Nell'economia globalizzata

IL MODELLO MAFIOSO

La società globalizzata somiglierà alla società mafiosa

1.

Mi propongo in queste note di sostenere che la `società globalizzata', nella quale secondo molti osservatori oggi viviamo, si avvia a essere simile, in certi aspetti non secondari, alle società in cui spadroneggia la mafia.
L'obiettivo è minimale: di fronte all'insistenza con cui viene teorizzata l'epifania di un `nuovo ordine mondiale' - che gli apologeti chiamano `civiltà superiore' e i detrattori (rectius, sedicenti tali) `impero' - suggerire qualche irriverente analogia fra il `villaggio globale' e quel villaggio siciliano descritto da Anton Blok in un fortunato libro del 1974 vorrebbe essere solo un modo di indicare quanto disordine c'è in giro e quanto illusorio sia ritenere il contrario.
Naturalmente, una simile operazione richiede non solo una certa definizione della mafia e una certa ricostruzione dei suoi rapporti con l'economia e la società, ma anche una descrizione della forma oggi assunta dai processi di produzione e circolazione della ricchezza sociale: tutti compiti largamente superiori alle capacità di chi scrive. Mi limiterò, quindi, a esporre e ad accostare taluni fatti stilizzati, soprattutto per sollecitare altrui riflessioni e considerazioni al riguardo.
Ricordo che un `fatto stilizzato' serve a comunicare rapidamente alcune cose che si ritengono vere (o comunque abbastanza prossime al vero), evitando di perdersi in una pletora di dettagli. Sbaglierebbe, perciò, chi cercasse nelle note che seguono `tutta' la verità; ambirei semplicemente ad aver detto `nient'altro' che la verità.

2.

Una decina d'anni fa, in un libro che suscitò molte discussioni e polemiche, il sociologo Diego Gambetta sostenne che la mafia è un'industria che, in concorso con altre istituzioni sociali (tra cui lo Stato), produce, promuove e vende `protezione' in un determinato territorio, garantendo i soggetti, le transazioni e i mercati protetti con l'uso della violenza.
`Industria' non deve far pensare a un'entità centralizzata: Gambetta usava il termine in senso marshalliano, mettendo in luce che il bene `protezione' è fornito da numerose `imprese' (le `famiglie' mafiose) tra loro in concorrenza, anche se legate da un `cartello', e che quindi è fuori luogo attendersi da esse il rispetto di criteri di universalità nella fornitura delle prestazioni o di eguaglianza di trattamento; la mafia, proseguiva Gambetta, non è uno «Stato minimo» à la Nozick, capace di assicurare il controllo totale dell'uso della forza su un certo territorio e di proteggere chiunque viva su quel territorio: essa vende protezione su basi private, sicché prezzo, quantità e qualità del servizio possono differenziarsi a seconda del rapporto che si instaura tra fornitore e acquirente.
Tuttavia, osservava Gambetta, affinché un'economia di mercato funzioni al meglio occorre che determinati servizi non siano `privatizzati'. Legislazione, amministrazione e giurisdizione debbono essere organizzate su basi universalistiche, il che significa che le elezioni politiche, l'assegnazione delle pubbliche cariche e dei pubblici incarichi, l'amministrazione della giustizia e la protezione dei diritti individuali non debbono potersi vendere o comprare sul mercato. Di contro, se in un determinato territorio la protezione è affare privato, anche questi beni vengono `privatizzati'. Ne discendono relazioni sociali `personalistiche', caratterizzate, come scrisse Leopoldo Franchetti nella sua celebre inchiesta sulla Sicilia (1876), da un lato da fedeltà, amicizia e devozione senza remore, dall'altro dalla formazione di clientele, che avranno al loro centro uno o più individui potenti ai quali si rivolgerà ogni persona che abbia bisogno di aiuto per far rispettare un suo diritto o per commettere un abuso.
Sennonché, un sistema economico in cui non c'è universalità del precetto né della sanzione e in cui la `fede privata', fondata sulle relazioni amicali e parentali, domina sulla `fede pubblica', è caratterizzato, come ben sanno gli economisti, dalla generale riluttanza alla cooperazione allargata e impersonale e dall'intrinseca instabilità di ogni accordo, il che reca con sé la stagnazione dell'industria e del commercio. «Le zone del Mezzogiorno afflitte dalla mafia - concludeva perciò Gambetta - sono precipitate pertanto in un tragico circolo vizioso dove gli unici mercati veramente vivaci sono quelli in cui si commerciano i beni sbagliati.»

