Mi propongo in queste note di sostenere che la `società
globalizzata', nella quale secondo molti osservatori oggi viviamo,
si avvia a essere simile, in certi aspetti non secondari, alle
società in cui spadroneggia la mafia.
L'obiettivo è minimale: di
fronte all'insistenza con cui viene teorizzata l'epifania di un
`nuovo ordine mondiale' - che gli apologeti chiamano `civiltà
superiore' e i detrattori (rectius, sedicenti tali) `impero' -
suggerire qualche irriverente analogia fra il `villaggio globale' e
quel villaggio siciliano descritto da Anton Blok in un fortunato
libro del 1974 vorrebbe essere solo un modo di indicare quanto
disordine c'è in giro e quanto illusorio sia ritenere il
contrario.
Naturalmente, una simile operazione richiede non solo
una certa definizione della mafia e una certa ricostruzione dei suoi
rapporti con l'economia e la società, ma anche una descrizione della
forma oggi assunta dai processi di produzione e circolazione della
ricchezza sociale: tutti compiti largamente superiori alle capacità
di chi scrive. Mi limiterò, quindi, a esporre e ad accostare taluni
fatti stilizzati, soprattutto per sollecitare altrui riflessioni e
considerazioni al riguardo.
Ricordo che un `fatto stilizzato'
serve a comunicare rapidamente alcune cose che si ritengono vere (o
comunque abbastanza prossime al vero), evitando di perdersi in una
pletora di dettagli. Sbaglierebbe, perciò, chi cercasse nelle note
che seguono `tutta' la verità; ambirei semplicemente ad aver detto
`nient'altro' che la verità.
Una decina d'anni fa, in un libro
che suscitò molte discussioni e polemiche, il sociologo Diego
Gambetta sostenne che la mafia è un'industria che, in concorso con
altre istituzioni sociali (tra cui lo Stato), produce, promuove e
vende `protezione' in un determinato territorio, garantendo i
soggetti, le transazioni e i mercati protetti con l'uso della
violenza.
`Industria' non deve far pensare a un'entità
centralizzata: Gambetta usava il termine in senso marshalliano,
mettendo in luce che il bene `protezione' è fornito da numerose
`imprese' (le `famiglie' mafiose) tra loro in concorrenza, anche se
legate da un `cartello', e che quindi è fuori luogo attendersi da
esse il rispetto di criteri di universalità nella fornitura delle
prestazioni o di eguaglianza di trattamento; la mafia, proseguiva
Gambetta, non è uno «Stato minimo» à la Nozick, capace di assicurare
il controllo totale dell'uso della forza su un certo territorio e di
proteggere chiunque viva su quel territorio: essa vende protezione
su basi private, sicché prezzo, quantità e qualità del servizio
possono differenziarsi a seconda del rapporto che si instaura tra
fornitore e acquirente.
Tuttavia, osservava Gambetta, affinché
un'economia di mercato funzioni al meglio occorre che determinati
servizi non siano `privatizzati'. Legislazione, amministrazione e
giurisdizione debbono essere organizzate su basi universalistiche,
il che significa che le elezioni politiche, l'assegnazione delle
pubbliche cariche e dei pubblici incarichi, l'amministrazione della
giustizia e la protezione dei diritti individuali non debbono
potersi vendere o comprare sul mercato. Di contro, se in un
determinato territorio la protezione è affare privato, anche questi
beni vengono `privatizzati'. Ne discendono relazioni sociali
`personalistiche', caratterizzate, come scrisse Leopoldo Franchetti
nella sua celebre inchiesta sulla Sicilia (1876), da un lato da
fedeltà, amicizia e devozione senza remore, dall'altro dalla
formazione di clientele, che avranno al loro centro uno o più
individui potenti ai quali si rivolgerà ogni persona che abbia
bisogno di aiuto per far rispettare un suo diritto o per commettere
un abuso.
Sennonché, un sistema economico in cui non c'è
universalità del precetto né della sanzione e in cui la `fede
privata', fondata sulle relazioni amicali e parentali, domina sulla
`fede pubblica', è caratterizzato, come ben sanno gli economisti,
dalla generale riluttanza alla cooperazione allargata e impersonale
e dall'intrinseca instabilità di ogni accordo, il che reca con sé la
stagnazione dell'industria e del commercio. «Le zone del Mezzogiorno
afflitte dalla mafia - concludeva perciò Gambetta - sono precipitate
pertanto in un tragico circolo vizioso dove gli unici mercati
veramente vivaci sono quelli in cui si commerciano i beni
sbagliati.»
