Un'alternativa che si radicalizzerà
SCUOLE AUTONOME O SCUOLE AZIENDA?

Le contraddizioni della riforma del sistema scolastico.

E' possibile, con sguardo unitario, dare un giudizio sulla riforma della scuola promossa dai governi di centro sinistra a partire dal 1996? Siamo di fronte, senza dubbio, al più completo ripensamento del sistema scolastico a partire dalla riforma Gentile, che trova i suoi tasselli principali nel riordino dei cicli, nell'autonomia, nella legge sulla parità nella riforma dell'esame di maturità, ne lì a qualifica dirigenziale ai capi d'istituto. Vista la complessità dei provvedimenti,è bene evitare giudizi sommari ed affrettati. Le luci e le ombre sono molte, i dubbi sollevati altrettanti. Il dovere di capire c'impone, comunque, di procedere con cautela, discernendo ed evitando facili unilateralismi.

Mai come in questo caso, la prudenza suggerisce di abbandonare la logica semplificatoria dell' "aut-aut", per assumere, invece, la strada più lunga e difficile del cogliere le contraddizioni. L'impressione,infatti, è che, ben al di là della coscienza del legislatore,nel complesso della riforma s'insinuino elementi "progressivi" e "regressivi", che si sovrappongono, s'incontrano e contraddicono. Per facilitare l'analisi, concentrandomi soprattutto sul riordino dei cicli, individuerò dapprima alcuni possibili elementi a favore, poi quelli contrari.

Verso una scuola più democratica

È possibile e necessario leggere la riforma della scuola secondo tre piani, strettamente intrecciati: epistemologico, organizzativo e didattico.

Il piano epistemologico.

Il piano epistemologico, in linea di massima, può essere individuato nella logica dei sistemi complessi. Come qualsiasi sistema, quello scolastico è pensato come un insieme di parti interrelate (ognuna delle quali costituisce un sottosistema), articolate su più livelli, che comunicano fra di loro scambiandosi in formazioni.

Il piano organizzativo.

Il livello più ampio è costituito dal "sistema nazionale d'istruzione", composto, secondo un modello a rete, dalle singole scuole autonome, statali e paritarie(1). Ogni scuola rappresenta un nodo nella rete, individuato da particolari caratteristiche distintive (il Piano dell'offerta formativa), che comunica, a monte, con il Ministero della pubblica istruzione, il quale ha il compito di definire i curriculi (gli obiettivi generali e specifici del processo formativo) e, a valle, con l' "Istituto nazionale per la valutazione del sistema dell'istruzione", che ha il ruolo di valutare l'efficienza del sistema scolastico. A sua volta, ogni singola scuola è organizzata come un sistema, costituito da insegnanti, studenti e genitori che si scambiano "informazioni". Gli insegnanti esercitano il ruolo fondamentale di "individualizzare" gli obiettivi, cioè di trasformare il sapere, generico ed astratto, a "misura" dello studente e di valutare la riuscita di tale operazione.

Tale modello "reticolare", che sostituisce quello verticistico e a comunicazione unidirezionale (dal centro alla periferia), si basa sull'idea, pienamente condivisibile, che ogni scuola (e ogni insegnante), nei limiti di obiettivi prefissati a livello nazionale, sia centro di autonoma elaborazione progettuale. La scuola non più strumento di trasmissione di un sapere già altrove elaborato, ma le scuole anche come luoghi di elaborazione e di ricerca, soggetti attivi di "intelligenza collettiva".

Pensata in questo modo, l'autonomia evita sia il centralismo sia il "localismo" etnico-leghista, perché ogni scuola, pur nella sua singolarità, secondo una logica frattale, racchiude al suo interno tutte le altre in un gioco speculare.

Non trovo estranea, a questa prospettiva, la forte rivendicazione, tipica delle lotte degli anni Settanta, di una riappropriazione dal basso del sapere, condizione della creazione di nuovi spazi di "autonomia" e, quindi, di democrazia.

