Un giornalista di Albiate rivela dall'interno l'orrore del CPT di via Corelli a Milano

Io, clandestino per un giorno rinchiuso nel centro di via Corelli

Schiaffoni e perquisizioni al gelo. Poi nei container, quelli dell’Irpinia di vent’anni fa

Fabrizio Gatti

Fabrizio Gatti.

Photo by L'Espressoinfo

La luce in via Corelli non si spegne mai. Gli alti riflettori tormentano i container dentro la grande gabbia e bisogna coprire le finestre con gli asciugamani per avere un pò di buio. Ma non basta a conciliare il sonno. Ci si deve abituare all’odore di urina, di scarpe, di miseria. Otto uomini, una miniturca, una minidoccia e un lavabo convivono a fatica nei pochi metri quadri di questi alloggi improvvisati. Zittiti da brevi pause, si aggiungono i rumori: i camion sul cavalcavia della tangenziale Est, il russare alternato dei vicini e un misterioso rimbombo che viene da fuori. All’una e mezzo diventa un ritmo tribale. Le ragazze africane cantano e ballano tra le brande. Si sentono e si scorgono dalla loro finestra socchiusa: cori a tre voci e corpi ondeggianti, avvolti nelle bianche lenzuola di carta fornite dalla Croce Rossa. È una notte normale alla periferia di Milano, nel "Centro di permanenza temporanea e di assistenza e di esecuzione della misura": in parole meno burocratiche, l’ultima tappa prima del rimpatrio per centinaia di stranieri che qui vengono detenuti fino a un mese, anche se non hanno mai commesso reati.

È impossibile raccontare la vita nella grande gabbia rettangolare, senza viverci almeno un giorno. E per farlo bisogna ingegnarsi, perchè i permessi sono negati. Ho così preso in prestito un nome che suonasse "extracomunitario": Roman Ladu, 29 anni, di Bucarest, Romania. Nel centro di via Corelli si entra solo se sono trascorsi almeno 15 giorni dal fotosegnalamento. È il primo controllo di un clandestino: se non si dimostra di avere un permesso di soggiorno, vengono prese su varie schede le impronte di tutte le dita e del palmo delle mani. La faccia viene fotografata di fronte e di lato, come per i delinquenti. E il nome è inserito nell’elenco elettronico di tutti gli immigrati che in Italia hanno ricevuto il "Deportation order" firmato dal prefetto. La polizia può usare maniere dure. Lunedì 17 gennaio a Lodi, dopo essere stato sorpreso per la prima volta da due poliziotti in borghese a chiedere l’elemosina, Roman Ladu ha dovuto sopportare due schiaffoni e un’ispezione corporale. Gli hanno rotto di proposito una scheda per telefonini. Ed è stato obbligato, con minacce di "guai", a firmare un verbale su cui un viceispettore aveva scritto: "La persona nominata in oggetto... all’uopo ha dichiarato: non intendo farmi assistere da alcuno".

Il controllo che porta in via Corelli, venerdì mezzogiorno a Monza, è meno traumatico. Sono già trascorsi i 15 giorni. Dopo una breve sosta nel commissariato, si va a 160 all’ora in superstrada verso l’ufficio stranieri della questura di Milano. Altre ore di pratiche e attesa. Poi in sei si è caricati su un furgone Ducato, scortati da sei poliziotti. Il quadrante luminoso del campanile dell’Ortica segna le 6.35 della sera. L’ultima faccia di Milano mostra i piloni del cavalcavia della tangenziale Est. Il pulmino gira lì sotto. Gli espulsi osservano in silenzio. Bisogna fermarsi alcuni istanti. Le due ante del portone in ferro si aprono lentamente. E dalla fessura in mezzo comincia a filtrare l’abbaglio dei riflettori. La grande gabbia, illuminata come un palco, è 150 metri davanti al parabrezza. Dorina, albanese sui 30 anni, non riesce a trattenere il pianto. Il motivo della sua malinconia lo spiega poco dopo un corpulento dipendente della Croce Rossa Italiana, l’ente che ha messo a disposizione la gestione e i secondini di questo campo in mezzo alla campagna: "Ancora qui? - ride il ragazzo in camice bianco -. Ah, ah, ti sei appena fatta un mese. Adesso te ne rifai un altro". Dopo 30 giorni di detenzione, gli immigrati che non ottengono i documenti dai loro consolati devono essere rilasciati. Può essere uno stratagemma per evitare il rimpatrio. Ma due mesi in via Corelli possono portare al suicidio. I ragazzi con le tute della Croce Rossa lo sanno e danno le disposizioni, aiutati dagli agenti della scorta: "Adesso, due per volta, vi porteremo in un container dove vi spoglierete completamente e sarete perquisiti. Tutto quello che avete nelle tasche dovete metterlo in un sacchetto, che conserveremo noi. Anche la cintura, gli accendini. Dentro potete portare solo i soldi, le schede telefoniche e i cellulari, se li avete". Interviene il ragazzo con il camice da infermiere: "Ma anche tu sei già stata qui? Vedi, che ti ho riconosciuta?". E la seconda ragazza del gruppo, anche lei albanese. E tranquilla, perchè sa che uscirà presto: aspetta un bimbo, da un mese. "Allora - dice un graduato della polizia - tu prima lavoravi sul marciapiede e adesso ti sei sposata". "Sì, con un italiano", risponde la ragazza. "Bel cretino", la zittisce il poliziotto.