L'idea che la mafia sia un'industria che fornisce un
servizio identificabile con la `protezione' non è del tutto
originale: che di industria si trattasse lo diceva lo stesso
Franchetti (che però parlava di «industria della violenza»), mentre,
che la mafia si occupasse a suo modo di protezione era stato
sostenuto, tra gli altri, da Henner Hess e da Raimondo Catanzaro. Ma
per quanto non nuova, l'idea ha sollevato numerose critiche, alcune
delle quali volte a escludere che la protezione accordata dalla
mafia sia realmente un `valore d'uso', altre a negare che nella
fornitura di protezione si possa cogliere la quintessenza del
fenomeno mafioso.
In effetti, che un'organizzazione criminale
possa fornire un servizio (anzi, un servizio `essenziale' come la
protezione) è controintuitivo, specie di fronte alla normale
rappresentazione che si ha della mafia come organizzazione dedita a
commerci illeciti (contrabbando, traffico di stupefacenti, usura,
riciclaggio ecc.) o all'estorsione. Per capire come ciò sia
possibile è quindi opportuno, in prima battuta, ricorrere a un
modello analitico elaborato nel 1980 da Alan Block (e ripreso qui da
noi da Salvatore Lupo) per distinguere le due forme tipiche di
criminalità organizzata che operavano a New York fra gli anni trenta
e cinquanta del secolo scorso.
Supponiamo che un gruppo criminale
debba far transitare una partita di droga di ingente valore
attraverso un aeroporto italiano. Se la droga fosse una merce
legale, il gruppo potrebbe porsi al riparo dal rischio di furti
stipulando un'assicurazione e fidando nella sorveglianza
aeroportuale da parte delle forze dell'ordine. Ma in Italia la droga
non è una merce legale, quindi è escluso che il gruppo criminale che
ne è proprietario possa accedere agli strumenti legali di
protezione. Non gli restano che due vie: o provvedere in prima
persona alla protezione della merce, sopportando i relativi costi, o
- supponendo che quel luogo di transito sia `controllato' da un
altro gruppo criminale - entrare in contatto con quest'ultimo, per
farsi `garantire' che la merce giunga a destinazione.
In questo
modello, come si vede, operano due distinti attori: il gruppo che
organizza il traffico illecito (in specie, di droga) e quello che
controlla il territorio (Block chiama il primo enterprise syndicate,
il secondo power syndicate). L'accordo tra i due concreta un vero e
proprio atto di scambio, in cui il primo gruppo paga un compenso
monetario per ricevere dal secondo un `servizio' genuino, che di
norma consisterà nel poter fare affidamento sulla rete di connivenze
di cui esso gode (p. es. poliziotti compiacenti). Ovviamente, nulla
vieta che il primo gruppo eserciti le medesime funzioni del secondo
in un altro aeroporto, né che il secondo organizzi a sua volta altre
spedizioni di droga: di norma, le famiglie mafiose fanno l'una e
l'altra cosa. È indubbio, però, che da un punto di vista funzionale
ci troviamo di fronte a forniture di merci differenti: una merce
illegale nel primo caso, la protezione come merce nel secondo. Non
si deve, perciò, confondere la fornitura di protezione con la
fornitura di merci illegali: in primo luogo, perché imprenditori di
beni illegali ce ne sono dappertutto e allora si è costretti a
cercare la specificità della mafia in particolarità culturali,
`etniche', `razziali' et hoc genus omne dei siciliani; in secondo
luogo, perché identificando la mafia con l'enterprise syndicate si
rischia di perdere di vista che la `risorsa' fondamentale, per
un'industria della protezione quale essa è, è la capacità di
controllo del territorio.
Quest'ultimo punto, d'altra parte, non
deve indurre in un altro errore analitico. È noto che una delle
caratteristiche dello Stato moderno risiede nella sua pretesa di
detenere il monopolio della violenza (o meglio, della protezione
legale, la violenza ponendosi rispetto ad essa in rapporto di mezzo
a fine) sul territorio soggetto alla sua sovranità. Il fatto che
esistano gruppi, in specie mafiosi, che ambiscano a fornire
protezione nell'ambito di uno Stato sovrano non deve far pensare che
essi siano dotati di una speciale caratura `politica'. In realtà,
questi gruppi fanno politica come può far politica un'industria,
cioè cercando senza troppi scrupoli di cambiare a proprio favore le
regole vigenti; è invece assente, in essi, ogni considerazione circa
l'attitudine dei propri interessi economico-corporativi a `farsi
Stato', diventando cioè - in armonia con quanto impone una
concezione moderna della politica - interessi universali, in grado
di promuovere uno sviluppo di cui possano beneficiare concretamente
anche i gruppi assoggettati al loro dominio/direzione intellettuale
e morale (nel che, osservava Gramsci, «è la fase più schiettamente
politica» dell'evoluzione dei rapporti di forza tra gruppi sociali
in competizione per l'egemonia).