La stessa libertà d'insegnamento ne viene notevolmente rafforzata, nel momento in cui «nella scuola dell'autonomia, che assume il carattere di luogo di ricerca e di crescita professionale dei singoli e della collettività, i docentì tutti dovranno diventare, in linea di tendenza, docenti "ricercatori", in grado di arricchire costantemente il loro saper fare sul piano della ricerca didattico-disciplinare e su quello della partecipazione all'innovazione e dello sviluppo»(2).

Il piano didattico.Perdita di centralità dei programmi a favore dei curriculi.

Il superamento del modello centralizzato, si coniuga, per quel che riguarda il livello didattico, con la perdita di centralità dei programmi a favore dei curriculi. Strumento di tale cambiamento sarà la generalizzazione della didattica modulare. Il vantaggio offerto dai currìculi è la possibilità di modellare l'insegnamento rispetto alle concrete e diversificate esigenze degli alunni: il contenuto (il classico "programma") diventa lo strumento di sviluppo di competenze dell'alunno e non più solo un qualcosa da "sapere". Tale cambiamento di prospettiva, che nelle vecchie scuole elementare e media inferiore è in atto sin dagli anni Ottanta, permetterà al sistema scolastico di perdere quella rigidità che oggi condanna molti studenti all'insuccesso scolastico. In che modo? Innanzitutto obbligando la scuola, finalmente, ad individualizzare l'insegnamento. Ogni ragazzo ha delle proprie esigenze: una storia, interessi particolari, tempi diversi d'apprendimento.

Lo studente "medio"

Oggi gli insegnanti, nel valutare, si basano implicitamente sullo standard dello studente "medio": chi sta sotto "va male", chi sta sopra "va bene". ora di chiedersi, invece, se questo modo di procedere non sia profondamente ingiusto, nella misura in cui "condanna" una parte consistente di studenti ad essere normalmente "somari".

La didattica modulare

La didattica modulare - e passo alla sua seconda caratteristica positiva - permette, invece, con più facilità il recupero di eventuali insuccessi scolastici (o, al contrario, la valorizzazione delle eccellenze). Infatti, invece di continuare ad utilizzare lo strumento inefficace e anacronistico della bocciatura, sarebbe molto più utile che il ragazzo "ripetesse" i moduli (perché magari bisognoso di tempi più lunghi d'apprendimento) in cui è stato giudicato insufficiente e, invece, proceda con gli altri. Alla fine dell'itinerario scolastico, la scuola certificherà il grado delle competenze raggiunto in ogni ambito disciplinare.

Flessibilità curriculare

In questo quadro, non solo non è assurdo che si preveda flessibilità curriculare tra le scuole (i curriculi si articoleranno in una quota nazionale, che varia dal 75% all'80%, ed in una locale gestita dalle scuole), ma è auspicabile che all'interno delle singole scuole si offrano agli studenti percorsi differenziati.

Per fare un esempio, in una classe in cui sono presenti degli immigrati, non è assurdo che, mentre questi ultimi frequentano ore di potenziamento d'italiano, gli altri imparino una seconda lingua. «La personalizzazione dei percorsi formativi dovrà essere calibrata proprio sulla base delle esigenze dei soggetti, dei loro interessi e dei loro ritmi d'apprendimento.

Il rispetto di questa istanza porta a dire che non necessariamente tutta la quota di competenza delle scuole debba essere riservata a discipline o attività tradizionalmente intese: una parte potrà essere destinata ai percorsi individualizzati (di accoglienza, di orientamento, di riorientamento, di recupero, di approfondimento, di valorizzazione dei livelli di eccellenza) non sempre riconducibili ad attività e insegnamenti disciplinari».

Porre l'accento sulla modularità, pertanto, non significa relegare i contenuti a margine dell'insegnamento e buttare alle ortiche il "programma", bensì superare la visione prettamente "contenutistica" a favore di un'idea di scuola in cui divenga centrale la complessità dell'apprendimento. Infatti, se compito della Repubblica, come suona l'art.3 della Costituzione, è rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, se, pertanto, la democrazia è anche, e forse soprattutto, tutela delle diversità, la riforma della scuola non può non prendere atto che, come non si dà un Sapere in astratto, così non esiste lo Studente.