3.

L'idea che la mafia sia un'industria che fornisce un servizio identificabile con la `protezione' non è del tutto originale: che di industria si trattasse lo diceva lo stesso Franchetti (che però parlava di «industria della violenza»), mentre, che la mafia si occupasse a suo modo di protezione era stato sostenuto, tra gli altri, da Henner Hess e da Raimondo Catanzaro. Ma per quanto non nuova, l'idea ha sollevato numerose critiche, alcune delle quali volte a escludere che la protezione accordata dalla mafia sia realmente un `valore d'uso', altre a negare che nella fornitura di protezione si possa cogliere la quintessenza del fenomeno mafioso.
In effetti, che un'organizzazione criminale possa fornire un servizio (anzi, un servizio `essenziale' come la protezione) è controintuitivo, specie di fronte alla normale rappresentazione che si ha della mafia come organizzazione dedita a commerci illeciti (contrabbando, traffico di stupefacenti, usura, riciclaggio ecc.) o all'estorsione. Per capire come ciò sia possibile è quindi opportuno, in prima battuta, ricorrere a un modello analitico elaborato nel 1980 da Alan Block (e ripreso qui da noi da Salvatore Lupo) per distinguere le due forme tipiche di criminalità organizzata che operavano a New York fra gli anni trenta e cinquanta del secolo scorso.
Supponiamo che un gruppo criminale debba far transitare una partita di droga di ingente valore attraverso un aeroporto italiano. Se la droga fosse una merce legale, il gruppo potrebbe porsi al riparo dal rischio di furti stipulando un'assicurazione e fidando nella sorveglianza aeroportuale da parte delle forze dell'ordine. Ma in Italia la droga non è una merce legale, quindi è escluso che il gruppo criminale che ne è proprietario possa accedere agli strumenti legali di protezione. Non gli restano che due vie: o provvedere in prima persona alla protezione della merce, sopportando i relativi costi, o - supponendo che quel luogo di transito sia `controllato' da un altro gruppo criminale - entrare in contatto con quest'ultimo, per farsi `garantire' che la merce giunga a destinazione.
In questo modello, come si vede, operano due distinti attori: il gruppo che organizza il traffico illecito (in specie, di droga) e quello che controlla il territorio (Block chiama il primo enterprise syndicate, il secondo power syndicate). L'accordo tra i due concreta un vero e proprio atto di scambio, in cui il primo gruppo paga un compenso monetario per ricevere dal secondo un `servizio' genuino, che di norma consisterà nel poter fare affidamento sulla rete di connivenze di cui esso gode (p. es. poliziotti compiacenti). Ovviamente, nulla vieta che il primo gruppo eserciti le medesime funzioni del secondo in un altro aeroporto, né che il secondo organizzi a sua volta altre spedizioni di droga: di norma, le famiglie mafiose fanno l'una e l'altra cosa. È indubbio, però, che da un punto di vista funzionale ci troviamo di fronte a forniture di merci differenti: una merce illegale nel primo caso, la protezione come merce nel secondo. Non si deve, perciò, confondere la fornitura di protezione con la fornitura di merci illegali: in primo luogo, perché imprenditori di beni illegali ce ne sono dappertutto e allora si è costretti a cercare la specificità della mafia in particolarità culturali, `etniche', `razziali' et hoc genus omne dei siciliani; in secondo luogo, perché identificando la mafia con l'enterprise syndicate si rischia di perdere di vista che la `risorsa' fondamentale, per un'industria della protezione quale essa è, è la capacità di controllo del territorio.
Quest'ultimo punto, d'altra parte, non deve indurre in un altro errore analitico. È noto che una delle caratteristiche dello Stato moderno risiede nella sua pretesa di detenere il monopolio della violenza (o meglio, della protezione legale, la violenza ponendosi rispetto ad essa in rapporto di mezzo a fine) sul territorio soggetto alla sua sovranità. Il fatto che esistano gruppi, in specie mafiosi, che ambiscano a fornire protezione nell'ambito di uno Stato sovrano non deve far pensare che essi siano dotati di una speciale caratura `politica'. In realtà, questi gruppi fanno politica come può far politica un'industria, cioè cercando senza troppi scrupoli di cambiare a proprio favore le regole vigenti; è invece assente, in essi, ogni considerazione circa l'attitudine dei propri interessi economico-corporativi a `farsi Stato', diventando cioè - in armonia con quanto impone una concezione moderna della politica - interessi universali, in grado di promuovere uno sviluppo di cui possano beneficiare concretamente anche i gruppi assoggettati al loro dominio/direzione intellettuale e morale (nel che, osservava Gramsci, «è la fase più schiettamente politica» dell'evoluzione dei rapporti di forza tra gruppi sociali in competizione per l'egemonia).