Non si deve pensare che la
protezione mafiosa sia un sostitutivo perfetto della protezione
statale. Un motivo piuttosto semplice risiede nel fatto che chi
offre protezione ha tutto l'interesse a suscitare la domanda della
merce che vende, cioè - fuor di metafora - a creare condizioni di
insicurezza negli scambi, che possano rendere desiderabile l'esser
protetti: dalle `lettere di scrocco' a certi sinistri avvertimenti
fino al danneggiamento o alla distruzione di beni, al limite
all'omicidio, l'esperienza offre un vasto campionario di come i
mafiosi riescano a immettere sul mercato dosi limitate di `sfiducia'
allo scopo di piazzare la loro merce a caro prezzo. Ma nel contempo
è riduttivo affermare che la mafia protegge da pericoli che essa
stessa crea, come sostengono coloro che assimilano protezione ed
estorsione. Basterà qui un altro esempio.
Tra i modi tradizionali
attraverso i quali gli imprenditori danno luogo a intese collusive a
danno della concorrenza vi sono la spartizione dei territori (io
vendo qui, tu vendi là, ecc.) o la spartizione dei clienti (io vendo
a Tizio, tu a Caio, un altro a Sempronio ecc.). Supponiamo invece
che in un certo territorio vi sia un solo cliente (ad esempio, un
ente pubblico) che debba effettuare periodicamente acquisti di beni
o servizi. In tale evenienza, l'unico modo per raggiungere un
accordo di cui possano beneficiare tutte le imprese che operano in
quel territorio è quello di stabilire dei `turni': oggi vendo io,
domani tu, dopodomani un altro, ecc.
Naturalmente, se non c'è
nessuno che si fa garante della tenuta dell'accordo collusivo,
difficilmente quest'ultimo verrà concluso, perché per ciascuno dei
partecipanti è troppo forte l'incentivo a tradire la promessa (cioè
a vendere in giorni diversi da quelli stabiliti) perché gli altri si
fidino. Gli esiti possono essere diversi se qualcuno si assume il
compito di proteggere le parti dall'eventualità della defezione
altrui: se questo `qualcuno' è sufficientemente credibile, è assai
probabile che l'accordo - che, si noti bene, è vantaggioso per tutti
i partecipanti - venga stipulato.
Secondo il racconto di Angelo
Siino, in Sicilia la spartizione degli appalti pubblici avveniva
(avviene?) tramite un sistema del genere: era stata organizzata una
`coda' (il cosiddetto `tavolino'), in base alla quale un'impresa
presentava un'offerta idonea ad aggiudicarsi un certo appalto,
mentre le altre o non si presentavano oppure, sebbene formalmente
concorressero all'aggiudicazione, presentavano offerte sballate, in
cambio della garanzia di aggiudicarsi appalti successivi. La mafia,
in cambio di una percentuale sul valore dell'appalto, controllava
che le imprese rispettassero il turno (secondo indicazioni
provenienti dall'ambiente dei costruttori edili, vi erano `code' che
arrivavano a contare centosessanta imprese), comminando le relative
`sanzioni' per coloro che non fossero stati ai patti.
Alle
`conseguenze economiche della mafia' si è già accennato in apertura
di queste note, ma conviene qui scendere un po' più in profondità.
La letteratura esistente in argomento - mi riferisco qui agli studi
di Mario Centorrino e Guido Signorino - muove da un dato a prima
vista inspiegabile: interrogati dall'associazione di categoria sugli
ostacoli al fare impresa nell'Italia meridionale, gli industriali
collocano la presenza della mafia al sesto (!) posto, dopo
l'inefficienza delle amministrazioni locali, la carenza di dotazioni
infrastrutturali, il costo e la rigidità del lavoro, l'onerosità
dell'accesso al credito e il peso del fisco.
Di fronte a un dato
del genere, in effetti, diventa ragionevole supporre che le imprese
abbiano messo a punto opportune strategie al fine di internalizzare
i costi della protezione privata e massimizzare comunque i profitti,
imparando così a convivere con la mafia. Per comprendere quali siano
tali strategie, conviene ancora muovere dalla struttura del
`contratto di protezione'.