Esistono sempre e solo saperi e studenti, nella loro complessità. Utilizzando uno slogan, se il problema della scuola di massa era dare un'istruzione (almeno minima: leggere, scrivere e far di conto) uguale per tutti, quello della scuola odierna è offrire ad ognuno la sua istruzione. «La strada da noi scelta — afferma Luigi Berlinguer — è la valorizzazione delle attitudini di ogni alunno: non la scuola per tutti, ma la scuola per ognuno, che è diverso»(3).

È qui che la flessibilità - intesa sia come capacità della scuola di adattarsi alla «pluralità delle intelligenze» (Gardner), sia come attitudine dello studente ad orientarsi nella complessità del sapere - trova un suo profondo ed imprescindibile significato.

Semplificazione del sistema scolastico

All'ottica di una maggiore democratizzazione della scuola va ascritta anche l'esigenza di semplificare il sistema scolastico. A tal fine, un primo importante passo riguarda ancora il livello organizzativo-didattico. Ammesso che la scuola dei curriculi non possa più «inseguire l'accumulazione delle conoscenze», ma che «occorra predisporsi a un diverso modo di articolare i programmi che parta da argomenti essenziali intorno ai quali costruire i curriculi», è del tutto condivisibile l'idea di porre un limite al monte orario annuale (che non dovrà superare le 1000 ore complessive, vale a dire 5 ore per 6 giorni alla settimana, su un totale di 33 settimane).

La minore quota oraria dovrà, comunque, coniugarsi con una minore dispersione disciplinare e una maggiore organizzazione del sapere, onde evitare quell'espansione incontrollata delle informazioni preludio - come ci ha ultimamente ammonito Edgar Morin - di una nuova Babele(4).

Se è vero, inoltre, che la scuola «ha finito per diventare un impianto caratterizzato da una evidente discontinuità, sicché oggi. le scuole materna, elementare, media e superiore non sono collegate fra di loro; gli indirizzi della superiore rimangono profondamente divaricati», non è a priori sbagliato eliminare il «salto» tra scuola elementare e media e ipotizzare un unica scuola di base.

Pur non essendo ciò di per sé condizione sufficiente per garantire un miglioramento nel percorso scolastico, è indubbio, però, che così facendo si possa più agevolmente creare il quadro per realizzare una maggiore continuità negli studi, evitando frammentarietà e ripetizioni.

Allo stesso fine di semplificazione concorre il proposito di ridurre il numero di indirizzi nella scuola secondaria, abbinato all'intenzione di

eliminare quelli di «tipo fortemente settoriale e territoriale» e di arrivare ad una generale «liceizzazione».

A tale proposito, spostare in avanti (dopo i 18 anni) la professionalizzazione, contribuisce a superare «la storica dicotomia tra "licei" finalizzati al proseguimento degli studi universitari e "istituti" finalizzati all'inserimento nel mondo del lavoro», che la cultura di sinistra ha sempre considerato un residuo, da superare, di possibile ineguaglianza delle opportunità.

Verso una scuola aziendale

Una prima, forte obiezione al processo di riforma è di natura metodologica. L'impressione è che, fin dal programma con cui la coalizione dell'Ulivo ha vinto le elezioni del 1996, alla forte esigenza di un profondo rinnovamento della scuola, non corrispondesse un'idea chiara e precisa di ciò che si volesse fare. E la cosa è preoccupante, perché è stata proprio la mancanza di un'idea esplicita di scuola, forte e semplice, a far sì che, in ultimo, la riforma fosse giustificata con motivazioni quasi esclusivamente "tecniche", togliendo spazio al necessario ed insostituibile dibattito pubblico e non coinvolgendo affatto gli insegnanti.

Accettazione del modello predominante

Come sempre in questi casi, quando gli "esperti" surrogano la politica, quando l' "oggettività" sostituisce la disputa delle idee e le scelte sembrano dettate dalla "necessità" della situazione più che dal perseguimento d'ideali, si finisce coll'accettare (anche in modo inconsapevole) il modello ritenuto "naturale", cioè quello predominante. È qui, appunto, che il "modello aziendale" (e il discorso è applicabile anche ad aspetti rilevanti della riforma dell'Università) fa il suo ingresso(5).