4.

Non si deve pensare che la protezione mafiosa sia un sostitutivo perfetto della protezione statale. Un motivo piuttosto semplice risiede nel fatto che chi offre protezione ha tutto l'interesse a suscitare la domanda della merce che vende, cioè - fuor di metafora - a creare condizioni di insicurezza negli scambi, che possano rendere desiderabile l'esser protetti: dalle `lettere di scrocco' a certi sinistri avvertimenti fino al danneggiamento o alla distruzione di beni, al limite all'omicidio, l'esperienza offre un vasto campionario di come i mafiosi riescano a immettere sul mercato dosi limitate di `sfiducia' allo scopo di piazzare la loro merce a caro prezzo. Ma nel contempo è riduttivo affermare che la mafia protegge da pericoli che essa stessa crea, come sostengono coloro che assimilano protezione ed estorsione. Basterà qui un altro esempio.
Tra i modi tradizionali attraverso i quali gli imprenditori danno luogo a intese collusive a danno della concorrenza vi sono la spartizione dei territori (io vendo qui, tu vendi là, ecc.) o la spartizione dei clienti (io vendo a Tizio, tu a Caio, un altro a Sempronio ecc.). Supponiamo invece che in un certo territorio vi sia un solo cliente (ad esempio, un ente pubblico) che debba effettuare periodicamente acquisti di beni o servizi. In tale evenienza, l'unico modo per raggiungere un accordo di cui possano beneficiare tutte le imprese che operano in quel territorio è quello di stabilire dei `turni': oggi vendo io, domani tu, dopodomani un altro, ecc.
Naturalmente, se non c'è nessuno che si fa garante della tenuta dell'accordo collusivo, difficilmente quest'ultimo verrà concluso, perché per ciascuno dei partecipanti è troppo forte l'incentivo a tradire la promessa (cioè a vendere in giorni diversi da quelli stabiliti) perché gli altri si fidino. Gli esiti possono essere diversi se qualcuno si assume il compito di proteggere le parti dall'eventualità della defezione altrui: se questo `qualcuno' è sufficientemente credibile, è assai probabile che l'accordo - che, si noti bene, è vantaggioso per tutti i partecipanti - venga stipulato.
Secondo il racconto di Angelo Siino, in Sicilia la spartizione degli appalti pubblici avveniva (avviene?) tramite un sistema del genere: era stata organizzata una `coda' (il cosiddetto `tavolino'), in base alla quale un'impresa presentava un'offerta idonea ad aggiudicarsi un certo appalto, mentre le altre o non si presentavano oppure, sebbene formalmente concorressero all'aggiudicazione, presentavano offerte sballate, in cambio della garanzia di aggiudicarsi appalti successivi. La mafia, in cambio di una percentuale sul valore dell'appalto, controllava che le imprese rispettassero il turno (secondo indicazioni provenienti dall'ambiente dei costruttori edili, vi erano `code' che arrivavano a contare centosessanta imprese), comminando le relative `sanzioni' per coloro che non fossero stati ai patti.

5.

