perché il crocefisso, nella guerra dei simboli che caratterizza ogni scontro “etnico”, è stato incaricato di “proteggere” la nostra identità.

Le polemiche contro il multiculturalismo

La stessa logica può spiegare gli attacchi nei confronti delle esperienze didattiche “multiculturali”. E' bene soffermarsi sul termine “multiculturale”, che non coincide con quello di “integrazione”. Una politica che sia solo di “integrazione”, deve essere definita in realtà come “assimilazionista”: essa considera il bambino immigrato una sorta di tabula rasa, sulla quale costruire un'identità, la nostra, in modo che possa “come noi”, integrarsi nella società, cioè nella “nostra” società. L'approccio multiculturale invece ingloba il concetto di integrazione (è importante dare al bambino immigrato tutti gli strumenti per comprendere e dialogare con la società che lo circonda), ma lo supera in avanti: ritiene il bambino immigrato un portatore di un'altra cultura, valorizza questa “bi culturalità”, e la considera una risorsa per tutti.

Sulla questione, Ernesto Galli della Loggia il 9 luglio aveva scritto un editoriale sul Corriere della Sera dal titolo: “Il pregiudizio multi culturale”.  Se la prendeva con l'assessore all'istruzione della Regione Campania, Angela Buffardi, che qualche giorno prima aveva difeso la possibilità per le scuole campane di chiudere anche in occasione delle festività “straniere” (Capodanno cinese, fine del Ramadan, ecc.). E scriveva: “E' lecito che la scuola pubblica italiana abbia come scopo primario la trasmissione a tutti i suoi studenti - anche a quelli provenienti da altre culture - dei fondamenti della cultura italiana e occidentale in genere, dei caratteri basilari dell'identità culturale italiana? E se sì, non è forse vero che a definire una cultura concorrono in maniera decisiva le feste, le ricorrenze simboliche collettive in cui essa tradizionalmente si riconosce? E che dunque in una scuola italiana è perfettamente sensato che le feste riconosciute siano quelle della tradizione italiana?”. La sostanza dell'argomentazione è che noi italiani e occidentali abbiamo troppa difficoltà ad ammettere quel che sarebbe evidente: la superiorità della nostra cultura su quella di tutti gli “altri”, per questo Galli della Loggia attaccava il “luogo comune multiculturale” secondo il quale “le differenze tra culture, pur evidentissime, non possono mai essere considerate come differenze valoriali” e che sulle culture “è vietato esprimere qualunque giudizio di valore”. E prosegue con esempi involontariamente anche un po' comici: “Una cultura che ha elaborato la categoria della divisione dei poteri è migliore (sì, migliore) di una che non conosce questa categoria” come sarebbe appunto quella islamica. Il che, detta nel regno di Berlusconi...

Anche la chiesa cattolica, nelle sue varie correnti interne, è globalmente allarmata da tutto il fenomeno islam e si allinea dunque in generale agli attacchi al multiculturalismo, ma con altri scopi. Il suo fine non è quello di rafforzare lo “stato-nazione” d'Italia in vista dei suoi grandi destini, dato che si tratta di una religione con ambizioni planetarie, ma più semplicemente quello di continuare a garantirsi la rendita di profitto, che le deriva dall'essere considerata parte integrante della identità italiana. Per questo contro la giunta campana, e dunque contro la legittimazione di feste non cristiane, si sono espressi duramente tanti esponenti cattolici, dal cardinale Ersilio Tonini ad Antonio Riboldi (“non si impongono a tutti i diritti di pochi”).

Gli stessi attacchi (Panebianco sul Corriere) li hanno subiti anche quelle pochissime esperienze didattiche che favoriscono l'insegnamento dell'arabo nelle scuole a forte immigrazione. Lo spirito di questi attacchi è simile a quello che hanno ispirato la campagna che in Usa sta portando allo smantellando uno dopo l'altro di tutti i programmi scolastici bilingue inglese - spagnolo. Agli stranieri dunque si chiede rapidamente di rinunciare alla propria cultura, in ogni suo aspetto, di spogliarsi della propria identità e di assumere la nostra. Lingua o religione, è lo stesso: sotto accusa è qualsiasi elemento identitario che incoraggi la formazione di un gruppo “altro”.