Certo, questo non significa (e sarebbe ingenuo ed ingiusto affermarlo) che la scuola corra il rischio di essere trasformata in azienda, ma solo (e non è poco) che alcuni caratteri del "modello aziendale" dominante hanno rappresentato la cornice ideologica, e perfino linguistica (crediti, produttività scolastica, certificazione, flessibilità, concorrenza, valutazione di sistema, standard di qualità, carriera professionale, etc.), servita a progettare la "nuova" scuola.

Tale impressione è confermata dalla pubblicazione del libro, per molti versi interessante, di Luigi Berlinguer, La scuola nuova. La difesa appassionata dell'operato del Governo, il ribadire la necessità e le ragioni del porre in atto un processo di riforma della scuola e la chiarificazione del suo disegno complessivo, relegano sullo sfondo, come orizzonte naturale ed inespresso, il paradigma che è servito da architettura della nuova scuola: il modello aziendale. Evidentemente, non si tratta di una semplice svista: per Berlinguer e per i suoi "esperti" si trattava di assumere un "dato", che non valeva la pena d'essere discusso.

Didattica modulare, modulo e cerificabilità

Si consideri la didattica modulare. Il modulo può essere definito come un'unità didattica omogenea che si propone di raggiungere obiettivi certificabili. Per sua natura ogni modulo si raccorda, in verticale, con altri moduli, secondo un percorso didattico sequenziale e, in orizzontale, con moduli di altri percorsi didattici, di cui rappresenta il naturale complemento. Condizione essenziale del modulo è che sia progettato in maniera da poterne valutare con certezza il raggiungimento degli obiettivi.

È da tale valutazione, infatti, che dipende la certificabilità delle competenze raggiunte e, quindi, la possibilità di accedere a moduli successivi, di iscriversi in altre scuole, di spendere il titolo nel mercato del lavoro, etc.

Presupposto essenziale di tale discorso, è che il sapere debba e possa essere misurato con precisione, affinché esso diventi capitale spendibile. Il sistema dei debiti e dei crediti scolastici, l'intercambiabilità di competenze acquisite in contesti diversi (ad esempio l'interscambio tra scuola, formazione e lavoro) non sono che la logica conseguenza di tutto ciò.

L'insegnamento taylorizzato e il riduzionismo

Le origini di questa "taylorizzazione" dell'insegnamento sono note. Le troviamo nel paradigma behaviorista (I' "istruzione programmata", le teaching machines di Skinner, vale a dire il modello stimolo-risposta, rinforzo, acquisizione per prove ed errori) e in quello cognitivista/cibernetico (input-output, trasmissione di informazioni, feed-back). Il modello prevalente di conoscenza che ne è risultato prevede la segmentazione del processo conoscitivo in unità sempre minori, strutturalmente traducibili e assimilabili al procedimento e al linguaggio algoritmico delle macchine.

Ci troviamo di fronte, per utilizzare un'espressione di Marcello Cini, ad un «riduzionismo sistemico»(6), ad una variante del vecchio riduzionismo meccanicistico cartesiano, in cui la realtà, complessa ed irriducibile, paragonata al funzionamento del computer, è semplificata arbitrariamente.

Sono evidenti i pericoli di un tale atteggiamento — che accomunano la riforma della scuola e quella dell'Università — derivanti, innanzitutto, dall'ingenuità di credere che la misurabilità del sapere sia neutrale rispetto al sapere stesso.

In realtà, l'idea di misurabilità introduce una trasformazione del sapere che riguarda i metodi, i contenuti e i fini dell'insegnamento.

Qui trova piena manifestazione il «pregiudizio ottuso che, contro ogni evidenza, ritiene di poter omologare la durata e il ritmo del lavoro di apprendimento al tempo calcolabile del lavoro di fabbrica»(7).