Alle `conseguenze economiche della mafia' si è già accennato in apertura di queste note, ma conviene qui scendere un po' più in profondità. La letteratura esistente in argomento - mi riferisco qui agli studi di Mario Centorrino e Guido Signorino - muove da un dato a prima vista inspiegabile: interrogati dall'associazione di categoria sugli ostacoli al fare impresa nell'Italia meridionale, gli industriali collocano la presenza della mafia al sesto (!) posto, dopo l'inefficienza delle amministrazioni locali, la carenza di dotazioni infrastrutturali, il costo e la rigidità del lavoro, l'onerosità dell'accesso al credito e il peso del fisco.
Di fronte a un dato del genere, in effetti, diventa ragionevole supporre che le imprese abbiano messo a punto opportune strategie al fine di internalizzare i costi della protezione privata e massimizzare comunque i profitti, imparando così a convivere con la mafia. Per comprendere quali siano tali strategie, conviene ancora muovere dalla struttura del `contratto di protezione'.
Va premesso, al riguardo, che non sempre la mafia richiede, quale pagamento della protezione accordata, un corrispettivo in denaro: non è infrequente, anzi, che invece che vile moneta vengano richiesti `servizi' particolari, come l'assunzione di certe persone, un certo `riguardo' nella gestione del personale (specie di quello assunto come corrispettivo del pagamento), l'imposizione di certe imprese come fonti di approvvigionamento del capitale circolante (materie prime, semilavorati, macchinari, ecc.) o come subappaltatrici. In casi del genere, ovviamente, l'imprenditore subisce una limitazione della sua facoltà di organizzare i fattori della produzione in vista del conseguimento del massimo profitto, il che si traduce in un innalzamento dei costi di gestione. La domanda, allora, è: perché, di fronte a questo innalzamento dei costi, vi sono imprese che fuggono e altre che restano?
Una prima risposta potrebbe far leva sul concetto di x-Efficiency, elaborato negli anni Sessanta da H. Libenstein. Muovendo dal rilievo empirico che, a parità di dotazione di capitale e forza lavoro, non tutte le imprese raggiungono i medesimi standard di efficienza e argomentando che la maggiore rigidità organizzativa imposta dalla necessità di acquistare la protezione privata non produce, a parità di struttura degli inputs, i medesimi effetti, si potrebbe ritenere che a fuggire siano le imprese meno efficienti, per le quali l'aumento dei costi innalza insopportabilmente il break-even point.
In realtà, non è detto che sia così. Uno degli aspetti di efficienza delle imprese, in tempi di mondializzazione, sta nella capacità di percepire le occasioni di profitto presenti in vari mercati, sfruttando all'uopo la mobilità geografica. Ciò significa che, di fronte a qualsiasi mutamento nella struttura dei costi, le più efficienti di loro valuteranno attentamente l'opportunità di rilocalizzare l'investimento verso quei mercati che risultano più convenienti. In questo modo, la presenza della mafia provocherebbe uno di quei fenomeni che gli economisti designano come adverse selection: il meccanismo spontaneo del mercato, infatti, favorirebbe la permanenza in loco delle imprese meno efficienti.
Ora, una popolazione imprenditoriale inefficiente in tanto può sopravvivere in quanto riesca a dar luogo ad intese collusive volte a restringere il mercato.
Ove, poi, si ponga mente al fatto che la disponibilità della protezione mafiosa incentiva le imprese alla stipula di accordi collusivi, si comprende sia la riluttanza degli imprenditori a `resistere' (tra il 1997 e il 1998 le denunce per estorsione nel Mezzogiorno sono diminuite del 4,2% e al settembre 1997 solo 10 miliardi dei 150 stanziati per le vittime dell'estorsione risultavano erogati a seguito di denunce), sia il fatto non infrequente che la connivenza tracimi in collegamento organico con una famiglia mafiosa, mediante la stipula, per così dire, di un contratto di protezione `a tempo indeterminato': onde non a torto si è parlato e si parla di «borghesia mafiosa» (M. Mineo, U. Santino).
Il risultato finale è quello che normalmente si ricollega all'utilizzo di pratiche collusive: produzione meno efficiente, prezzi più alti e imprese più piccole. Vedere per credere.

6.