La vicenda della “classe islamica” all'Agnesi

All'inizio di luglio il preside del Liceo di scienze sociali “Gaetana Agnesi” di Milano annunciava che a settembre avrebbe istituito una classe riservata soltanto a musulmani, provenienti dalla scuola islamica di Via Quaranta, su richiesta dei loro genitori. Ci sarebbe stata una classe di soli islamici in una scuola di classi “miste”. Come risulta chiaro dalle interviste rilasciate poi ai giornali, sia il preside che gli insegnanti della scuola erano animati dalle migliori intenzioni: per loro si trattava di evitare che quel gruppo di ragazzi e soprattutto ragazze smettessero di studiare. Questi operatori scolastici si rendevano conto che la soluzione non era la migliore, ma solo ottemperando alle condizioni poste dalle famiglie poteva essere garantita la prosecuzione degli studi. Chi fa scuola sa che in una situazione di progressivo sfascio della scuola pubblica, gli operatori scolastici sono spesso costretti a mettere “pezze” in un precario equilibrio, tra norme, abbandono, famiglie, esigenze e diritti dei bambini. La scelta però era sbagliata e lo si deve dire in termini molto netti.

La separazione non è certo un approccio “multiculturale”: quest'ultimo avrebbe previsto una revisione dei programmi, l'insegnamento dell'arabo, e la presenza anche di alunni italiani in modo da garantire lo “scambio” e il confronto tra diversi. Nel progetto dell'Agnesi invece i programmi sarebbero stati identici a quelli delle altre classi, e l'unico elemento caratterizzante sarebbe stato l'isolamento degli islamici da tutti gli altri. Anche se a volte strumentalmente, non del tutto a torto si è parlato di “classe ghetto”. Questo progetto avrebbe creato un pericoloso precedente. La classe nasceva sulla base di un aut aut da parte dei genitori (“o classe separata o mio figlio sta a casa”): la generalizzazione di questo metodo porterebbe a disastri. Non solo ogni corrente religiosa richiederebbe la “propria” classe, ma prima o poi salterebbero fuori anche i genitori che assicurerebbero l'iscrizione dei propri figli a quel certo istituto “solo se” fosse loro garantita una classe di “bravi”, o dove non vi fossero stranieri. Sappiamo che esistono forme anche molto sottili, e che vengono usate da tante scuole, per “differenziare” una classe, e farla diventare quella “privilegiata”. In altre, all'opposto, sappiamo che stanno crescendo le tentazioni di istituire la classe degli “stranieri”, per concentrare le difficoltà in un solo spazio, e “liberare” gli altri. In poche parole le motivazioni alla base dell'intervento erano buone, la soluzione trovata: pessima.

Quel che è interessante della vicenda è però la reazione furibonda che il progetto ha scatenato. Una reazione “etnica”. La tribù degli italiani (bianchi e cristiani per “definizione”) si è sentita in pericolo: gli “altri” stanno alzando troppo la cresta. Si badi bene: un tale clima di mobilitazione da parte di certi partiti, quotidiani ed intellettuali non l'hanno creata le soppressioni di classi a tempo pieno, le scuole che cadono a pezzi, l'emergenza degli istituti di periferia. Su questi temi costoro non hanno mai speso una parola. La reazione dunque non ha nulla a che vedere con ansie di miglioramento dell'offerta della scuola pubblica. Essa ha un'impronta strettamente etnica, tribale. Anche se, come vedremo, sono state utilizzate spesso argomentazioni “di sinistra”.

A parte la Lega (che ha assunto in pieno la natura etnica del confronto esprimendo senza giri di parole la volontà di annientamento di tutto ciò che non è bianco e cristiano), tutte le reazioni hanno adottato argomentazioni “multi culturali” per deprecare il progetto: denunciavano dunque la classe-ghetto dell'Agnesi perché rinunciava allo “scambio” e al “confronto” culturale.Il carattere strumentale di queste affermazioni è risultato palese nel momento in cui costoro, mentre tessevano le doti dell'inter culturalità, difendevano allo stesso tempo il crocefisso nelle aule scolastiche. Infatti, l'unica “novità” della classe con alunni islamici era l'assenza del crocefisso dalle pareti scolastiche. E ciò ha contribuito grandemente ad allarmare i più, proprio perché simbolicamente rappresentava la rinuncia dello Stato a catechizzare, e dunque a rendere “italiano” chi frequentava quella classe. Anche settori normalmente impegnati sul fronte dello scambio inter religioso (Sant'Egidio, Comunità di Bose, vedi Corriere del 12 luglio) condannavano allo stesso tempo la classe di soli islamici e la possibilità che il crocefisso venisse staccato. Tali prese di posizione incoraggiano chiunque non si riconosce nel mix di elementi culturali che qualcuno ha deciso debba considerarsi “tipicamente italiano”, a pensare che la multiculturalità va bene solo se è unidirezionale. Va bene per costringere gli “altri” a fare i conti con la “nostra cultura”, va male quando le altre culture devono essere trattate alla pari con la nostra.