La certificabilità trasforma l'istruzione in merce e le scuole in fabbriche di plusvalore

Non è assurdo prospettare, inoltre, la possibilità che il risalto posto sulla certificabilità del sapere, sulla sua "spendibilità" - e qui è evidente il rapporto tra "riduzionismo sistemico" e capitalismo - trasformi l'istruzione in merce e la scuola in un luogo particolare di produzione di valore aggiunto. Tale trasformazione è tutta iscritta nell'ascesa del capitalismo cognitivo a paradigma universale della produzione di merci: la diminuzione della conoscenza a mezzo di calcolo e di controllo tecnico «ha forzatamente ridotto la complessità (varietà, variabilità, indeterminazione) dell'ambiente naturale, dell'organismo biologico, della mente pensante e della cultura sociale alla misura tollerata dalla fabbrica industriale»(8).

Tale sospetto non può che aumentare nel momento in cui l'autonomia delle scuole viene interpretata come concorrenza o competizione. In tale logica è difficile non pensare che le scuole, pur di accapparrarsi "clienti", si vedano, da un lato, costrette ad organizzare corsi, corsetti e corsettini all'ultima moda che diano lustro all'immagine dell'Istituto e lo mantengano "sul mercato" e, dall'altro, a cercare finanziamenti privati per potenziare "l'offerta formativa".

Saper fare in luogo di sapere

Molte delle critiche piovute sulla riforma sottolineano il pericolo che la "scuola delle competenze", ponendo l'accento sul "saper fare" a scapito del "sapere", rappresenti una grave dequalificazione dell'insegnamento. I contenuti, sempre più "minimi" -

«è necessario operare un forte alleggerimento dei contenuti disciplinari», è scritto nella relazione finale della "commissione dei saggi» istituita dal governo Prodi - alla fine tenderebbero a scomparire, portando a compimento quel processo di "deconcettualizzazione" dei saperi già in atto da tempo. Sono critiche che, indubbiamente, colgono nel segno, soprattutto quando individuano la radice del problema nell'ingenua imitazione, sostenuta per lo più dalle frotte di psico-pedagogisti che pullulano nelle stanze ministeriali, del "modello americano"(9).

Tale sottocultura pedagogica (con le dovute eccezioni) tende a fare della didattica una scienza autonoma, scambiando i mezzi dell'insegnamento con il fine.

Il didatticismo

Il "didatticismo" (l'invenzione di nuove e più perfezionate tassonomie e griglie di valutazione; la fede dogmatica nell'opera salvifica delle nuove tecnologie; la ricerca di obiettivi didattici sempre più raffinati) sembra essere divenuto il passatempo preferito di "esperti" scolastici ed ispettori ministeriali, che debbono pur giustificare i loro lauti compensi.

Per smentire tale atteggiamento, non c'è bisogno di scomodare Giovanni Gentile e la sua teoria dell'inesistenza ed inefficacia del metodo slegato dall'atto concreto dell'insegnamento.

L'assurdità del didatticismo, infatti, è sufficientemente dimostrata dall'evoluzione culturale di colui che, più di tutti, (forse in una recezione non del tutto giustificata) ha contribuito in Italia a crearne il miro, Jerome Bruner.

Basta prendere una delle sue più recenti e significative opere(10), per accorgersi di quali sia la distanza con cui, oggi, Bruner affronta i problemi educativi rispetto all'impostazione cognitivista degli anni Sessanta.

La psicologia cognitiva viene sostituita dalla psicologia culturale; la teoria computazionale della mente da una visione culturalistica; la spiegazione naturalistica dalla comprensione ermeneutica.; l'elaborazione delle informazioni dalla ricerca intersoggettiva dei significati; l'addestramento dal dialogo socratico. Per fare solo una citazione:

«l'educazione non è semplicemente una questione tecnica di buona gestione dell'elaborazione delle informazioni, né si può limitare all'applicazione di "teorie del'apprendimento" o all'impiego dei risultati di un "test delle prestazioni" centrato sul soggetto. È invece un attività complessa, che si propone di adattare una cultura alle esigenze dei suoi membri e di adattare i suoi membri e i loro modi di conoscere alle esigenze della cultura» (p.56).