Seduti su sei sedie di plastica bianca in un capannone gelido, aspettiamo la perquisizione. Le due ragazze vanno per prime. Poi tocca a Ibrahim, 29 anni, un macedone sorpreso in mattinata a Legnano a chiedere monetine ai semafori, e a Khaled, 23 anni, che dice di essere iracheno e ha appena perso un lavoro in nero come meccanino in un garage milanese: "Telefonare al mio padrone? Inutile - spiega durante l’attesa -. L’accordo era che se mi trovava la polizia, perdevo il posto. Sono un clandestino. Ma quattro mesi fa sono già stato nel centro di Roma. E dopo 30 giorni hanno dovuto rilasciarmi". Ritorna un poliziotto: "Ladu e Astrit", chiama. Astrit è un albanese di 24 anni che non ha ancora capito dove si trova. Non parla italiano e sul furgone gli agenti gli hanno fatto pensare che lo stavano portando in un istituto di assistenza. Il container della perquisizione è gelido come il capannone, ma soprattutto sporco. Un agente apre la finestra. "Che fai? - gli chiede il collega -. Questi si devono spogliare". "Sì, ma puzzano", è la risposta. Qualcuno, come Khaled che indossa ancora i jeans da lavoro, si è fatto 20 ore in questura seduto su una sedia, senza poter mangiare, nè fumare, nè telefonare anche se per legge resta un uomo libero. Si è tutti un pò sudati. Ma l’odore sale dal pavimento lurido. E la finestra resta aperta. "Fuori tutto quello che avete nelle tasche - ordina l’agente -, toglietevi le scarpe e rovesciatele sul pavimento". Astrit improvvisamente capisce: "Io qua torna casa?", e si dispera picchiando un pugno sulla parete. La visita medica è una farsa. Ritorna il solito infermiere corpulento.

"Ladu, seguimi". Il dipendente della Croce Rossa entra per primo nell’infermeria: "Questo qua, dot - dice al medico - non ha nessuna malattia. Però, come gli altri, c’hanno addosso un profumino". Non sanno che capisco quello che dicono. E nessuno mi aveva chiesto del mio stato di salute. La pressione sanguigna viene presa a spanne, arrotolando sul bicipite le maniche di una maglietta, una camicia di jeans, un maglione di lana e il giubbotto di jeans: "No, no per carità - ridacchia l’infermiere -, non toglierti niente". Nuova attesa nel gelido capannone. Astrit abbassa la faccia e cerca di nascondere una lacrima, che a piccole tappe scivola dall’occhio al mento. Dorina piange ancora. L’altra ragazza viene richiamata in infermeria e abbandona per sempre il gruppo. "Ladu prendi, in questo sacchetto ci sono il pane e le posate per te e per lui - dice un altro ragazzo della Croce Rossa indicando Khaled -. Dormirete nel container numero 6". Le ultime consegne sono la coperta di lana, il sacchetto con lenzuola e federe di carta, spazzolino, una felpa blu con la scritta "Dono della Croce Rossa Italiana" e un cartoncino rettangolare identico a quelli che una volta si usavano per i pacchi postali: "Ladu, mi capisci? Tu sei il numero 2-5-8. Questo cartellino ti servirà per ritirare la cintura che teniamo noi. Prendi invece i soldi. E cos’hai qui, una penna? No, questa non può entrare". Sono le regole: gli ospiti della gabbia possono telefonare, se hanno soldi, ma non possono nemmeno scrivere una lettera a casa.