Ho taciuto fin qui di un problema sul quale da tempo si arrovella la mafiologia, quello delle origini della mafia, ma nulla di più della sua illustrazione può servire a cogliere il senso della proposta interpretativa presentata in queste note.
La prima metà dell'Ottocento è unanimemente considerata dagli storici come un periodo di grandi cambiamenti in terra di Sicilia, legati alla soppressione del regime feudale (che data dalla costituzione approvata dal Parlamento siciliano nel 1812) e all'affermarsi di un assetto della proprietà terriera di tipo borghese. Il cambiamento non fu indolore: in molti (troppi) casi, l'abolizione dell'ancien régime generò aspre contese - vuoi sulle terre demaniali, vuoi sugli usi civici, vuoi sul regime della proprietà fondiaria e sull'uso dei suoi prodotti, vuoi sul controllo della forza lavoro contadina - che ebbero come effetto la moltiplicazione dell'incertezza in ordine ai rapporti di proprietà.
Si trattava, in effetti, di un fenomeno comune a tutte le aree che hanno sperimentato il passaggio dal regime feudale a quello capitalistico-borghese, ma in Sicilia (o meglio, nella sua parte occidentale) esso trovò una forma di risoluzione del tutto peculiare. A causa dell'assenteismo dei grandi proprietari terrieri e della contemporanea autonomizzazione della pletora di `bravi' che costituivano un tempo le loro milizie private, la domanda di protezione da parte della borghesia in statu nascenti incontrò qui un'offerta - vale a dire, una grande quantità di individui spregiudicatamente avvezzi all'uso della violenza e capaci, letteralmente, di vendere protezione al miglior offerente - diversa da quella delle istituzioni statali. Furono in altri termini i mafiosi (qui antesignani delle squadracce fasciste) a ricevere l'incarico di controllare la forza lavoro contadina, sedandone violentemente le rivendicazioni; furono loro ad occuparsi della protezione della terra e del bestiame, assicurandone il controllo in modo da `disciplinare' invasioni e abigeati, e sempre loro si assunsero il compito di garantire che i prodotti della terra potessero essere trasportati e venduti sui mercati cittadini, allestendo vere e proprie squadre di armati che li scortavano a pagamento.
Fu così che, come scrisse Franchetti, la parola `mafia' trovò «pronta una classe di violenti e di facinorosi che non aspettava altro che un sostantivo che l'indicasse, ed alla quale i suoi caratteri e la sua importanza speciale nella società siciliana davano diritto a un nome diverso da quello dei volgari malfattori di altri paesi». Contrariamente all'opinione di quanti li ritenevano (e li ritengono) escrescenze pletoriche dell'arretratezza feudale, fu in un quadro di modernizzazione spinta che i mafiosi si costituirono come «classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante» (ancora parole di Franchetti). Con la conseguenza che lo Stato borghese post-unitario non si trovò a dover affermare il proprio diritto e la propria giurisdizione in un territorio in cui nulla di simile si era prima conosciuto, ma a dover competere con una ben radicata soluzione sui generis dei problemi ingenerati dalla modernizzazione della struttura economica e sociale.
Si è già accennato che la protezione mafiosa non è un sostitutivo perfetto della protezione statale. Un'altra conseguenza della distanza fra le due si può cogliere nel fatto che, in mancanza di un diritto uniforme e uniformemente applicato, in Sicilia i diritti di proprietà non godettero mai (e tuttora non godono completamente) delle caratteristiche che a loro di norma si riconnettono in uno Stato moderno, vale a dire la tipizzazione ad opera del legislatore e la possibilità di ricorso al giudice in caso di controversie sulla loro spettanza, sicché l'unico modo per conservarne la titolarità si rivelò quello di `scendere a patti' con quanti contestavano (o potevano contestare) quest'ultima, cedendo loro parte del reddito che era possibile trarne. Il che spiega come mai, nella composizione delle controversie concernenti i diritti di proprietà, i mafiosi si siano storicamente schierati indifferentemente dalla parte dei proprietari o dei ladri (spesso, anzi, fungendo da mediatori tra le due parti): come osserva Gambetta, in una società a protezione mafiosa, il diritto di non essere rapinati o derubati prevale su quello di rapinare o rubare soltanto se, per il protettore, il valore della vittima è superiore a quello del reo, il che - a sua volta - non è che una funzione delle `preferenze' del mafioso, più esattamente del suo `orizzonte temporale'. Se possiede un orizzonte di lungo periodo (perché, ad esempio, può contare su di un `patto di non aggressione' con lo Stato), il mafioso diventerà `invisibile' e si limiterà a garantire ogni foggia di accordo collusivo, sia che concerna mercati legali sia che riguardi quelli illegali. Se invece il suo orizzonte è schiacciato sul breve periodo, prevarrà l'istinto predatorio. È allora, propriamente, che la protezione si trasforma in estorsione.

7.