Anche Claudio Magris in un lungo intervento del 12 luglio sul Corriere dal titolo “Gli auto segregati nella scuola di tutti” non si sottrae alla logica in base alla quale i simboli degli altri sono sempre pericolosi e denunciano volontà di separazione, mentre i propri esprimerebbero valori universalistici. Magris enuncia all'inizio del suo pezzo tutta una serie di argomentazioni del tutto condivisibili del tipo: “La scuola non ha da insegnare a credere in Cristo o in Maometto, ma dovrebbe contribuire a formare un individuo capace di accostarsi liberamente e spiritualmente ai grandi interrogativi dell'esistenza” e “La scuola non può che essere laica, perché laico indica colui che credente o ateo sa distinguere ciò che compete alla ragione, ciò che riguarda la Chiesa e ciò che riguarda lo Stato”, poi imprevedibilmente afferma: “Solo una mente ottusa può scandalizzarsi che in una scuola del nostro Paese ci sia un crocefisso, perché il cristianesimo, come diceva un non credente quale Benedetto Croce, fa parte della nostra civiltà, a prescindere dalle nostre opinioni. Sarebbe un intollerabile sopruso costringere gli scolari alla devozione nei confronti di quel crocefisso, ma lì appeso al muro, esso non fa male a nessuno”. Proviamo a immaginare l'arabo che ha letto quell'articolo: come può evitare di pensare che tutta la tirata laicista era dedicata a tenere alla larga la sua identità, ma solo per garantire, in chiusura, col simbolo del crocefisso, il carattere uni etnico della scuola? L'affermazione che il crocefisso “non fa male a nessuno” è di una volgarità senza limiti. Se si pensa che come simbolo valga poco non si capisce perché farne argomento da crociata, se lo si carica di significati simbolici, i nostri, non ci si può stupire che altri, di altre culture ed altri simboli, non vi si riconoscano. Il problema per i difensori della tribù bianca, occidentale e cristiana è che la nostra identità culturale deve assolutamente essere accettata e fatta propria dagli “altri”. Magris, significativamente, conclude: “Gesù non ha fondato una loggia esclusiva ma ha mandato gli apostoli ad annunciare, senza imporla, la Buona Novella. Quegli alunni auto segregazionisti dell'Agnesi dovrebbero sapere che quell'uomo crocefisso, che essi hanno fatto togliere, per la loro religione è un grande profeta da venerare”.

Dietro alla guerra dei simboli c'è, anche in Italia, un'enorme partita che riguarda i destini della “nazione”. Gli “italiani” di figli ne fanno pochini e l'aumento demografico (fondamentale attributo di potenza) della “nazione” è affidato ... agli immigrati di altre nazioni. Questi figli devono essere rapidamente assimilati, cioè “italianizzati” e la scuola diventa il terreno privilegiato di questa sfida. Vi sono negli istituti italiani 232.766 alunni stranieri, provenienti da 189 paesi diversi.  Tra il 2001/2002 e il 2002/2003 vi è stato un aumento del 28% di alunni stranieri. Il 16 luglio sul Corriere il professor Giancarlo Blangiardo, demografo della Bicocca, affermava: “Gli italiani scompariranno? Bisogna decidersi su che cosa s'intende per italiano. La partita si gioca sulle seconde generazioni. Se un bambino di origine marocchina nasce in Italia, tifa per la squadra di calcio locale, ha l'accento del luogo dove vive, va a scuola con i figli degli italiani, è italiano a tutti gli effetti. Se sapremo valorizzare l'apporto demografico in termini di seconda generazione, l'italiano non scomparirà affatto, anche se avrà la pelle scura”. La partita cioè è quella di utilizzare le capacità prolifiche degli immigrati, imponendo però la nostra identità culturale ai loro figli. Perché solo così, come dicevamo più sopra, si rafforza l'unità dello stato-nazione. Gaspare Barbiellini Amidei ha scritto sul Corriere: “La via dell'auto segregazione è civilmente disastrosa per un Paese che affida agli immigrati la propria sopravvivenza demografica. Ma che cosa facciamo, vogliamo allevare centinaia di migliaia di giovani esclusi dal metabolismo nazionale?”.