Va premesso, al riguardo, che non
sempre la mafia richiede, quale pagamento della protezione
accordata, un corrispettivo in denaro: non è infrequente, anzi, che
invece che vile moneta vengano richiesti `servizi' particolari, come
l'assunzione di certe persone, un certo `riguardo' nella gestione
del personale (specie di quello assunto come corrispettivo del
pagamento), l'imposizione di certe imprese come fonti di
approvvigionamento del capitale circolante (materie prime,
semilavorati, macchinari, ecc.) o come subappaltatrici. In casi del
genere, ovviamente, l'imprenditore subisce una limitazione della sua
facoltà di organizzare i fattori della produzione in vista del
conseguimento del massimo profitto, il che si traduce in un
innalzamento dei costi di gestione. La domanda, allora, è: perché,
di fronte a questo innalzamento dei costi, vi sono imprese che
fuggono e altre che restano?
Una prima risposta potrebbe far leva
sul concetto di x-Efficiency, elaborato negli anni Sessanta da H.
Libenstein. Muovendo dal rilievo empirico che, a parità di dotazione
di capitale e forza lavoro, non tutte le imprese raggiungono i
medesimi standard di efficienza e argomentando che la maggiore
rigidità organizzativa imposta dalla necessità di acquistare la
protezione privata non produce, a parità di struttura degli inputs,
i medesimi effetti, si potrebbe ritenere che a fuggire siano le
imprese meno efficienti, per le quali l'aumento dei costi innalza
insopportabilmente il break-even point.
In realtà, non è detto
che sia così. Uno degli aspetti di efficienza delle imprese, in
tempi di mondializzazione, sta nella capacità di percepire le
occasioni di profitto presenti in vari mercati, sfruttando all'uopo
la mobilità geografica. Ciò significa che, di fronte a qualsiasi
mutamento nella struttura dei costi, le più efficienti di loro
valuteranno attentamente l'opportunità di rilocalizzare
l'investimento verso quei mercati che risultano più convenienti. In
questo modo, la presenza della mafia provocherebbe uno di quei
fenomeni che gli economisti designano come adverse selection: il
meccanismo spontaneo del mercato, infatti, favorirebbe la permanenza
in loco delle imprese meno efficienti.
Ora, una popolazione
imprenditoriale inefficiente in tanto può sopravvivere in quanto
riesca a dar luogo ad intese collusive volte a restringere il
mercato.
Ove, poi, si ponga mente al fatto che la disponibilità
della protezione mafiosa incentiva le imprese alla stipula di
accordi collusivi, si comprende sia la riluttanza degli imprenditori
a `resistere' (tra il 1997 e il 1998 le denunce per estorsione nel
Mezzogiorno sono diminuite del 4,2% e al settembre 1997 solo 10
miliardi dei 150 stanziati per le vittime dell'estorsione
risultavano erogati a seguito di denunce), sia il fatto non
infrequente che la connivenza tracimi in collegamento organico con
una famiglia mafiosa, mediante la stipula, per così dire, di un
contratto di protezione `a tempo indeterminato': onde non a torto si
è parlato e si parla di «borghesia mafiosa» (M. Mineo, U. Santino).
Il risultato finale è quello che normalmente si ricollega
all'utilizzo di pratiche collusive: produzione meno efficiente,
prezzi più alti e imprese più piccole. Vedere per credere.
Ho
taciuto fin qui di un problema sul quale da tempo si arrovella la
mafiologia, quello delle origini della mafia, ma nulla di più della
sua illustrazione può servire a cogliere il senso della proposta
interpretativa presentata in queste note.
La prima metà
dell'Ottocento è unanimemente considerata dagli storici come un
periodo di grandi cambiamenti in terra di Sicilia, legati alla
soppressione del regime feudale (che data dalla costituzione
approvata dal Parlamento siciliano nel 1812) e all'affermarsi di un
assetto della proprietà terriera di tipo borghese. Il cambiamento
non fu indolore: in molti (troppi) casi, l'abolizione dell'ancien
régime generò aspre contese - vuoi sulle terre demaniali, vuoi sugli
usi civici, vuoi sul regime della proprietà fondiaria e sull'uso dei
suoi prodotti, vuoi sul controllo della forza lavoro contadina - che
ebbero come effetto la moltiplicazione dell'incertezza in ordine ai
rapporti di proprietà.