Il cancello della gabbia si apre scricchiolando. E si richiude con un colpo secco. Da questo momento per la legge si è sempre liberi cittadini: ma da qui non si può più uscire. La polizia resta fuori. Solo la Croce Rossa entra. Un piccoletto muscoloso con gli occhi sottili da indio delle Ande sbarra l’ingresso del container numero 6: "No aquí non se può. I marocchini sono più avanti, noi siamo già in sei", protesta. Poi cede. Ci mostra le due brande libere, con i materassi sudici e macchiati. Altri due sistemano il tavolino da giardino per farci cenare. I pasti, precotti, sono serviti in contenitori di plastica scaldati dalla Croce Rossa in un forno elettrico. La puzza di urina è come uno schiaffo. Colpa di chi ha progettato i container: la latrina è talmente piccola che per chiudere la porta bisogna mettere i piedi dentro la turca. Quando si esce, le suole distribuiscono sul pavimento il liquame raccolto. Anche perchè questi container li hanno sì presi dalle zone terremotate: ma da quelle dell’Irpinia, 20 anni fa, come indicano le etichette sopra gli ingressi. Dalla minidoccia, separata solo da una tenda, salgono odori di umidità, shampoo e sapone. Mangiando lì accanto, ci si presenta. Il piccoletto viene dal Perù. Altri due dall’Ecuador. Uno coi baffoni dalla Moldavia. Il più vecchio, 50 anni, che chiamano Zio, dalla Serbia, ma da 9 anni abita a Milano. E il sesto, pettinatura curata, sulla quarantina, è un kosovaro. Comincia il conto alla rovescia per Khaled. La prima di trenta serate: "Io spero. Sono del Nord Africa - confessa dopocena - ma se questa volta mi mandano a casa, non torno più". Non c’è niente da fare. Si passeggia su e giù, come i leoni nello zoo. La grande gabbia è lunga 135 passi e larga 70. Sul lato destro gli otto container per uomini. Dei dieci a sinistra, uno ospita ragazzi e ragazze cinesi, i più silenziosi. In due, dormono ragazze albanesi. Dagli ultimi tre in fondo, in una recinzione chiusa a chiave solo di notte, vanno e vengono giovani immigrate dell’Africa centrale: quasi tutte raccolte dalla strada. Gli ultimi due container in mezzo sono quasi invisibili, nascosti da un’altra recinzione a piccole maglie. È lo spazio dei travestiti, isolati nella loro diversità: 23 passi per 23. Un effetto ottico del recinto riduce il loro campo visivo a una cinquantina di centimetri. A destra e a sinistra la vista è ostruita da una barriera grigia. Ma si sono arrangiati: con le lenzuola di carta hanno costruito una rete, da un container all’altro, per giocare a pallavolo. Si distinguono subito quelli arrivati qui dopo una detenzione in carcere. Camminano e parlano affiancati, in due o tre, e quando arrivano in fondo al piazzale si girano di scatto per ricominciare nella direzione opposta. Come nelle ore d’aria. Due dei tre telefoni a scheda non funzionano. Il distributore di schede telefoniche è fuori servizio e anche quello delle monete. La macchinetta delle bibite, invece del tè, versa acqua calda zuccherata. Il locale tv è sporco e spoglio. Sui muri i messaggi d’amore di una ragazza croata, Gordana. D’odio: "Vafankoulu Italia". E di sopportazione: "La vie est dans sa souffrance", la vita è nella sua sofferenza.

Il televisore viene portato qui alle 17. Ma alle 23 la Croce Rossa se lo riprende e chiude a chiave i locali, fino al giorno dopo. Si rientra nei container, per il contrappello. Poi, chi vuole, torna fuori al gelo. Altri si sdraiano sperando che il sonno prenda il sopravvento sui rumori e la luce. I più fortunati, se così si può dire, fanno l’amore, nascosti solo dalla penombra, senza intimità. Nel caso di alcune scritte sui muri era amore vero. In altri semplice passatempo. Per alcune delle ragazze, la normale continuazione di un lavoro. Ma i più poveri, senza soldi, restano esclusi anche da questo. Nella grande gabbia si vive alla giornata e nessuno pensa all’Aids. Nemmeno le gravidanze spaventano. Chi scopre di essere incinta riottiene la libertà. E quasi sempre corre ad abortire. Sono i bambini di via Corelli, che non nasceranno mai.

Fabrizio Gatti
Milano, 19 gennaio 2000
da "Il Corriere della sera" - 19 gennaio 2000