Se si conviene che quella abbozzata nei paragrafi precedenti è una descrizione stilizzata ma `vera' del fenomeno mafioso, posso provare a sintetizzare così i motivi per cui ritengo che la società meridionale si avvii a diventare una pregnante metafora del `villaggio globale'. Ciò che va comunemente sotto il nome di `globalizzazione' è un processo che coinvolge, attualmente, la `base materiale' della nostra esistenza, mentre la `sovrastruttura' politica e giuridica resta ancorata a livelli territorialmente circoscritti dalle dimensioni attuali degli Stati-nazione. In altri termini, mentre la produzione, la circolazione e lo scambio di merci, forza lavoro e capitali si vanno tendenzialmente mondializzando, ordinamenti e istituzioni non fanno altrettanto. Il risultato rischia di essere una `società globale' simile ai territori a dominazione mafiosa, giacché - in assenza di un credibile potere `centrale' e di un ordinamento giuridico uniforme e uniformemente applicato - sono attualmente gli Stati-nazione a farsi carico di proteggere le `transazioni transnazionali', temperando così l'incertezza relativa ai rapporti di proprietà che, diversamente, potrebbe comportare la paralisi della produzione e della circolazione della ricchezza. E poiché rispetto al mercato mondiale essi, in quanto Stati, sono inevitabilmente particolari e non possono essere, a un tempo, `particolari' quanto a ordinamento e `universali' quanto a capacità di tutela, la loro protezione - così come quella mafiosa - non può che essere una `protezione privata': nel duplice senso che viene accordata o negata secondo criteri legati alle `preferenze' di fornitori che, per dirla con Hegel, «hanno il loro proprio interesse come proprio fine», e diventa `universale' soltanto mediante la generalizzazione di questo `scambio' fra privati fornitori e privati acquirenti di essa.
La crescita delle ineguaglianze associate alla globalizzazione non è allora altro che la conseguenza di un processo che, pur svolgendosi all'insegna dell'efficienza, è in realtà intrinsecamente inefficiente: analogamente a quanto accade nel Mezzogiorno, dove la `privatizzazione' della fornitura di protezione ha dato luogo, per un verso, a una generale riluttanza alla cooperazione `impersonale' e all'instabilità permanente degli accordi comunque raggiunti e, per l'altro verso, alla predilezione di quella particolare forma di concorrenza che consiste non già nel far meglio dei propri concorrenti, ma nel farli fuori mediante intese collusive protette dalla mafia, anche qui miglioramenti `individuali' (cioè di singole zone del pianeta) sono possibili, ma la mobilità sociale complessiva si avvicina a un gioco a somma zero.

8.

