Il terzo settore

No profit, business o impegno sociale?

L'interrogativo approfondito nel libro di Giulio Marcon, "Le ambiguità degli aiuti umanitari"

«Durante il vertice dei G8 di Genova del luglio del 2001, accanto a Bush e Berlusconi, avrebbe potuto sedere - senza bisogno di caschi e scudi, e senza invadere la "zona rossa" - anche un rappresentante del settore "non profit".

Il settore non profit è l'ottava economia mondiale

Con i suoi 19 milioni di lavoratori (quasi 30 se si conteggiano i volontari a "tempo pieno") e 110 miliardi di dollari di fatturato, il settore non profit rappresenta infatti l'ottava economia mondiale, davanti alla Spagna, alla Russia e al Canada. Dieci milioni di organizzazioni non profit locali e nazionali e ben 40.000 associazioni internazionali rappresentano la realtà vastissima di una "società civile globale" - spesso in opposizione alle politiche neoliberiste - che spaventa istituzioni internazionali, governi, imprese. Non sempre, però». Da queste premesse parte Giulio Marcon, uno dei protagonisti dell'impegno umanitario - presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics), impegnato nel coordinamento di intervento sulla questione balcanica che raccoglie in sé oltre cento organizzazioni - nell'introduzione al suo ultimo libro dal titolo eloquente: Le ambiguità degli aiuti umanitari, (Feltrinelli, pp. 184, euro 9,00).

Le due anime del volontariato

Marcon analizza in maniera impietosa il mondo del non profit, stretto tra due poli tra loro inconciliabili: Porto Alegre e Ginevra (l'una teatro di mobilitazioni e della volontà di fare rete, l'altra di ministeri, delle grandi organizzazioni umanitarie e di grandi burocrati). Sono due infatti le anime del volontariato, che tutti conoscono ma nessuno ha osato fino ad oggi mettere nero su bianco, una votata al business, l'altra immolata a difendere la propria autonomia nel sociale. Così è. C'è del marcio nell'osannato volontariato, definizione quest'ultima ormai abbandonata in favore di un altrettanto ambiguo termine che «scimmiotta» il lessico - non solo - del mondo profit: "Terzo settore". Quanto all'Italia, non è un mistero che la cooperazione sia servita da strumento di influenza politica e per aprire nuovi canali commerciali nell'interesse di capitali privati. Tanto per rimanere in casa Fiat, negli anni Ottanta ad esempio, Ansaldo e Cogefar (gioielli di famiglia Agnelli) ottennero rispettivamente 1023 e 158 miliardi di commesse (in vecchie lire) per costruire in Africa dighe e strade inutili e causa di gravi danni ecologici.

Il libro, così come spiega il sottotitolo, vuole essere una indagine critica sul Terzo settore, un fenomeno cresciuto «silenziosamente negli anni ottanta e finalmente esploso in tutta la sua importanza negli ultimi anni» e che ha acquistato «giustamente quell'importanza politica che gli era dovuta. Ma non è tutto oro quello che luccica» spiega la quarta di copertina. Le zone d'ombra sono numerose e risultano apparentate tra loro, in modo «indistinto, organizzazioni che appoggiano la politica estera dei singoli stati nazionali e associazioni, motivate da fortissime ragioni di carattere etico, che invece non possono contare su sostegni statali».

Non solo, ricorda l'esperto, il mondo del volontariato si intreccia con la contemporanea riduzione del Welfare state (l'attuale Finanziaria è nel merito un'ulteriore sciagurata conferma): così accade che sempre più associazioni «volontarie di base» sono utilizzate per supplire al disimpegno dello Stato nelle attività «di carattere sociale».

Cooperazione allo sviluppo o pronto soccorso?