A quanto pare, non sembra che in molti, in Italia, si siano accorti di tale evoluzione. Per contro, coloro che si oppongono al prevalere ingiustificato del didatticismo, non sempre riconoscono il ruolo genuino ed imprescindibile della didattica - trovare i mezzi e le forme affinché tutti, attraverso la trasmissione di contenuti, possano scoprire le proprie capacità e acquisire le competenze necessarie a diventare buoni cittadini. La logica conseguenza, per qualcuno, è buttare a mare la didattica e far finta che non esista un problema legato al modo di trasmissione della conoscenza.

Il risultato, inevitabile, è il ritorno alla vecchia scuola "selettiva", vista come l'unica possibilità di recuperare la genuina qualità dell'insegnamento" (11)

Obbligo scolastico

Un'importante occasione persa dal centro-sinistra è stata quella di non aver avuto il coraggio di portare l'obbligo scolastico a 18 anni. Si è scelto, invece, di rendere obbligatorie, fino al diciottesimo anno, attività formative che possono essere svolte nel sistema della formazione professionale di competenza regionale o nell'esercizio dell'apprendistato (L. 144/99, art.68). strano che, in un contesto produttivo in cui si richiede sempre meno lavoro materiale e sempre più "cultura generale" - «serve più cultura intesa in senso generale, serve una padronanza più alta dell'insieme dei processi» - si creda che la formazione professionale e, addirittura, l'apprendistato possano essere equivalenti all'istruzione scolastica.

Difficilmente applicabile, d'altra parte, è l'intenzione di garantire, attraverso la certificazione dei crediti, «la mobilità tra scuola e formazione professionale, nonché la ripresa di studi eventualmente interrotti».

Il sospetto, invece, è che, da un lato, si continui ad avallare la "selezione naturale" (di classe, censo o ceto che sia) fra chi "continua" e chi "smette" e, dall'altro, ancora una volta, si procuri alle aziende manovalanza a buon mercato.

Di ben altro spessore, piuttosto, sarebbe stata una riforma che avesse stabilito il principio che, finalmente, nella nostra società "sviluppata", non c'è più bisogno di lavoratori al di sotto dei diciotto anni.

Almeno fino a quell'età, assicurato il reale diritto all'istruzione (gratuità dei libri di resto, esonero dalle tasse scolastiche, borse di studio, etc.), a tutti indifferentemente lo Stato garantisce l'occasione, attraverso lo studio, di crescere umanamente, civilmente e culturalmente.

Note

1. Sulla questione della parità scolastica, rimando ad un mio precedente intervento pubblicato su La rivista del Manifesto (14, febbraio 2001).

2. Le citazioni, a meno di ulteriori precisazioni, si riferiscono al Programma di attuazione della riforma dei cicli scolastici redatto dal ministro De Mauro e presentato in Parlamento il 13 novembre 2000.

3. La scuola nuova, Laterza, p.28.

4. La testa ben fatta. Riforma dell'insegnamento e riforma del pensiero, Cortina, Milano 2000.

5. A tale proposito è d'obbligo leggersi ìe belle pagine scritte da Massimo Bontempelli (L'agonia della scuola italiana, Edirrice Crt, Pistoia, 2000, pp.35 ss.).

6. Un paradiso perduto. Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi evoluti vi, Feltrinelli, 1998, p.268.

7. E. Piperno, Come dimorare tra le rovine. 18 tesi e 4 proposte sulla riforma dell'Università, in «Derive/Approdi». 19, 2000.

8. E.Rullani, Il capitalismo cognisivo: del déjà vu?, in «Posse»,2/3, 2001.

9. L.Russo, Segmenti e bastoncini. Dove sta andando la scuola?. Feltrinelli, 2000.

10. La cultura dell'educazione. Nuovi orizzonti per la scuola, Feltrinelli, 2001.

11. È quello che sembra prospettare lo stesso Lucio Russo (cfr. S. Fiori Siamo contro la scuola fai-da-se, «la Repubblica», 1 marzo 2001).

Roberto Giusti
Roma, 5 giugno 2001
da "La rivista del Manifesto"