Si trattava, in effetti, di un fenomeno
comune a tutte le aree che hanno sperimentato il passaggio dal
regime feudale a quello capitalistico-borghese, ma in Sicilia (o
meglio, nella sua parte occidentale) esso trovò una forma di
risoluzione del tutto peculiare. A causa dell'assenteismo dei grandi
proprietari terrieri e della contemporanea autonomizzazione della
pletora di `bravi' che costituivano un tempo le loro milizie
private, la domanda di protezione da parte della borghesia in statu
nascenti incontrò qui un'offerta - vale a dire, una grande quantità
di individui spregiudicatamente avvezzi all'uso della violenza e
capaci, letteralmente, di vendere protezione al miglior offerente -
diversa da quella delle istituzioni statali. Furono in altri termini
i mafiosi (qui antesignani delle squadracce fasciste) a ricevere
l'incarico di controllare la forza lavoro contadina, sedandone
violentemente le rivendicazioni; furono loro ad occuparsi della
protezione della terra e del bestiame, assicurandone il controllo in
modo da `disciplinare' invasioni e abigeati, e sempre loro si
assunsero il compito di garantire che i prodotti della terra
potessero essere trasportati e venduti sui mercati cittadini,
allestendo vere e proprie squadre di armati che li scortavano a
pagamento.
Fu così che, come scrisse Franchetti, la parola
`mafia' trovò «pronta una classe di violenti e di facinorosi che non
aspettava altro che un sostantivo che l'indicasse, ed alla quale i
suoi caratteri e la sua importanza speciale nella società siciliana
davano diritto a un nome diverso da quello dei volgari malfattori di
altri paesi». Contrariamente all'opinione di quanti li ritenevano (e
li ritengono) escrescenze pletoriche dell'arretratezza feudale, fu
in un quadro di modernizzazione spinta che i mafiosi si costituirono
come «classe con industria ed interessi suoi propri, una forza
sociale di per sé stante» (ancora parole di Franchetti). Con la
conseguenza che lo Stato borghese post-unitario non si trovò a dover
affermare il proprio diritto e la propria giurisdizione in un
territorio in cui nulla di simile si era prima conosciuto, ma a
dover competere con una ben radicata soluzione sui generis dei
problemi ingenerati dalla modernizzazione della struttura economica
e sociale.
Si è già accennato che la protezione mafiosa non è un
sostitutivo perfetto della protezione statale. Un'altra conseguenza
della distanza fra le due si può cogliere nel fatto che, in mancanza
di un diritto uniforme e uniformemente applicato, in Sicilia i
diritti di proprietà non godettero mai (e tuttora non godono
completamente) delle caratteristiche che a loro di norma si
riconnettono in uno Stato moderno, vale a dire la tipizzazione ad
opera del legislatore e la possibilità di ricorso al giudice in caso
di controversie sulla loro spettanza, sicché l'unico modo per
conservarne la titolarità si rivelò quello di `scendere a patti' con
quanti contestavano (o potevano contestare) quest'ultima, cedendo
loro parte del reddito che era possibile trarne. Il che spiega come
mai, nella composizione delle controversie concernenti i diritti di
proprietà, i mafiosi si siano storicamente schierati
indifferentemente dalla parte dei proprietari o dei ladri (spesso,
anzi, fungendo da mediatori tra le due parti): come osserva
Gambetta, in una società a protezione mafiosa, il diritto di non
essere rapinati o derubati prevale su quello di rapinare o rubare
soltanto se, per il protettore, il valore della vittima è superiore
a quello del reo, il che - a sua volta - non è che una funzione
delle `preferenze' del mafioso, più esattamente del suo `orizzonte
temporale'. Se possiede un orizzonte di lungo periodo (perché, ad
esempio, può contare su di un `patto di non aggressione' con lo
Stato), il mafioso diventerà `invisibile' e si limiterà a garantire
ogni foggia di accordo collusivo, sia che concerna mercati legali
sia che riguardi quelli illegali. Se invece il suo orizzonte è
schiacciato sul breve periodo, prevarrà l'istinto predatorio. È
allora, propriamente, che la protezione si trasforma in
estorsione.
