A partire dalla necessità che in Italia si riapra un dibattito pubblico

Dall'università di massa all'università azienda

Intervista a Edoardo Sanguineti sulla crisi del sistema scolastico.

Edoardo Sanguinati

Nel corso dell'anno appena concluso il mondo della scuola ha dato prova, in occasione delle proteste contro la riforma Moratti, di uno dei movimenti più consistenti sul piano della visibilità sociale. Ma a dispetto delle cronache e dei fermenti di critica sul terreno sindacale, stenta ancora a nascere - soprattutto nel panorama degli intellettuali italiani - un dibattito pubblico sulla natura e il ruolo della scuola, come se il tipo di sapere da trasmettere alle future generazioni fosse tutto sommato un problema di poco conto.

Nulla è avvenuto di paragonabile alle grandi discussioni che ebbero l'effetto di suscitare le principali riforme scolastiche del passato, come la riforma Gentile - riforme non sempre condivisibili per il loro segno elitario, ma comunque in grado di fissare obiettivi di lunga durata: la formazione delle classi dirigenti; il problema di una lingua, una letteratura e una cultura nazionali; l'esigenza di una solida base unitaria da anteporre alle specializzazioni universitarie. Qual è, invece, il progetto di egemonia nelle "riforme" dei nostri tempi, quale modello di sapere verrà trasmesso nelle scuole del futuro? Si può definire un sistema scolastico in grado di neutralizzare il condizionamento delle disuguaglianze sociali nell'accesso agli studi? Per quel che è dato intravedere nella situazione attuale, non sembrano emergere risposte adeguate. Anzi, a seguire il ragionamento di Edoardo Sanguineti, critico letterario e docente universitario fino a pochi anni fa, l'impressione è che si vada verso un sapere sempre più frammentato, impoverito degli aspetti più concettuali, e verso una scuola decisamente elitaria, almeno nei livelli superiori.

Tutti i sistemi scolastici del '900 si sono divisi in due fasce: la prima obbligatoria e gratuita rivolta a tutta la popolazione; la seconda, rivolta perlopiù alle classi dirigenti in vista del loro inserimento sociale. Cosa è cambiato oggi in Italia?

L'accrescimento della fascia dell'obbligo, che è avvenuto in tutti i paesi evoluti economicamente e socialmente, ha certamente aumentato l'accesso al campo degli studi e lo ha prolungato, anche se persistono casi d'evasione scolastica. Le cose sono invece più ambigue per quanto riguarda il proseguimento dell'acculturazione, cioè per il passaggio all'università. In teoria gli studi universitari sono aperti a tutti i meritevoli, ma in concreto diventano sempre più esclusivi della formazione a classe dirigente di una élite sociale. La grande svolta che avrebbe dovuto verificarsi in occasione del '68 e del passaggio all'università di massa, mi pare che stia decisamente rientrando. Credo che occorrerebbe, a questo punto, riprendere daccapo i termini di un diritto all'istruzione costituzionalmente sancito e vedere cosa si può fare per renderlo effettivo. Bisogna fare in modo, innanzitutto, che la scuola dell'obbligo sia effettivamente formativa e non soltanto preoccupata di concedere un certo cursus più o meno rapido di studi, da cui uscire prima possibile per trovare lavoro. Ma del resto, già adesso la scuola è sempre meno qualificante nell'inserimento professionale, del tutto o quasi abbandonato alla fortuna individuale. Secondo, si deve rendere effettivo il passaggio successivo in base al merito o alla vocazione - o come altro si voglia chiamarli - ricorrendo a programmi sistematici di studio che prescindano completamente dalla condizione economico-sociale di partenza. Dovrebbero cambiare radicalmente le strutture e le sovrastrutture dell'apparato scolastico sotto la responsabilità specifica dello Stato, laddove oggi la tendenza è invece verso forme varie di privatizzazione sia nel caso dell'università statale che si rende sempre più fenomeno d'azienda, sia nelle università private sempre più condizionate dall'intervento di sponsor e selezionatori molto orientati.

Come può tradursi in concreto?

