Legge 194

Io dico: l'aborto non è un dramma

Chi usa la parola dramma (al di là della sua esperienza) lo fa per un fatto spesso opportunistico: non si vuole dare all'avversario politico l'occasione di nuovi argomenti.

E' in pieno svolgimento una campagna ideologica che fa di tutto per riportare le donne al ruolo di madri e basta, cioè contenitori biologici degli eredi di una società maschile. Si vuole cancellare la loro molteplice identità.

La negazione della libera scelta se avere un figlio o non averlo parla di questa crociata, e soprattutto parla della paura maschile davanti alla libertà delle donne.

Come si risponde a questa crociata, a questo vero scontro di civiltà che vede uniti cattolici e musulmani? Importante andare in piazza per dire basta, importante mettere in discussione l'identità maschile, il rapporto uomo-donna, la sessualità e una struttura della società basata sull'omofobia. Importante sarebbe anche riflettere sul linguaggio che usiamo, sulla rappresentazione che noi per prime diamo dell'aborto, del rapporto che abbiamo col nostro corpo.

In questi giorni di presa di parola per respingere l'attacco contro la legge 194 si è spesso sentito dire: «Ma come vi permettete di criticarci. L'aborto è un dramma e le donne non lo fanno mai a cuor leggero». Lo hanno detto dal palco della manifestazione di Milano, è stato scritto sui giornali, lo hanno sottolineato diverse donne delle istituzioni. L'equazione responsabilità femminile nella procreazione e dramma dove porta? Conviene alla posizione che vogliamo sostenere? Penso di no a partire da un fatto empirico: non è vero che per tutte le donne l'aborto si connota in questo modo. Per molte è un'esperienza importante, di crescita, un passaggio che può portare verso una maggiore consapevolezza. Per altre è espressione di un conflitto razionale o inconscio. Per alcune è un evento doloroso non di per sé, ma perché coincide con la fine di una storia, perché si trovano ad affrontare condizioni economiche e sociali difficili. Altre reagiscono in modo ancora diverso. Ma per loro non è un dramma. Lo sarebbe sicuramente se non avessero questa possibilità di scegliere se essere madri o non esserlo. Esistono vari modi di vivere un aborto, tanti quanti sono le individualità che attraversano quell'esperienza. Negarlo è negare che le donne non sono ruoli o icone, ma individue che affrontano in maniera personale le scelte che si trovano a compiere.

Chi usa la parola dramma (al di là della sua esperienza) lo fa per un fatto spesso opportunistico: non si vuole dare all'avversario politico l'occasione di nuovi argomenti. Si pensi a come reagirebbe Buttiglione: «Ma come, abortite, e non vi sentite nemmeno un po' in colpa? Non lo vivete neanche come un evento drammatico?». Proprio questa reazione dovrebbe far interrogare sull'opportunità di restare, con il linguaggio, nello stesso orizzonte simbolico e ideologico di chi vuole negare la libera scelta delle donne.

Certo, se la questione si limitasse a un fatto di opportunità, sarebbe facile trovare un punto d'accordo. Il problema è però molto più serio. La parola dramma abbinata all'aborto e alla responsabilità femminile è una spia di una metafisica del corpo e della vita di cui spesso siamo complici, anche se non volutamente.

La discussione che si è aperta nel Paese, potrebbe essere l'occasione per confrontarsi anche su questo punto, per chiarire a quale ideologia ci ispiriamo, a quale filosofia facciamo riferimento. Potrebbe essere l'occasione perlomeno per fare un po' di chiarezza: quando una donna dice aborto uguale dramma, parla per sé, non per tutte. Non parla per me.

La critica alla metafisica del corpo (e della nascita) non significa negare la responsabilità femminile. Significa al contrario legarla alle singole esperienze, ai soggetti in carne e ossa. La vita, hanno scritto femministe, giuriste e giuristi, intellettuali, inizia nel momento della relazione tra la madre e il figlio o la figlia. E' una scelta. Un grande potere che le donne hanno e che gli uomini, storicamente, hanno cercato di limitare, inglobare. Hanno invidiato, a volte odiato. Il potere femminile di procreare (la libertà di scelta e la responsabilità) va messo in relazione con i soggetti reali, con le esperienze concrete.

E' un passaggio difficile, ma importante perché sottrae le donne alla riduzione del loro corpo o a mero contenitore o a espressione di un'idea della vita che può essere dei cattolici, dei mistici, dei metafisici o dei musulmani, ma non è di tutte, né di tutti. E' la grande sfida che abbiamo davanti e che le nuove tecnologie di riproduzione rendono sempre più urgente: dare valore alla vita, a tutte le vite, dalla più piccola alla più grande, senza ricadere nella metafisica, né nella fede. Dare valore alla vita qui e ora, nel momento che viene al mondo se una donna lo vuole.

Angela Azzaro
Roma, 22 gennaio 2006
da "Liberazione"