Un'ulteriore dimostrazione che ad animare l'opposizione alla classe con allievi islamici sia stata una reazione etnica, sta negli accadimenti successivi alla bocciatura del progetto da parte della Moratti a metà luglio. A quel punto infatti le comunità islamiche hanno cominciato a progettare proprie scuole parificate. Non è una reazione che condividiamo per le ragioni che diremo più sotto, ma essa nasce da una lettura assolutamente corretta dei fatti di luglio, una lettura “etnica”. A quel punto però si è creato ulteriore scompiglio tra le fila degli oppositori del progetto dell'Agnesi: infatti, se gli islamici creano le “loro” scuole, come farà la tribù dominante ad italianizzarne i figli? Gli allarmati sono stati così costretti ad utilizzare argomentazioni che rasentano il ridicolo: si tratta infatti della stessa gente che a suo tempo è scesa in campo a favore del finanziamento alle scuole private cattoliche, e che ora, improvvisamente, scopre le virtù della scuola pubblica. Ecco cosa scrive sul Corriere, tra i tanti, Barbiellini Amidei: “Una scuola paritaria confessionale finisce per negare ai ragazzi il confronto con il pensiero altrui, il colloquio con coetanei di altre culture e fedi”.  Eppure la logica che presiede alle scuole private cattoliche è assolutamente identica: i genitori impongono ai propri figli l'iscrizione a quelle scuole, proprio per tenerli separati dagli altri e dalla contaminazione con altri sistemi valoriali. Quando chiedono soldi alle private, le associazioni cattoliche invocano la “libertà di scelta” da parte delle famiglie. Bene: se il principio è questo, perché tale “libertà” non dovrebbe valere per le famiglie islamiche? Due pesi e due misure. Sergio Romano, il 20 luglio, sempre sul Corriere, utilizza argomentazioni più sofisticate. Non nega la possibilità legale che vengano istituite da gruppi islamici scuole parificate, così come del resto esistono quelle cattoliche, ma “consiglia” gli arabi di non farlo perché invece di “prepararsi ad affrontare la vita italiana, i ragazzi verranno nutriti di pregiudizi, allevati a ignorare le virtù del Paese che li ospita, predisposti a condurre una esistenza separata. Anziché ripagare i sacrifici dei loro genitori con un salto in su nella scala sociale, saranno condannati a restare nei gradini più bassi e a rifare il mestiere del padre”. Romano fa leva su quello che è il vero dramma delle famiglie immigrate, gran parte delle quali in realtà farebbe di tutto, anche rinunciare alla propria identità, pur di veder integrati i propri figli nella tribù del più forte. Ma anche questa strada è negata loro nei fatti, perché i tagli al welfare (che Romano ha sempre sostenuto) rendono impraticabili i consistenti investimenti che sarebbero necessari per quel tipo di politica. Ad esempio a Milano sono stati tagliati tutti i progetti per l'alfabetizzazione dei bambini stranieri.

Ma non è finita qua. Le associazioni islamiche le loro scuole ce le hanno e altre ne stanno istituendo anche senza la “parificazione”. E i loro alunni risultano dunque evadere l'obbligo. Accortisi del “trucco”, il fronte italo - cattolico, per la prima volta in Italia da anni, ha ricominciato a parlare di “obbligo scolastico”. Allarmati, i politici e i giornali hanno scoperto che a Milano ci sono 3000 bambini che non vanno a scuola. Evitano accuratamente di dire che la riforma Moratti vuole eliminare persino la dizione di “obbligo”, e che nell'attesa esso è stato portato da 15 a 14 anni. In poche parole senza la riforma Moratti i genitori dei ragazzi di Via Quaranta, come quelli di qualsiasi strada milanese, sarebbero stati “obbligati” a iscrivere i propri figli ad una scuola superiore. Il solito Barbiellini Amidei che ha sprecato fiumi d'inchiostro ad incensare la riforma Moratti, e dunque l'affossamento dell'obbligo, ha il coraggio di scrivere sul Corriere del 14 luglio: “Per chi vive con la famiglia in Italia far studiare i figli non è un optional, la scuola dell'obbligo ha soglie di età e sanzioni per le inadempienze”. Come si vede, anche la tematica progressista dell'obbligo, è utilizzata strumentalmente in chiave “etnica” per stringere in un angolo e non lasciare alcuna possibilità a chi è “straniero”: egli deve andare a scuola, vedersi imporre simboli che non gli appartengono, dimenticare la propria lingua, e solo agli italiani “veri” è concesso di potersi costruire proprie scuole private, anche se sono scandalosi diplomifici. L'importante è che il crocefisso sia ben saldo alla parete.