L'immagine del campus - la chiamo così per dare un vocabolo di comodo - cioè di un luogo dove ci siano aule adeguate, alloggi per studenti e docenti, libri, biblioteche e mense a disposizione, la possibilità di incontri molto aperti e convivenze - come avviene all'estero o in alcuni casi in Italia, per esempio la Normale di Pisa - questo dovrebbe diventare il modello dominante dell'università. Il guaio è che non si investono soldi in questo, se non in maniera molto limitata. Da qui la famosa fuga di cervelli o l'avventura dei dottorati di ricerca senza esiti protetti o garantiti, ma sempre con una precarietà fondamentale che mi pare tenda ad accentuarsi. L'aziendalizzazione va in direzione opposta a quello che dovrebbe essere l'apparato di una scuola democratica di cui lo Stato si assuma la responsabilità. L'intervento dei privati, invece, corrode a tutti i livelli quel tanto che era rimasto di università pubblica, certo riformabile e discutibile ma oggi controriformata in senso opposto. L'università ormai conta in quanto conduce a una laurea precoce o completa, il famoso "tre più due". Chi entra deve sbrigarsi rapidamente. La perdita di "clienti" - così sono concepiti gli studenti - diventa dannosa. Il numero, la quantità di laureati diventa l'essenziale, con la presunzione che questo faciliti l'accesso al mondo della cultura: ma da quello che si sente da più parti, accade esattamente il contrario. Le cose sono rese ancor più difficili e complicate di quanto non fossero un tempo. Tutto il meccanismo dei "crediti" - parola che da sola merita l'infamia - è rivelatore di una mentalità: io pago una certa preparazione che posso contrattare e se non ottengo un credito adeguato do piuttosto un altro esame che mi costa meno fatica, meno tempo e rende di più. Diventa tutto un problema di investimento del lavoro intellettuale e nelle forme sempre più degradate e sempre meno produttive.

Se la scuola non è una semplice formazione professionale, qual è il modello di sapere che deve trasmettere?

Una volta amavo molto la scuola elementare. Ho sempre pensato che il vizio fosse nella fascia delle scuole medie e superiori. Il bambino che andava alle elementari era chiamato a un vero e proprio "lavoro", un duro lavoro per sé e per il docente. Doveva imparare a fare delle cose, a leggere, a scrivere, a far di conto, a disegnare, teoricamente anche ad avere alcune nozioni musicali, ad esercitarsi in ginnastica. Una scuola poteva fare ogni trimestre - così si diceva - un'esposizione dei lavori prodotti dai suoi scolari: temi, pensierini, disegni, recitare dei testi. Il disastro - naturalmente parlo in generale - comincia quando a partire dalle medie questa operosità, questo "fare" secondo un modello di produzione, viene meno. Si tratta da questo punto in poi di accumulare informazioni, di ascoltare e memorizzare per riversare le conoscenze nelle interrogazioni, mentre la produttività passa in secondo piano. Nelle scuole umanistiche, ad esempio, si procede più attraverso la mediazione di commenti, critiche e manuali che non per vero consumo di testi. Poi, di colpo, lo studente viene proiettato all'università dove la tesi, almeno un tempo, lo riportava di nuovo a un lavoro produttivo: questo accadeva soprattutto per le discipline umanistiche ma valeva anche per altre lauree. Riprendeva a scrivere, poteva scoprire, più o meno rapidamente, che non era più esercitato nella scrittura, perché aveva fatto solo temi, composizioni e quelle cose terribili che sono le ricerche, realizzate in biblioteca o in Internet cucendo assieme dei pezzi spesso contraddittori. Quello che manca è il lavoro produttivo.

Come si può recuperare il momento del fare nella fascia delle scuole superiori?

Tanto per fare un esempio, anziché prendere un manuale di storia della letteratura e apprenderlo a memoria, un gruppo di studenti - sotto la direzione del docente - concorda di fare un'antologia, di leggere molti testi che vengono confrontati, distribuiti e selezionati. Se devo essere io a scegliere un pezzo di Machiavelli da mettere in un'antologia di prosa del '500, dovrò leggere molto questo autore e metterlo in compagnia di altri. Dovrò distribuirmi il lavoro con altri, decideremo quale passo scegliere, si prepara il commento. Così si impara davvero a capire e leggere Machiavelli. Una volta lo si faceva tradurre addirittura in latino, adesso - da quel che vedo con gli studenti - non sanno più capirlo nemmeno in italiano. Si è passati all'abitudine non solo dei commenti iper-compensativi, ma persino delle traduzioni dei classici. Così, una lingua come l'italiano di cui si parla tanto in difesa, viene abbandonata perché rompe quella continuità che ci permette ancora di leggere testi medievali - cosa che non avviene nelle altre letterature europee.

Da più parti si lancia l'allarme per un progressivo impoverimento della scuola. In particolare, c'è la tendenza a frammentare il sapere, ad eliminarne gli aspetti più concettuali e astratti e a ridurlo a semplici procedure esecutivi. E' realistico, secondo lei, questo quadro?

E' quello che sta accadendo, ma io credo che questa tendenza si possa correggere con due accorgimenti. Naturalmente non è facile, bisogna pensare a una formazione e a un'aggiornamento degli insegnanti diversi da quanto preveda ora il sistema dei crediti. In primo luogo, devono diventare dei direttori di ricerca. Non bisogna aspettare l'università per fare un corso monografico: è vero che si deve partire dalla base generale e elementare del manuale, ma da qui si può approfondire un problema specifico. Si può dedicare un anno a fare un'antologia della prosa italiana del '500, nessuno lo vieta. In secondo luogo, si dovrebbe accentuare l'elemento storico.
Questo è importante non solo per le materie umanistiche - per continuare a utilizzare questa distinzione - ma anche per le discipline scientifiche. Anziché studiare la fisica si dovrebbe analizzare come un certo problema è nato all'interno della storia della fisica. Non è che l'atomo, ad esempio, sia stato sempre pensato così come lo pensiamo oggi. Dobbiamo piuttosto chiederci come è nata la fisica quantistica e cosa possiamo pensare di Einstein. Se tutte queste cose le vedo storicamente come problemi da affrontare, allora non mi riduco ad essere un esecutore di cose apprese e più o meno cucite bene assieme. Imparo un fare. E' come il nuoto: posso insegnare ginnastica, spiegare i movimenti ma a un certo punto bisogna tuffarsi. Nuotando si impara.

