Nelle terre dell'imprenditoria diffusa stranieri e indigeni devono arrangiarsi

Nel Nordest italiano c'è un'emergenza, si chiama xenofobia

Spaesati, sperduti in casa propria, sfiduciati, insospettiti, rancorosi. Ecco la nuova antropologia dell'uomo del Nord.

È vero, al Nordest c'è un'emergenza, un grave "allarme sociale", si chiama xenofobia. Non che non ci sia sempre stato un sottofondo di razzismo specie in chiave antimeridionale, solo che ora è diventata moneta corrente sul mercato della politica. E' una corsa tra sindaci a chi spara l'ordinanza più greve. Prefetti e ministero dell'Interno stanno a guardare. In pericolo è la dignità e la sicurezza quotidiana della vita di migliaia di persone, dei lavoratori migranti. Spinti dall'impoverimento dei propri paesi d'origine, richiamati dalle lusinghe di un salario, si sono ritrovati in mezzo all'ostilità delle popolazioni, senza tutele, senza rappresentanza. A fare i mestieri più sporchi e rifiutati; schiavi in fabbrica, servi in casa, prostitute nelle strade.

Nel Veneto, ad esempio, evidente è l'etnicizzazione del mercato del lavoro: gli stranieri sono quasi il 7% della popolazione (dai 143mila ai 200mila a seconda delle statistiche), ma costituiscono il 25% dei flussi di assunzione nei centri per l'impiego. Interi settori produttivi (concia, fonderie, edilizia, serre…) sono completamente occupati da stranieri. E il flusso continua, senza sosta: a fronte di una "quota" fissata per il prossimo anno a 13.100, al primo "clic day" sono giunte 350mila domande di ingresso. Secondo la Caritas due terzi almeno sono persone già presenti nel territorio come "clandestini", che hanno un lavoro e che ora chiedono la regolarizzazione. Del resto l'economia tira: «Il meccanismo dei flussi di ingresso per gli immigrati è troppo lento, incompatibile con le esigenze delle aziende», afferma la Unindustria di Treviso. Peccato che le comunità benpensanti e ben piazzate nei ridenti, opulenti centri urbani non li vogliono nemmeno vedere.

Qui, nella città diffusa, non ci sono banlieue. Gli operai immigrati sono confinati ai margini delle cittadine, nei casolari e nei paesi collinari abbandonati. Scendono nelle zone industriali la mattina presto e si ritirano quando già s'è fatto buio. Badanti, commesse, cuochi, portieri e servizi vari, invece, emergono dal loro luogo di servizio la domenica mattina e si ritrovano in spazi abbandonati di periferia per tenere i contatti tra loro, inviare mercanzie a casa, scambiarsi informazioni. L'apartheid funziona per aree. A parte l'attività compassionevole del volontariato, politiche di integrazione non esistono. Nelle terre dell'imprenditoria diffusa, del capitalismo molecolare: welfare zero, né per gli indigeni, né per gli stranieri. Arrangiarsi. Una trasformazione così repentina, epocale, che ha travolto modelli di vita, rotto relazioni e comportamenti sociali, sfibrato i tradizionali "controlli sociali" comunitari.

Spaesati, sperduti in casa propria, sfiduciati, insospettiti, rancorosi. Ecco la nuova antropologia dell'uomo del Nord. Non è che sia cattivo di suo, lo è diventato inserito in un ingranaggio economico ipercapitalistico che produce squilibri e lacerazioni. Si dice che la Romania sia la ottava provincia del Veneto. Ci sono più imprese venete lì che non a Venezia. Ci sono oltre 20mila imprese con capitale italiano in Romania con 800mila occupati. E come pretendere - in un mondo interconnesso e interdipendente - che i rumeni non tentino di venire a lavorare in Italia, sulla base di un elementare principio di reciprocità? E con quale autorità morale l'Italia può scegliere cosa prendere e cosa no? Vorremmo solo giovani, sani e ubbidienti. Invece vengono anche affamati, sbandati e spiantati. Un bersaglio perfetto per tenere sotto tiro l'intera massa dei migranti, per ricordare loro le gerarchie sociali, per far sentire il morso dell'autorità. Ma anche per offrire uno sfogo alle angosce, alla perdita di coesione e solidarietà sociale tra gli autoctoni. Un ottimo capro espiatorio contro cui scaricare le angosce, le paure e le insicurezze generate da una vita senza senso e senza futuro, schiava anch'essa di un capitalismo totalizzante, espropriante, alienante.

Come diceva quel tipo: il guinzaglio lega cane e padrone, reciprocamente. Il pacchetto securitario, le deportazioni di massa, le politiche di carcerazione non fanno che rafforzare il guinzaglio, quando sarebbe meglio per tutti tagliarlo.

Paolo Cacciari (deputato Prc-Se)
Roma, 18 dicembre 2007
da “Liberazione”