Conclusioni

Dobbiamo dircelo: questi temi disorientano le forze progressiste. Prevalgono tesi contraddittorie, imbarazzi, silenzi. Ci sono ragioni precise che lo spiegano, ma qui non ce ne occupiamo. Ci limitiamo a suggerire delle strade ad uso di chi vuole sottrarsi allo scontro tribale continuando a fare scuola, e non guerra con altri mezzi. Quando in ballo ci sono questioni “etniche”, le risposte devono essere nette, anche se si tratta di risposte difficili. Chi fa scuola deve domandarsi: da che parte sto? Sto dalla parte delle ambizioni di potenza dell'Italia e dell'Occidente, o dalla parte delle bambine e dei bambini, tutti? Curo gli interessi dello stato-nazione al quale appartengo, o quello dei miei allievi, che hanno tante nazioni?

a.

La questione dell'obbligo scolastico è centrale. Esso non è un retaggio della cultura occidentale, e tantomeno di quella italiana. Infatti, dopo la riforma Moratti, nel nostro Paese l'età dell'obbligo scolastico è inferiore a quella della gran parte dei Paesi arabi. Si tratta semplicemente di un diritto delle bambine e dei bambini. Essi sono portatori di diritti inalienabili, diritti che sono calpestati sistematicamente da tutte le culture. “Obbligo” significa innanzitutto che i figli non sono proprietà privata dei genitori, ma che l'intera comunità è responsabile del loro destino. La battaglia per l'innalzamento dell'obbligo deve tornare ad essere una priorità. Le scuole, anche quelle superiori, devono potersi riempire dei ragazzi di ogni colore. Naturalmente “obbligo” significa anche “gratuità”, altrimenti è solo una penalizzazione per le famiglie a reddito più basso, e tra queste ci sono gran parte delle famiglie straniere.

b.

Per i bambini stranieri l'impatto con la nostra società è terrificante. Non è solo un problema di differenze culturali, è che la precarietà materiale nella quale spesso si trovano non favorisce nemmeno la semplice comprensione di quel che sta loro accadendo. Le famiglie infatti, spesso spezzate, in crisi, impegnate in lavori estenuanti, ecc. non sono in grado di costituire un valido supporto, perché esse stesse mal integrate. Non vi è dubbio sul fatto che è interesse di questi bambini impadronirsi in maniera rapidissima della lingua italiana. Ciò consentirà loro di poter comunicare, e, anche, di poter rivendicare e protestare. Siamo colmi di rabbia quando pensiamo che lo stesso ministero che aveva inizialmente approvato il progetto della classe di alunni islamici è lo stesso che ha tagliato tutti i progetti di soccorso linguistico degli alunni stranieri a Milano. Centinaia di insegnanti milanesi erano distaccati sino a tre anni fa su progetti di inserimento. Oggi non ve ne sono più. E nelle scuole si consumano silenziosi drammi di centinaia di bambini costretti, senza nessuno che li aiuti, ad assistere a lezioni delle quali non comprendono una parola. Non si deve far ricorso a enti locali o al volontariato: si devono finanziare le scuole, perché chi insegna agli stranieri deve essere parte della vita della scuola, partecipare ai consigli di classe, contribuire alla elaborazione del POF (Piano dell'Offerta Formativa ndr). Per far ciò occorrono soldi e risorse alle scuole, non tagli.

c.