Quello sommariamente schizzato è un processo ancora agli esordi: basti pensare che, non appena si depurano le statistiche da frequenti errori (come quello di misurare l'ampiezza degli scambi internazionali in termini di valore delle esportazioni e importazioni sul Pil), ci si accorge che il grado di integrazione raggiunto negli scambi commerciali è accostabile a quello esistente già nel 1913. Ma la crescita delle ineguaglianze tra Nord e Sud del mondo è un dato di attualità innegabile, il che induce a pensare che quel quadro sia già racchiuso in potenza nel presente e che, per disegnarlo compiutamente, sia sufficiente prolungare talune tendenze oggi in atto. Mi limito a indicarne alcune.
Molti economisti concordano sul fatto che, con l'apertura delle frontiere alla libera circolazione dei capitali, si è spezzata la catena Stato-territorio-ricchezza. Può non piacere, ma Giulio Tremonti ha ragione: mentre prima bastava agli Stati controllare il proprio territorio per controllare la ricchezza che vi si produceva ed esercitare il monopolio politico (fare e amministrare le leggi, battere moneta e riscuotere le tasse), oggi non è più così: non è più, cioè, lo Stato che decide come tassare la ricchezza prodotta sul suo territorio, ma la ricchezza a scegliere dove essere tassata.
Questa novità, naturalmente, cambia i rapporti tra la borghesia transnazionale (quella che opera via holding finanziarie) e i singoli Stati-nazione. In primo luogo, perché trasforma il precedente rapporto impositivo, fondato sulla potestà imperativa dello Stato, in un rapporto contrattuale tra eguali, basato per giunta sulla relativa superiorità della parte privata. In secondo luogo, perché apre alla borghesia la possibilità di utilizzare a proprio vantaggio le difformità legislative esistenti fra Stato e Stato, scegliendo un assetto organizzativo che canalizzi i flussi finanziari verso i paesi - solitamente ricchi - che garantiscono maggiore redditività (bassi prelievi fiscali, riservatezza bancaria, ecc.) e concentri l'attività produttiva in quei paesi - solitamente poveri - dove le legislazioni assicurano maggiore flessibilità della prestazione lavorativa (bassi salari, restrizioni al diritto di sciopero e alla libertà sindacale ecc.) e un uso più libero delle risorse (assenza di normative antinquinamento, di tutela ambientale, ecc.). In terzo luogo, perché, rendendo difficile agli Stati la possibilità di conquistare quella (relativa) `signoria sul denaro', che ne aveva segnato, nella seconda metà del `secolo breve', la possibilità di intervenire attivamente nel processo economico, li induce a `specializzarsi' nella fornitura di protezione. I confini nazionali, in quest'ottica, sono solo un limite: a misura che si estendono le commodity chains, le «catene di merci» di cui Wallerstein ci ha spiegato essere intessuta l'economia-mondo, le chances di imporsi sul mercato mondiale della protezione vengono a dipendere strettamente dalla capacità di uno Stato di estendere la propria area d'influenza ben al di là del proprio territorio (nel senso che fornire protezione può richiedere talvolta capacità di `aggressione').
Se adesso proviamo a spingere questi processi verso il loro `naturale' punto d'approdo, ci vorrà poco, io credo, a riconoscere nella relazione in fieri tra imprese transnazionali e Stati-nazione i caratteri salienti del `contratto di protezione' tra enterprise syndicate e power syndicate: nell'uno e nell'altro caso abbiamo non l'esercizio di un potere ma un atto di scambio; nell'uno come nell'altro la protezione non è `imposta' ma `domandata'; nell'uno e nell'altro, essa serve a garantire i diritti di proprietà, di uso delle risorse e il controllo della forza lavoro e, per di più, la sua disponibilità sollecita ogni sorta di accordi collusivi volti a restringere la concorrenza: l'esempio più ovvio sono i brevetti, ma non è un caso che la politica agricola dell'Unione europea ricordi da vicino le pratiche delle società dei Mulini e della Posa, due cartelli operanti a Palermo intorno al 1870 sotto l'egida della mafia e organizzati al fine di rendere stabile il prezzo del grano e del trasporto in base a una rigida turnazione, per cui ciascuno dei soci versava alla società una `tassa' proporzionata al valore dei beni e servizi prodotti e accettava periodicamente di ridurre la sua offerta in cambio di una `compensazione' pagatagli dalla cassa comune.
Né si deve credere che l'estensione della propria influenza al di là dei confini nazionali metta capo ad una nuova consapevolezza `politica' degli Stati (di qui l'erroneità delle prospettazioni dei teorici dell'`impero'): sul mercato mondiale essi operano non dissimilmente da un qualsiasi power syndicate, nel senso che non ambiscono affatto a curare gli interessi generali delle comunità che vengono a trovarsi sotto la loro protezione (rectius, `protettorato'), ma a curare i propri interessi, più esattamente quelli dei clienti che hanno scelto di proteggere (la strategia mediorientale degli Stati Uniti d'America costituisce forse il miglior riscontro empirico di quest'affermazione). E quanto al fatto che, talvolta, la mafia protegge da se stessa, basterà ricordare le parole del sociologo americano Charles Tilly: simulando, stimolando e persino inventandosi pericoli di guerre esterne, i governi «spesso operano come il crimine organizzato».

9.

