Dopo l'ordine di sgombero del Centro Sociale Leoncavallo di Milano

Il Leonka non si sgombera, si rifonda

Intervista al portavoce Daniele Farina

LeoncavalloIl Leoncavallo sa sempre stupire questa città. In dieci anni, ha rivoluzionato 14 mila metri quadri di ex-stamperia, allargando i progetti senza sosta (dalla cucina popolare, alla produzione in loco di materiale edile in canapa antiproibizionista), ha ospitato culture e movimenti e si è battuto in città e in giro per il mondo dalla parte dei deboli. Bersaglio preferito della destra, davanti all'ennesima minaccia di sgombero, rilancia la sua visione della città e degli spazi pubblici autogestiti con una proposta "istituzionale". Nei giorni scorsi, in una visita al centro, alcuni consiglieri comunali (quasi tutti di centrodestra) hanno riaffermato l'importanza della permanenza e della stratificazione culturale del Leo (e c'è chi invoca le belle arti per gli stessi graffiti per cui si finisce in galera). Miracolo a Milano?

Ne parliamo con Daniele Farina, portavoce del Leoncavallo e consigliere comunale eletto nelle liste di Rifondazione Comunista.

Oggi scendete in piazza dicendo "Rivogliamo tutta la città". Perché?

Il Leoncavallo è un luogo destinato all'uso sociale collettivo. La manifestazione vuole dire questo, c'è una città che deve riappropriarsi di se stessa, del suo spazio pubblico. La nervatura della società civile milanese è stata messa a dura prova, ma anche l'identità e la partecipazione dei singoli. Per questo, credo in una mobilitazione di moltitudine, una fluida partecipazione dei singoli che condividono parzialmente la totalità dei temi e che riconoscono uno spazio pubblico nelle cose che costruisci. Se ci sono 250mila persone che in un anno attraversano il Leoncavallo per motivi tra loro anche diversi è impossibile che non si produca una stratificazione. Suo malgrado, ma non a caso, la storia del Leoncavallo diventa metafora della città perché racconta proprio del territorio e dei soggetti sociali.

Voi proponete una fondazione proprietaria del centro, come funzionerebbe?

La nostra idea è quella di andare in assoluta controtendenza rispetto a quanto succede a Milano. Alla privatizzazione del demanio, alle cartolarizzazioni e alla svendita delle aree dimesse a usi privati, noi rispondiamo con un esperimento sociale che diventa pubblico. La fondazione dovrebbe essere retta dall'azionariato popolare, dalle associazioni, da sostegni di credito "etico" e da enti pubblici. La gestione e l'autonomia del centro alle associazioni e collettivi che la gestiscono. E' un pezzo della soluzione che stiamo proponendo alla città. Esiste una differenza incolmabile tra valori di mercato e valori sociali. I centri sociali non si trasformano in supermercati.

Non è la prima volta che proponete una soluzione politica e pubblica alla questione?

L'idea di fondazione nacque già nel '95, non se ne fece nulla allora perché il meccanismo non poteva essere privatistico (centro sociale contro proprietà dell'area), oggi ci sono le condizioni perché si possa andare invece verso la creazione di un primo esperimento di contenitore di soggetti pubblici e privati, in quell'area simbolica di carattere pubblico che è il centro sociale Leoncavallo. La fondazione deve essere un prototipo perché se funziona qua con enti locali avversi e in un contesto economico di tale importanza, sarebbe un segnale forte per altre realtà dove potrebbe essere più facilmente riproducibile.

Che effetto fa vedere alcuni consiglieri di Forza Italia sostenere la necessità della permanenza del Leo in via Watteau?

Sta nel gioco della parti e del palazzo. Il dato sembra irreale, ma se torniamo al 1993-94 (con la giunta leghista Formentini, ndr), gli anni del primo blocco repressivo al governo di questi quindici anni milanesi, il clima è notevolmente cambiato. C'è un esaurimento delle loro politiche, dopo avere svuotato la cassa e venduto il vendibile. Hanno fallito, perché tra promesse e realizzazioni effettive c'è un dislivello evidente e percepito. Alle grandi opportunità che una città come Milano si dice offra, fanno da contraltare le condizioni peggiori in cui vive la più grande parte. In 25 anni abbiamo perso mezzo milioni di abitanti ed è grazie ai flussi migratori che la città funziona ancora. I meccanismi effettivi di integrazione sono stati bloccati e rigettati dalla maggioranza. Credo che tra poco se ne andranno.


1975, comincia l'avventura: dalla sede storica di via Leoncavallo 22, all'omicidio di Fausto e Iaio, fino ai disobbedienti di oggi: un mito che resiste

Nell'ottobre del 1975 viene occupata la sede storica di via Leoncavallo 22. Proletari, studenti, autonomi e altri, cominciano una lunga avventura che farà del luogo e del nome un mito. In tante storie italiane di lotta c'è sempre un lutto violento e devastante da portar nella memoria, a cementare esperienze e luoghi di resistenza. Per il Leo arriva subito nel marzo 1978, nella Milano delle lotte più forti e inquiete, con l'assassinio di Fausto e Iaio per mano di sicari fascisti.

Da allora, il centro porta il loro nome. Da allora, ogni anno e senza retorica "le mamme del Leoncavallo" insieme a tutta la Milano antagonista e antifascista si ritrovano per chiedere ancora verità e giustizia.

Negli anni '80, nella Milano craxiana e "da bere", il Leo, come molti altri centri in città e in Italia, diventa la palestra di una nuova generazione di militanti che occupano case e resistono agli sfratti, vivono e pensano la rottura che si sta consumando con il lavoro e la ridefinizione della "classe". Un movimento politico e culturale che nella riappropriazione e socializzazione dei luoghi costruisce l'area più originale e antagonista di quegli anni.

Nel 1989, il primo sgombero voluto dalla giunta Pillitteri. Il centro sociale resiste. Nelle aule dei tribunali sarà tutto pagato a caro prezzo (oltre 4.000 processi a carico dalla sua nascita). La sede sarà demolita, ma si riparte dalle macerie. Fino alla giunta leghista di Formentini che ingaggia una battaglia furiosa contro il Leo riuscendo a farlo sgomberare nel gennaio 1994. Centottanta giorni di centro sociale in strada e in via Salomone, fino al 10 settembre dello stesso anno con l'occupazione di via Watteau e manifestazione nazionale in sostegno. Succederà un pandemonio, una Genova in miniatura. Ma il Leo resiste e da Watteau si riparte. Uno spazio gigantesco e popolare. Lavori di ristrutturazione, apertura di spazi nuovi (culturali, ricreativi, teatrali, laboratori, la cucina). Poi la Carta di Milano, Ya Basta e le Tute bianche fino ai Disobbedienti di oggi. Il Leo ha triturato vite, passioni e storie politiche, rimanendo sempre vivo. Diverso da tutto.

Claudio Jampaglia
Milano, 31 maggio 2003
da "Liberazione"