Allo stesso tempo però non è interesse del bambino immigrato perdere completamente l'identità nazionale d'origine. La perdita della padronanza della lingua madre è rapidissima senza che ciò coincida necessariamente con un proporzionale aumento delle competenze linguistiche in italiano, e ciò si traduce in una generale difficoltà a comunicare.  Questo bambino vive comunque con genitori, parenti, e reti di conoscenza non “italiani”. Nella scuola si trova in un ambiente diverso, completamente italianizzato. Un bambino che dal punto di vista identitario non sa più chi è, è una persona in difficoltà, anche sul piano degli apprendimenti. Per questo è importante valorizzare la sua cultura di origine, oltre che fargli conoscere quella di accoglienza. La scuola milanese ha dato vita a parecchie esperienze di questo tipo, in parte spazzate via dalla Moratti (ad esempio “Il mondo in un piatto di festa”). Grazie al putiferio suscitato dalla vicenda dell'Agnesi si sono potute conoscere esperienze interessanti, come quelle del circolo Ajello a Mazara del Vallo dove la comunità tunisina è molto forte: tutti i bambini anche quelli italiani possono scegliere di studiare l'arabo, fin dal primo anno, come lingua estera. E il crocefisso? Nelle aule, racconta il direttore, ci sono simboli di tutte le culture. Non è interesse della scuola, e di tutta la cittadinanza, che ci sia sempre più gente in grado di padroneggiare due lingue, invece di una? Perché demonizzare l'arabo, quando la riforma Moratti di lingue straniere da studiare fin dalle medie ne impone due? Perché spagnolo, francese e inglese sì, e cinese e arabo no nonostante vi sia ormai una utenza che potrebbe avvalersi di questa opportunità? Gli operatori della scuola non devono aspettare troppi permessi dall'alto per sollecitare e istituire corsi di arabo, cinese ed altro nelle scuole, per organizzare un calendario scolastico che preveda il rispetto delle festività ebraiche, arabe o cinesi, o per offrire sistematicamente unità didattiche, anche non inserite nei programmi ufficiali, che affrontino la storia e la cultura delle nazioni di origine degli alunni della propria classe.

d.

L'approccio multiculturale è interesse anche per le bambine e i bambini “italiani”. Vogliamo che i bambini italiani siano svegli o rimbambiti? Un bambino sveglio, in una società che aumenta grandemente la velocità di comunicazione, è un bambino che sa muoversi, abituato a trattare con persone di diversa provenienza ed estrazione, perché ne conosce la psicologia e i punti di vista, perché ci ha “vissuto” insieme. Un bambino che invece è sempre stato in un ghetto protetto, povero o ricco che sia, è un bambino impreparato ad affrontare la vita, specie la vita di metropoli che si avviano a divenire mosaici di popoli. E' la diversità, e dunque la possibilità continua di scegliere, che moltiplica il numero dei nostri neuroni, e scongiura la possibilità di diventare dei testoni. Per questo, come operatori della scuola, dobbiamo combattere sistematicamente la tentazione di creare classi omogenee, da ogni punto di vista: “distribuire e mescolare”, questa deve essere la nostra preoccupazione. Il meticciato fa bene ai nostri bambini.

e.

Chi fa scuola, e le rappresentanze politiche che intendono difendere la buona scuola, dovrebbe evitare delle espressioni che, anche se dette in buona fede e a fin di bene, finiscono per suonare alle orecchie non italiane, come frutto di arroganza culturale. La frase: “i valori della nostra cultura” non ha alcun senso. Le culture non hanno valori. I valori appartengono al mondo del pensiero astratto, le culture appartengono alla materialità dell'esistenza umana. Le culture non sono né positive né negative. Le culture sono dei fiumi in piena e in continua evoluzione. E dentro c'è di tutto. Negli anni cinquanta ad esempio nei Paesi dell'Africa del Nord l'elemento identitario maggioritario era quello della lingua: quelle popolazioni riconoscevano se stesse come “arabe” e “berbere”. Oggi, per ragioni tutte politiche e difensive, prevale l'elemento identitario islamico. L'elemento identitario cattolico era sparito dal nostro carattere nazionale sino alla prima metà del secolo scorso, è poi stato oggetto di disputa sino a dieci anni fa, e oggi dilaga, sull'onda dello scontro con l'islam. Ogni popolo e le culture cangianti che esso esprime si porta dietro glorie e bassezze, perché il termine “cultura” è il sedimento provvisorio del pensiero e del vissuto del “popolo” e di chi l'opprime, degli uomini e delle donne, degli adulti che cercano di assicurare la continuazione delle tradizioni e dei giovani che vi si oppongono. Se poi per cultura si intende “storia”, allora affermare che quella occidentale sarebbe portatrice di valori di tolleranza e libertà pare ridicolo a qualsiasi altro abitante del pianeta: gli occidentali da sempre non fanno che promuovere guerre. Anche gli altri popoli non sono da meno, ma dato che la “nostra” potenza economica e tecnologica è superiore, i danni che abbiamo fatto e continuiamo a fare battono ogni record. La terza causa di morte non naturale nella storia del mondo dopo la fame e le malattie sono gli occidentali. Allo stesso modo, non possiamo certo prendere in blocco le altre “culture” e accettarne tutto perché “politicamente corretto” o per un malinteso senso di “rispetto”. Non ci piace la segregazione delle donne in Arabia Saudita, come del resto non ci piace la mercificazione delle donne in Occidente. Non dobbiamo farci dire cos'è la vera cultura islamica da chi è oppressore di una parte del proprio popolo. Insomma, nella pratica didattica si deve togliere ogni considerazione valoriale della parola “cultura”: la cultura non è né buona né cattiva, semplicemente è. Anzi: sono.