Se si conviene che quella abbozzata nei paragrafi
precedenti è una descrizione stilizzata ma `vera' del fenomeno
mafioso, posso provare a sintetizzare così i motivi per cui ritengo
che la società meridionale si avvii a diventare una pregnante
metafora del `villaggio globale'. Ciò che va comunemente sotto il
nome di `globalizzazione' è un processo che coinvolge, attualmente,
la `base materiale' della nostra esistenza, mentre la
`sovrastruttura' politica e giuridica resta ancorata a livelli
territorialmente circoscritti dalle dimensioni attuali degli
Stati-nazione. In altri termini, mentre la produzione, la
circolazione e lo scambio di merci, forza lavoro e capitali si vanno
tendenzialmente mondializzando, ordinamenti e istituzioni non fanno
altrettanto. Il risultato rischia di essere una `società globale'
simile ai territori a dominazione mafiosa, giacché - in assenza di
un credibile potere `centrale' e di un ordinamento giuridico
uniforme e uniformemente applicato - sono attualmente gli
Stati-nazione a farsi carico di proteggere le `transazioni
transnazionali', temperando così l'incertezza relativa ai rapporti
di proprietà che, diversamente, potrebbe comportare la paralisi
della produzione e della circolazione della ricchezza. E poiché
rispetto al mercato mondiale essi, in quanto Stati, sono
inevitabilmente particolari e non possono essere, a un tempo,
`particolari' quanto a ordinamento e `universali' quanto a capacità
di tutela, la loro protezione - così come quella mafiosa - non può
che essere una `protezione privata': nel duplice senso che viene
accordata o negata secondo criteri legati alle `preferenze' di
fornitori che, per dirla con Hegel, «hanno il loro proprio interesse
come proprio fine», e diventa `universale' soltanto mediante la
generalizzazione di questo `scambio' fra privati fornitori e privati
acquirenti di essa.
La crescita delle ineguaglianze associate
alla globalizzazione non è allora altro che la conseguenza di un
processo che, pur svolgendosi all'insegna dell'efficienza, è in
realtà intrinsecamente inefficiente: analogamente a quanto accade
nel Mezzogiorno, dove la `privatizzazione' della fornitura di
protezione ha dato luogo, per un verso, a una generale riluttanza
alla cooperazione `impersonale' e all'instabilità permanente degli
accordi comunque raggiunti e, per l'altro verso, alla predilezione
di quella particolare forma di concorrenza che consiste non già nel
far meglio dei propri concorrenti, ma nel farli fuori mediante
intese collusive protette dalla mafia, anche qui miglioramenti
`individuali' (cioè di singole zone del pianeta) sono possibili, ma
la mobilità sociale complessiva si avvicina a un gioco a somma
zero.
Quello sommariamente schizzato è un processo ancora agli
esordi: basti pensare che, non appena si depurano le statistiche da
frequenti errori (come quello di misurare l'ampiezza degli scambi
internazionali in termini di valore delle esportazioni e
importazioni sul Pil), ci si accorge che il grado di integrazione
raggiunto negli scambi commerciali è accostabile a quello esistente
già nel 1913. Ma la crescita delle ineguaglianze tra Nord e Sud del
mondo è un dato di attualità innegabile, il che induce a pensare che
quel quadro sia già racchiuso in potenza nel presente e che, per
disegnarlo compiutamente, sia sufficiente prolungare talune tendenze
oggi in atto. Mi limito a indicarne alcune.
Molti economisti
concordano sul fatto che, con l'apertura delle frontiere alla libera
circolazione dei capitali, si è spezzata la catena
Stato-territorio-ricchezza. Può non piacere, ma Giulio Tremonti ha
ragione: mentre prima bastava agli Stati controllare il proprio
territorio per controllare la ricchezza che vi si produceva ed
esercitare il monopolio politico (fare e amministrare le leggi,
battere moneta e riscuotere le tasse), oggi non è più così: non è
più, cioè, lo Stato che decide come tassare la ricchezza prodotta
sul suo territorio, ma la ricchezza a scegliere dove essere
tassata.
Questa novità, naturalmente, cambia i rapporti tra la
borghesia transnazionale (quella che opera via holding finanziarie)
e i singoli Stati-nazione. In primo luogo, perché trasforma il
precedente rapporto impositivo, fondato sulla potestà imperativa
dello Stato, in un rapporto contrattuale tra eguali, basato per
giunta sulla relativa superiorità della parte privata. In secondo
luogo, perché apre alla borghesia la possibilità di utilizzare a
proprio vantaggio le difformità legislative esistenti fra Stato e
Stato, scegliendo un assetto organizzativo che canalizzi i flussi
finanziari verso i paesi - solitamente ricchi - che garantiscono
maggiore redditività (bassi prelievi fiscali, riservatezza bancaria,
ecc.) e concentri l'attività produttiva in quei paesi - solitamente
poveri - dove le legislazioni assicurano maggiore flessibilità della
prestazione lavorativa (bassi salari, restrizioni al diritto di
sciopero e alla libertà sindacale ecc.) e un uso più libero delle
risorse (assenza di normative antinquinamento, di tutela ambientale,
ecc.). In terzo luogo, perché, rendendo difficile agli Stati la
possibilità di conquistare quella (relativa) `signoria sul denaro',
che ne aveva segnato, nella seconda metà del `secolo breve', la
possibilità di intervenire attivamente nel processo economico, li
induce a `specializzarsi' nella fornitura di protezione. I confini
nazionali, in quest'ottica, sono solo un limite: a misura che si
estendono le commodity chains, le «catene di merci» di cui
Wallerstein ci ha spiegato essere intessuta l'economia-mondo, le
chances di imporsi sul mercato mondiale della protezione vengono a
dipendere strettamente dalla capacità di uno Stato di estendere la
propria area d'influenza ben al di là del proprio territorio (nel
senso che fornire protezione può richiedere talvolta capacità di
`aggressione').