A questo punto, è bene non dare per scontato alcune cose: la prima è che stiamo parlando delle Ong (organizzazioni non governative) impegnate nella cooperazione internazionale e negli aiuti umanitari, di cui appunto l'autore è un osservatore interno; la seconda è che l'economia non profit (quella anche delle "imprese" Onlus) per definizione è quella non basata su fondi pubblici né governata dalla logica del mercato e del profitto, ma nei fatti come testimonia Marcon, più che di un Terzo settore, si dovrebbe parlare di Terzo potere. La grossa posta in gioco degli ultimi dieci anni, dalla guerra in Yugoslavia in poi, non è più la cooperazione allo sviluppo, ma l'aiuto umanitario, l'emergenza, una specie di «pronto soccorso» mondiale, come lo definisce Marcon, che serve ad evitare catastrofi peggiori, e che presta però il fianco a ogni sorta di strumentalizzazione. «Ha una logica questa spirale perversa?», si chiede l'autore riferendosi agli aiuti internazionali che, di fatto, aiutano i paesi ricchi e non quelli ai quali gli aiuti sarebbero destinati. «Ancora una volta la risposta è sì. E' quella dei profitti e degli interessi dei paesi ricchi»; le alternative ci sarebbero, aggiunge: «promuovere l'autosufficienza alimentare, utilizzare il più possibile le risorse locali, rivitalizzare le società contadine, impedire lo sviluppo delle biotecnologie e le iniziative predatorie delle multinazionali agro-alimentari. Proprio quello che viene progressivamente impedito dalle politiche delle istituzioni economiche internazionali».

La missione Arcobaleno

Tra le distorsioni delle "operazioni umanitarie" ufficiali spicca il racconto a forma di diario della missione Arcobaleno (pp. 79-93), finita nel mirino della magistratura, vissuta in prima persona da Marcon, durante la guerra del Kosovo: 28 marzo 1999, riunione al tavolo di coordinamento per gli aiuti al Kosovo. Ci sono ministri, funzionari, militari, rappresentanti di associazioni. Raffaella Bolini a nome dell'Ics fa un intervento durissimo: «Non saremo sotto il vostro elmetto». La ministra Livia Turco è impietrita. Abbozza: «Raffaella non me l'aspettavo da te». Poi le manda un biglietto: «In questi momenti odio di essere ministro». Allora, annota Marcon, perché non si dimette? Già perché non si dimise?

L'industria della sofferenza

Lo spettacolo della sofferenza sta diventando un'importante industria nazionale e internazionale. Ogni vittima o persona assistita è fonte di lavoro per almeno altre sette o otto di diversa categoria o provenienza, dagli operatori ai giornalisti, dai burocrati ai formatori. Cosi accade, spiega Marcon nelle conclusioni del suo lavoro, che anche nel Terzo settore «sono in crescita coloro che Aldo Capitini sarcasticamente definiva i "tengo famiglia": l'obiettivo del terzo settore più ricco è quello di sopravvivere a se stesso e di pagare gli stipendi ai propri funzionari» (pag. 163).

Pavarotti, Dash and friends ... ma c'è di meglio

Così accade che c'è chi spaccia per aiuti umanitari anche l'impresa profit di Luciano Pavarotti "and friends", i fustini del Dash con appiccicata la calcomania del "progetto bontà". Ma per fortuna nel Terzo settore c'è di meglio: migliaia di volontari silenziosi e laboriosi di cui non si parla mai - colpa anche di noi giornalisti - pronti ad andare al seguito delle missioni di pace dei berretti verdi ma poco propensi a sporcarci le mani nei bassifondi del Terzo settore, dove non arrivano le luci della ribalta, ma laddove è partita la vera rivoluzione del volontariato fatto di radicalità di posizioni, di coerenza dei comportamenti, di profondità del proprio impegno: «dove si forma quella "disposizione d'animo" che è fatta di politica, di lavoro dal basso, di minoranze attive». Per un panorama completo ed esaustivo di queste "minoranze attive" si può consultare il prezioso rapporto annuale 2002-2003 sul Terzo settore pubblicato dalla rivista dei consumatori Il Salvagente il 17 ottobre, in collaborazione con Lunaria.

Sabrina Deligia
Roma, 13 novembre 2002
da "Liberazione"