f.

Dallo scontro di civiltà ci si sottrae solo se ci rifiutiamo di applicare in maniera sistematica i due pesi e le due misure. Se si è contro le private islamiche, allora lo si deve essere contro tutte le private, anche quelle cattoliche. E non potremo mai approvare l'operato di un ministero che finanzia diplomifici e scuole confessionali cattoliche e allo stesso tempo rifiuta il nulla osta per il riconoscimento di quelle islamiche. Allo stesso modo non dobbiamo considerare i “nostri” simboli portatori di messaggi universali, mentre quelli degli “altri” non lo sarebbero mai. Su questo le rappresentanze politiche progressiste dovrebbero evitare ogni viltà. E' molto comodo non prendere posizione sul crocefisso nelle aule scolastiche, o, peggio, dire delle banalità per difenderne il mantenimento. Ma ogni rinuncia a parlar chiaro incoraggia la contrapposizione etnica, perché si mostra agli “altri” l'esistenza di un fronte unito, “etnico” di tutti gli italiani, creando una reazione uguale e contraria. Avere il coraggio di andare contro il sentire comune della “propria” nazione, incoraggerà anche altri italiani a disertare il fronte di guerra della contrapposizione etnica e a far emergere le contraddizioni tra italiani (politiche, sindacali, sociali, ecc.), che è esattamente quel che i fautori dell'Italia - potenza temono.

Il ricco Occidente è costretto a far ricorso in sempre maggior misura a mano d'opera immigrata ed ha pure il coraggio di far credere che la cosa gli sia estremamente sgradita. Gli stranieri sbarcano qui, giunti da terre spogliate a vantaggio dei profitti di pochi occidentali e delle comodità di noi tutti. Appena arrivati si vorrebbe che dimenticassero presto presto la loro pericolosissima cultura d'origine, aderendo alla nostra, che da secoli è pericolosa per tutto il pianeta, ma non per noi. I loro bimbi piombano in mezzo al nostro mondo di merci, Barbie e grandi firme, senza immaginare di essere diventati il terreno dove si misura la solidità identitaria delle gloriose nazioni d'Occidente. La scuola, nella logica dello scontro tra civiltà, avrebbe il compito di “educare” le nuove generazioni di immigrati alla cultura dominante, perché crescano come fedeli soldati della sua missione civilizzatrice e non come serpenti allevati in seno. Ma i bambini non hanno una nazione: ne hanno tante e non ne hanno nessuna. I bambini delle classi multietniche delle nostre periferie si mescolano senza grandi problemi. Sappiamo come basti loro assai poco per superare diffidenze che sono nate dai pregiudizi dei propri genitori o da quelli della televisione, e veder nascere curiosità ed amicizia. Loro infatti non hanno alcuna crociata da combattere. Senza che noi adulti lo vogliamo, sui banchi di scuola la mutevole essenza dell'identità nazionale si plasma e diversifica, forse in nuove identità che gli adulti vorrebbero fissare per sempre a quelle vecchie utilizzando gli insegnanti per difendere la “scuola della nazione”, la “nostra” contro quella degli “altri”. E così ognuno dovrà scegliere se assecondare questo disegno oppure sottrarvisi. E chi vuole disertare una guerra che non gli appartiene, non potrà che proclamarsi fiero difensore di una sola nazione: quella mutevole, meticcia, vivace e misteriosa delle bambine e dei bambini.

Michele Corsi (docente di Pedagogia alla Facoltà di Lettere e filosofia dell'Università Statale di Milano)
Milano, 5 settembre 2004