Ribadisco che si tratta di un processo in corso e che procede in modi e ritmo differenti nelle varie regioni del mondo, e non di una descrizione dello status quo. Aggiungo, però, che mai come ora esso è stato simile a quello che visse la Sicilia nella prima metà dell'Ottocento, perché - per dirla ancora con il vecchio Franchetti - quando la borghesia «non ha preso in un paese una preponderanza di numero e l'influenza tale da assicurare ad una legislazione uguale per tutti il sopravvento sulla potenza privata, l'osservanza delle leggi, la condotta regolare e pacifica non è più un mezzo di conservare le proprie sostanze e il proprio stato».
Quest'affermazione non spiega soltanto la ricorrente difficoltà di tutti gli analisti sociali nel distinguere, nell'ambito del mercato mondiale, tra imprenditori operanti nel rispetto della legalità e imprenditori criminali (evasori fiscali, terroristi, trafficanti di droga, di armi, di esseri umani ecc.), essendosi ormai creata una gigantesca `area grigia' nella quale non operano né regolamentazioni fiscali né normative antiriciclaggio e di cui profittano enterprise syndicates dell'una e dell'altra specie; può servire, soprattutto, a comprendere in che modo il disordine prossimo venturo debba molte delle sue possibilità di affermarsi al `tentativo rivoluzionario' che ha interessato l'ordinamento giuridico internazionale sul volgere del millennio.
Di fronte all'allungamento delle commodity chains ben al di là dei confini degli Stati nazione, ci si poteva attendere, in effetti, un'intensificarsi di quel processo già affermatosi nel corso della seconda metà del XX secolo e in base al quale gli Stati - acquisita consapevolezza del fatto che esistono situazioni (dalle spedizioni postali al mantenimento della pace e della sicurezza mondiale) in cui la loro azione uti singuli era insufficiente o, peggio, dannosa - rinunciavano a porzioni di sovranità in favore di organismi intergovernativi istituiti per trattato (dalle Nazioni Unite alla cascata di organizzazioni che ne vennero: Fao, Unesco, Oms, Oil, Fmi, Birs ecc.), i quali, sostituendosi (seppure parzialmente) ad essi nella cura degli interessi comuni, riproducevano tendenzialmente, al livello della comunità internazionale, quella dinamica `immanente' e `civilizzatrice' che Norbert Elias ha spiegato essere all'origine della formazione dello Stato moderno: immanente, perché seguiva traiettorie che trascendevano la capacità di comprensione e d'intervento attivo dei singoli governi che vi si trovavano coinvolti; civilizzatrice, perché incorporava popolazioni frammentate e periferiche le une alle altre in un uniforme sistema di comunicazione e di cooperazione.
È chiaro che sfonderebbe una porta aperta chi obiettasse che il sistema riproduceva nel proprio seno gerarchie di potere esistenti di fatto nella comunità internazionale (un esempio classico è il diritto di veto riconosciuto ad alcuni Stati all'interno del Consiglio di sicurezza dell'Onu): come ben sanno i giuristi, il fulcro della «costituzione in senso materiale» di cui parlava Mortati è l'idea (in verità, molto marxiana) che nella `società politica' valgano rapporti di sovra e sotto-ordinazione che si stabiliscono fattualmente e che le conferiscono già un `ordine'. Ma proprio per ciò, a mio avviso, si sbaglierebbe a svalutare in toto quell'esperienza, perché - negandone il valore progressivo rispetto allo status quo dei due secoli precedenti - si ricadrebbe nell'utopia di quanti desiderano hic et nunc la `pace perpetua' (e, perché no, la libertà e l'eguaglianza di tutte e tutti), dimenticando che «la storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi» e che, dunque, non si dà mai cooperazione se non conflittuale.
Comunque sia, questo processo - entrato in crisi, per motivi facilmente comprensibili, all'indomani della dissoluzione dell'Urss, così come testimoniato dai sempre più frequenti tentativi dei paesi economicamente più forti di sganciarsi dai vincoli loro imposti dalla partecipazione agli organismi sovranazionali di emanazione Onu (o, nella migliore delle ipotesi, di trasformare questi ultimi in sedi di ratifica di decisioni assunte unilateralmente altrove: ad es., nel cd G7, poi divenuto G8 o, come si è detto polemicamente, G-1+7) - ha subito una decisa battuta d'arresto in occasione del bombardamento Nato in Jugoslavia. La scelta di dieci paesi (si sarebbe tentati di definirli `famiglie') di ricorrere all'uso della forza in patente violazione degli Artt. 2, 24, 53 e 103 della Carta delle Nazioni Unite - e in assenza di alcuna giustificazione fondata sull'ordinamento internazionale vigente o di intenti dichiaratamente `normativi' (nel senso che non sembra che gli Stati responsabili dell'attacco abbiano inteso promuovere la formazione di una nuova norma, secondo cui ogni Stato sarebbe legittimato a ricorrere all'uso della forza allorché ritenga che un altro Stato stia perpetrando nel proprio territorio violazioni alle norme del diritto umanitario) - sembra infatti un chiaro tentativo di rivoluzionare il sistema di protezione e sicurezza collettiva fondato sulla Carta delle Nazioni Unite e di introdurre, in sua vece, un regime oligopolistico della protezione affidato a più Stati (o a gruppi di Stati, come la Nato) in competizione tra loro, del tutto analogo a quello a dominazione mafiosa affermatosi in Sicilia all'indomani della `rivoluzione borghese'.
È probabile che è proprio su questo fronte - quello di una ricostruzione della legalità, a livello del mondo globalizzato fondato sulla Carta delle Nazioni Unite - che si gioca, specie in un momento drammatico come quello che oggi viviamo, buona parte del futuro della comunità internazionale.

Luigi Cavallaro
Roma, 1 dicembre 2001
da "La Rivista del Manifesto" (n° 23 - dicembre 2001)