Se adesso proviamo a spingere questi processi
verso il loro `naturale' punto d'approdo, ci vorrà poco, io credo, a
riconoscere nella relazione in fieri tra imprese transnazionali e
Stati-nazione i caratteri salienti del `contratto di protezione' tra
enterprise syndicate e power syndicate: nell'uno e nell'altro caso
abbiamo non l'esercizio di un potere ma un atto di scambio; nell'uno
come nell'altro la protezione non è `imposta' ma `domandata';
nell'uno e nell'altro, essa serve a garantire i diritti di
proprietà, di uso delle risorse e il controllo della forza lavoro e,
per di più, la sua disponibilità sollecita ogni sorta di accordi
collusivi volti a restringere la concorrenza: l'esempio più ovvio
sono i brevetti, ma non è un caso che la politica agricola
dell'Unione europea ricordi da vicino le pratiche delle società dei
Mulini e della Posa, due cartelli operanti a Palermo intorno al 1870
sotto l'egida della mafia e organizzati al fine di rendere stabile
il prezzo del grano e del trasporto in base a una rigida turnazione,
per cui ciascuno dei soci versava alla società una `tassa'
proporzionata al valore dei beni e servizi prodotti e accettava
periodicamente di ridurre la sua offerta in cambio di una
`compensazione' pagatagli dalla cassa comune.
Né si deve credere
che l'estensione della propria influenza al di là dei confini
nazionali metta capo ad una nuova consapevolezza `politica' degli
Stati (di qui l'erroneità delle prospettazioni dei teorici
dell'`impero'): sul mercato mondiale essi operano non dissimilmente
da un qualsiasi power syndicate, nel senso che non ambiscono affatto
a curare gli interessi generali delle comunità che vengono a
trovarsi sotto la loro protezione (rectius, `protettorato'), ma a
curare i propri interessi, più esattamente quelli dei clienti che
hanno scelto di proteggere (la strategia mediorientale degli Stati
Uniti d'America costituisce forse il miglior riscontro empirico di
quest'affermazione). E quanto al fatto che, talvolta, la mafia
protegge da se stessa, basterà ricordare le parole del sociologo
americano Charles Tilly: simulando, stimolando e persino
inventandosi pericoli di guerre esterne, i governi «spesso operano
come il crimine organizzato».
Ribadisco che si tratta di un
processo in corso e che procede in modi e ritmo differenti nelle
varie regioni del mondo, e non di una descrizione dello status quo.
Aggiungo, però, che mai come ora esso è stato simile a quello che
visse la Sicilia nella prima metà dell'Ottocento, perché - per dirla
ancora con il vecchio Franchetti - quando la borghesia «non ha preso
in un paese una preponderanza di numero e l'influenza tale da
assicurare ad una legislazione uguale per tutti il sopravvento sulla
potenza privata, l'osservanza delle leggi, la condotta regolare e
pacifica non è più un mezzo di conservare le proprie sostanze e il
proprio stato».
Quest'affermazione non spiega soltanto la
ricorrente difficoltà di tutti gli analisti sociali nel distinguere,
nell'ambito del mercato mondiale, tra imprenditori operanti nel
rispetto della legalità e imprenditori criminali (evasori fiscali,
terroristi, trafficanti di droga, di armi, di esseri umani ecc.),
essendosi ormai creata una gigantesca `area grigia' nella quale non
operano né regolamentazioni fiscali né normative antiriciclaggio e
di cui profittano enterprise syndicates dell'una e dell'altra
specie; può servire, soprattutto, a comprendere in che modo il
disordine prossimo venturo debba molte delle sue possibilità di
affermarsi al `tentativo rivoluzionario' che ha interessato
l'ordinamento giuridico internazionale sul volgere del
millennio.
