Intervista a Khawar Mumtaz fondatrice della Commissione diritti umani del Pakistan

Il femminismo, l'Islam e la società civile

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Sarà lo spirito di Porto Alegre, che induce a sintonizzarsi sulle similitudini più che sulle differenze, oppure sarà un eccesso di laicismo, che rischia di farti sottovalutare le motivazioni religiose, ma di Khawar Mumtaz, fondatrice della Commissione diritti umani del Pakistan e di Shirkat Gah, il Centro per la ricerca sulle risorse delle donne di cui è oggi direttrice, colpisce soprattutto l'universalità del linguaggio. L'Aidos, Associazione italiana donne per lo sviluppo, ha organizzato un incontro con la stampa presso la sede della Society for International Development, di cui Khawar Mumtaz è presidente.

Qual è la situazione delle donne pakistane rispetto a quelle dei paesi vicini, come Afghanistan e India?

In realtà non è molto diversa da quella delle donne afghane o indiane: la concezione tradizionale vede la donna come una proprietà della famiglia e la priva della possibilità di prendere decisioni che riguardano la propria vita. Il livello di alfabetizzazione è bassissimo così come l'assistenza sanitaria riservata alle donne e la loro incidenza nella vita politica dei propri paesi. Naturalmente ci sono delle differenze: in Pakistan, ad esempio, il 35 per cento delle donne sono alfabetizzate, contro il 10 per cento delle donne afghane. E differenze ci sono anche all'interno dei paesi stessi a seconda dell'etnia di appartenenza o della condizione sociale. I grandi cambiamenti in corso, infatti, riguardano soprattutto le donne delle classi medio-alte che vivono nelle città, mentre nelle zone rurali del Pakistan, così come in India, la condizione femminile resta drammatica.

Ci parli di Shirkat Gah e della sua militanza femminista.

Prima dell'81, anno in cui ho cominciato a impegnarmi nel movimento delle donne, ero coinvolta nel movimento socialista attivo nelle fabbriche e nelle zone rurali del paese. Dopo il colpo di Stato del generale Zia il nuovo governo ha dato inizio alla sua politica di islamizzazione introducendo nuove leggi, in verità ben poco islamiche ma molto autoritarie, che hanno segnato un peggioramento della condizione femminile. Sono seguite forti mobilitazioni da cui è nato il Forum per i diritti delle donne, donne che in un'economia prevalentemente agricola come quella pakistana, forniscono un contributo decisivo, naturalmente non riconosciuto né dalle loro famiglie né dalle statistiche economiche. Una situazione comune a quasi tutte le società agricole tradizionali del mondo.

Lei parla di grandi cambiamenti: in che cosa consistono?

Si tratta, secondo me, di un momento storico molto importante. E' vero, come dicevo, che si può parlare di due società: le professioniste urbanizzate che stanno rapidamente conquistando notevoli diritti e la società rurale, dove le donne ne sono assolutamente prive. Ma la contaminazione fra le due società sta cominciando a dare i suoi frutti. L'anno scorso siamo riuscite a ottenere che nelle elezioni amministrative il 33 per cento dei seggi fossero riservati alle donne, a fronte di una presenza del 2 per cento, cosa che ha portato all'elezione di 308 rappresentanti locali. Naturalmente questo non basta: puntiamo a ottenere delle quote di rappresentanza anche nelle elezioni politiche.

Se non sbaglio si tratta di una riforma messa in cantiere quando il Pakistan era governato da una donna, Benazir Bhutto…

Sulla questione delle quote c'è stata una dura battaglia parlamentare durata molti anni e sicuramente la Bhutto si è mostrata molto dinamica, per quanto dovesse fare i conti con una forte opposizione. Non è un caso che l'ultima legge a favore delle donne, che riservava loro il 5 per cento di posti di lavoro nel pubblico impiego, sia stata proprio sua. Il suo dinamismo, e l'influenza della piattaforma di Pechino, ha messo in moto un processo di attivazione della società civile e ha costretto il governo militare a concedere degli spazi alle donne.

Quale è stato l'impatto della guerra sulla realtà pakistana?

Indubbiamente il repentino cambiamento della politica di Musharraf nei confronti degli islamisti ha in qualche modo favorito i gruppi di donne che, per anni, hanno dovuto subire gli attacchi dei fondamentalisti. Non parlo di noi in particolare che, situandoci sotto il cappello del Forum delle ong pakistane, siamo state sempre abbastanza protette ma mi riferisco in particolare a quelle organizzazioni che lavoravano soprattutto nelle zone di confine come la RAWA o altri gruppi di donne. Resta il fatto che la guerra, in Pakistan, significa soprattutto l'arrivo di altri profughi. Le condizioni di vita nei campi sono disperate e non possono non avere un forte impatto nell'area in cui sorgono, sia dal punto di vista ambientale che in termini di forza lavoro a bassissimo costo. Malgrado ciò le popolazioni locali sono riuscite a costruire una rete di solidarietà, e i gruppi di donne riescono ad alleviare la drammatica situazione dei profughi, almeno per l'aspetto sanitario e educativo.

Quanto vi tocca il peggioramento delle relazioni fra India e Pakistan?

La cosa triste della guerra, di tutte le guerre, è che vengono decise dagli uomini ma poi colpiscono soprattutto donne e bambini che non hanno alcun diritto di influenzare quelle decisioni. Ovviamente la società civile e il movimento delle donne di ambo i paesi sono molto attivi nel promuovere la pace ma sarebbe ingenuo pensare che le relazioni fra i due paesi non siano influenzate dalle decisioni prese dai rispettivi governi. Resta il fatto che la condizione femminile, pur con gradi diversi, è la stessa in tutta l'area e dobbiamo lottare, e duramente, perché all'incremento del ruolo produttivo delle donne corrisponda anche un miglioramento della loro situazione sociale e della loro presenza nella rappresentanza politica.

Come pensate di muovervi?

Si tratta di sviluppare queste capacità nel contesto dove vivono le donne, mi riferisco in questo caso alle aree rurali, e non imporle dall'esterno. Si tratta di mobilitarsi in tutti i modi possibili, con le diverse strategie dei diversi gruppi che partecipano a questo movimento. Noi del Shirkat Gah, in particolare, stiamo lottando per ottenere che venga riservata alle donne una quota del 20 per cento dei seggi parlamentari. Quello che abbiamo ottenuto negli ultimi trent'anni ci fa ben sperare.

Sabina Morandi
Roma, 21 febbraio 2002
da “Liberazione”