Dobbiamo chiederci, però, se questa tendenza a ridurre il sapere a procedure descrittive da usare acriticamente, non rifletta a propria volta processi sociali di fondo. E' vero che il nostro tempo è segnato da un progresso scientifico e tecnologico senza precedenti, eppure il livello medio delle conoscenze intellettuali richieste a un individuo per lavorare, è molto basso. Tutti usiamo il computer ma solo pochissime aziende controllano il momento della progettazione - le altre limitandosi all'assemblaggio. Possiamo ipotizzare che la scuola si stia adeguando a questo processo di impoverimento teorico?

Così è effettivamente. Si dice per abbreviare che il modello vincente è quello americano: gente iperselezionata che sa pochissime cose, priva di una visione globale delle stesse discipline che affronta, perché quello che le si richiede è d'essere una ruota in un meccanismo nettamente più forte. Torno a dire che l'antidoto a questa frammentazione del sapere è il connettivo concettuale della prospettiva storica. Questo rende molto concreto il problema. Io posso affrontare anche una questione molto particolare purché di essa abbia chiara consapevolezza storica. La metodologia storica è quella che permette poi di analizzare qualsiasi analogo problema, assumendo i materiali e i documenti corrispondenti. Ma se non ho questo, non ho niente. Il nodo non è capire il funzionamento di tutti gli oggetti che utilizziamo, sarebbe un guaio se dovessimo costruirci da soli le scarpe, gli indumenti, l'automobile e il telefonino. Non è questo il problema culturale, bensì la capacità di ricomporre la nostra esperienza in un sapere concettuale, problematico e quindi storico. L'uso delle macchine e dei computer è anche un vantaggio, implica un risparmio di tempo e di energia, purché non riduca l'universo-mondo a essere un'appendice della macchina medesima. La critica allo sviluppo tecnologico di tipo capitalistico ha messo in evidenza la tendenza a degradare la manodopera e la "testadopera" - cioè il lavoro intellettuale - a una funzione di quel tipo. Un impiegato di banca può non avere la più pallida idea di cosa sia il mercato mondiale tanto quel che deve fare è calcolare gli interessi, compilare i documenti correttamente e così via.

E quindi, se vogliamo applicare fino in fondo una chiave storica, possiamo capire l'assetto della scuola a partire dalla tendenza a eliminare dalla formazione dei futuri impiegati di banca - tanto per restare al suo esempio - le conoscenze non richieste dalla professione. E' così?

Una volta esisteva una élite molto riservata che formava di per sé la classe dirigente. Chi andava all'università apparteneva a una classe che poteva permettersi di sostenere le spese, salvo rarissime eccezioni. Oggi, se si riduce tutto alle famose tre "I", impresa, internet e inglese, ho bisogno di essere soltanto come il Chaplin dei "Tempi moderni" che sapeva girare il bullone e, fatto questo, esauriva la propria funzione. A questo punto la manodopera si può ridurre a un numero limitatissimo di persone perché la macchina ha funzioni sempre più complesse, mentre la mente umana necessita invece di funzioni sempre più limitate.

Il modello dell'autonomia prevedeva un sistema di concorrenza tra le università nella convinzione che questo ne migliorasse la qualità. Ma, ammesso che il calcolo fosse esatto, questo meccanismo non finisce per privilegiare gli atenei delle grandi città?

Ma qual è - mi chiedo - il povero ragazzo che leggendo sul giornale le meraviglie dell'università di un'altra città, abbia i mezzi per potersi trasferire? Se è un figlio di papà lo può fare, altrimenti dove prende i soldi. L'obiettivo è privatizzare tutto, rendere tutto profittevole e utile.

Le varie riforme scolastiche del passato si ponevano problemi egemonici di lungo periodo, affrontavano il nodo della formazione delle classi dirigenti. Nei tentativi di riforma degli ultimi anni e soprattutto in quella del ministro Moratti è riconoscibile un impianto egemonico o si limita a tagliare le spese?

E' chiaro che c'è un modello preciso, quello che noi chiamiamo americano: massimo profitto, libera gara tra tutti, assoluto cinismo. L'umanità è spaccata in una élite che può concedersi tutto o pressapoco e una massa dove conta solo il numero.

Tonino Bucci
Roma, 2 gennaio 2005
da "Liberazione"