Di fronte all'allungamento delle commodity chains ben
al di là dei confini degli Stati nazione, ci si poteva attendere, in
effetti, un'intensificarsi di quel processo già affermatosi nel
corso della seconda metà del XX secolo e in base al quale gli Stati
- acquisita consapevolezza del fatto che esistono situazioni (dalle
spedizioni postali al mantenimento della pace e della sicurezza
mondiale) in cui la loro azione uti singuli era insufficiente o,
peggio, dannosa - rinunciavano a porzioni di sovranità in favore di
organismi intergovernativi istituiti per trattato (dalle Nazioni
Unite alla cascata di organizzazioni che ne vennero: Fao, Unesco,
Oms, Oil, Fmi, Birs ecc.), i quali, sostituendosi (seppure
parzialmente) ad essi nella cura degli interessi comuni,
riproducevano tendenzialmente, al livello della comunità
internazionale, quella dinamica `immanente' e `civilizzatrice' che
Norbert Elias ha spiegato essere all'origine della formazione dello
Stato moderno: immanente, perché seguiva traiettorie che
trascendevano la capacità di comprensione e d'intervento attivo dei
singoli governi che vi si trovavano coinvolti; civilizzatrice,
perché incorporava popolazioni frammentate e periferiche le une alle
altre in un uniforme sistema di comunicazione e di
cooperazione.
È chiaro che sfonderebbe una porta aperta chi
obiettasse che il sistema riproduceva nel proprio seno gerarchie di
potere esistenti di fatto nella comunità internazionale (un esempio
classico è il diritto di veto riconosciuto ad alcuni Stati
all'interno del Consiglio di sicurezza dell'Onu): come ben sanno i
giuristi, il fulcro della «costituzione in senso materiale» di cui
parlava Mortati è l'idea (in verità, molto marxiana) che nella
`società politica' valgano rapporti di sovra e sotto-ordinazione che
si stabiliscono fattualmente e che le conferiscono già un `ordine'.
Ma proprio per ciò, a mio avviso, si sbaglierebbe a svalutare in
toto quell'esperienza, perché - negandone il valore progressivo
rispetto allo status quo dei due secoli precedenti - si ricadrebbe
nell'utopia di quanti desiderano hic et nunc la `pace perpetua' (e,
perché no, la libertà e l'eguaglianza di tutte e tutti),
dimenticando che «la storia di ogni società sinora esistita è storia
di lotte di classi» e che, dunque, non si dà mai cooperazione se non
conflittuale.
Comunque sia, questo processo - entrato in crisi,
per motivi facilmente comprensibili, all'indomani della dissoluzione
dell'Urss, così come testimoniato dai sempre più frequenti tentativi
dei paesi economicamente più forti di sganciarsi dai vincoli loro
imposti dalla partecipazione agli organismi sovranazionali di
emanazione Onu (o, nella migliore delle ipotesi, di trasformare
questi ultimi in sedi di ratifica di decisioni assunte
unilateralmente altrove: ad es., nel cd G7, poi divenuto G8 o, come
si è detto polemicamente, G-1+7) - ha subito una decisa battuta
d'arresto in occasione del bombardamento Nato in Jugoslavia. La
scelta di dieci paesi (si sarebbe tentati di definirli `famiglie')
di ricorrere all'uso della forza in patente violazione degli Artt.
2, 24, 53 e 103 della Carta delle Nazioni Unite - e in assenza di
alcuna giustificazione fondata sull'ordinamento internazionale
vigente o di intenti dichiaratamente `normativi' (nel senso che non
sembra che gli Stati responsabili dell'attacco abbiano inteso
promuovere la formazione di una nuova norma, secondo cui ogni Stato
sarebbe legittimato a ricorrere all'uso della forza allorché ritenga
che un altro Stato stia perpetrando nel proprio territorio
violazioni alle norme del diritto umanitario) - sembra infatti un
chiaro tentativo di rivoluzionare il sistema di protezione e
sicurezza collettiva fondato sulla Carta delle Nazioni Unite e di
introdurre, in sua vece, un regime oligopolistico della protezione
affidato a più Stati (o a gruppi di Stati, come la Nato) in
competizione tra loro, del tutto analogo a quello a dominazione
mafiosa affermatosi in Sicilia all'indomani della `rivoluzione
borghese'.
È probabile che è proprio su questo fronte - quello di
una ricostruzione della legalità, a livello del mondo globalizzato
fondato sulla Carta delle Nazioni Unite - che si gioca, specie in un
momento drammatico come quello che oggi viviamo, buona parte del
futuro della comunità internazionale.