Era un fenomeno. Volava da un palo all'altro. Quelli che se ne intendono avevano previsto per lui una carriera alla Gilmar, alla Felix, alla Leao. Invece...

Il portiere della favela che parò la morte

La storia di Edminton, promessa brasiliana che perse i suoi sogni per fermare un proiettile diretto a un bimbo

Nell'estate del 1989, ritornai in Brasile. Dovevo seguire per il mio giornale la Coppa America di calcio. Per me, soprattutto, voleva dire rivisitare la metropoli dove sono nato, San Paolo, e da lì andare a Rio de Janeiro e a Salvador di Bahia: inseguendo un pallone e tanti, troppi ricordi. A Salvador tornavo volentieri. La città più bella e misteriosa del mondo. Chiese e superstizione, capoeira e football. Le parole di Jorge Amado, la musica di Vinicius de Moraes. E il mio amico Pedrinho. Quella mattina (un cielo riposato, le onde regolari dell'oceano, i colori delle case più abbaglianti del solito) decisi di andarlo a trovare. Pedrinho vendeva oggetti per i turisti davanti alla Chiesa del Bomfim. Era stato poliziotto, ma non gli piaceva inseguire i poveri. «I ricchi fanno i danni e i poveracci devono pagare. Non ho mai visto un miliardario andare in galera», mi ripeteva. Così, si è messo a fare il venditore amibulante. Senza orario. Senza famiglia. Gli piaceva, piuttosto, suonare il pandeiro, che è una specie di tamburello. La gente ballava e batteva le mani, lui sorrideva e cantava, e non poteva esserci giorno più lucente. Lo avevo conosciuto due anni prima, sempre lì, in quello spiazzo senza ombra. Voleva rifilarmi una improbabile statuetta di legno. Abbiamo cominciato a parlare, siamo finiti a bere birra sino al crepuscolo. Le sue storie del porto di Bahia mi affascinavano. Chiudevo gli occhi, e vedevo pirati, santoni, donne meravigliose, uccellini parlanti, navi fantasma.

Adesso, rieccolo. Mi abbracciava e baciava, mi dava pacche sulle spalle. «Sei ingrassato, furfante», gli dissi. «E tu cominci ad avere i capelli bianchi, vecchio mio. Una birra?». Feci sì con la testa. «Ma non qui, aspetta... Jorge, prendi il mio posto. Cerca di tirare su qualche soldo, ché stasera andiamo tutti a cena. Pesce e vino a volontà. Pago io, per una volta», e Pedrinho mi invitò a seguirlo. Era di buonumore, con la camicia a fiori, i pantaloni troppo larghi, i sandali. Di media statura, mulatto, camminava ondeggiando. Non mi ha mai voluto dire la sua età: «Qui a Salvador non contiamo il tempo, gli anni, le stagioni. Questo sappiamo: un giorno siamo nati, un giorno moriremo. Il resto, che importa?». Ha avuto due moglie, cinque figli, decine di amanti.

«Dove mi stai portando, Pedrinho?», interruppi un momento di silenzio. L'aria era trasparente. Non una nuvola. Un caldo sopportabile.

«Andiamo alla favela. Ti fa bene toccare da vicino la realtà. Voi giornalisti vivete in un'altra dimensione: grandi alberghi, ristoranti di lusso, allo stadio andate in tribuna stampa. Ma cosa raccontate?», aveva una faccia da rimprovero.

«Lo sai che non sono fatto così. Io consumo ancora le suole delle scarpe. Mi piace stare tra la gente. Sto dalla parte di chi soffre».

«Sì, lo so. E se non sbaglio sei pure comunista. Qui in Brasile essere comunisti è un lusso. Eppure, qualcosa sta cambiando. Uno di noi, uno che si chiama Lula, un ex operaio metallurgico pernambucano, vuol diventare presidente del Brasile! T'immagini: un ex povero capo dello stato, ma quando mai!».

«Perché non crederci, Pedrinho? Il Partito dei Lavoratori è una cosa seria».

«Qui comandano i potenti. Sono loro a decidere il bene e il male. Ci sono ancora gli schiavi in Brasile, non dimenticarlo. E gli schiavi non vanno a votare. Ecco, siamo arrivati».

La favela di Salvador. Ci vennero incontro dei bambini. Salutarono Pedrinho con affetto. Le case erano di fango e cartone. Non eravamo in una telenovela. Quello era il Brasile. Non c'erano cartoline da spedire.

«Vedi quello?», Pedrinho mi indicò un uomo alto, magro, mulatto. Ai bordi di un improbabile campo di calcio, seguiva la partita di alcuni ragazzini. Erano tutti scalzi. Scalzi e innocenti.

«Chi è, Pedrinho?».

«E' il portiere della favela. Quand'era giovane poteva avere un avvenire nel calcio professionistico. Era un fenomeno. Volava da un palo all'altro. Quelli che se ne intendono avevano previsto per lui una carriera alla Gilmar, alla Felix, alla Leao. Invece...».

Guardavo quell'uomo. Aveva un viso segnato da rughe e dolori. Ma due occhi intensi, che riflettevano lontananze misteriose.

«Invece?».

«E' una storia tragica, amico mio. Guardagli la mano destra».

Gli mancavano tre dita.

«Si chiama Edmilton. Passa le sue giornate su questo campo. Non parla mai. Vive di nostalgie, delle occasioni perdute, di un rimpianto che si è impossessato della sua anima. Ma è stato un eroe. Per questo qui nella favela tutti lo rispettano. E con lui dividono il pezzo di pane e il piatto di riso. Una sera, tornava dall'allenamento con il Vitoria. L'allenatore gli aveva detto: continua così e presto debutterai in prima squadra. Lui voleva guadagnare tanti soldi per regalare una casa, un frigorifero, una televisione a sua madre. Quanti sacrifici aveva fatto quella donna per allevare i nove figli! Edmilton voleva regalarle una vita da regina. Il destino, però, decise diversamente. Chissà perché il destino raramente sta dalla parte dei giusti».

Pedrinho si accese una sigaretta, e continuò: «Quella sera pioveva. Tuoni e fulmini. Edmilton era, al solito, tornato a piedi. Con la sua borsa a tracolla, i suoi sogni nel cuore. Poi, sentì gridare. Vide un ragazzino scappare, inseguito da due, tre elementi degli squadroni della morte, genta pagata dai ricchi per far fuori i poveri. Sai perché dovevano morire i poveri? Perché disturbavano. Sì, proprio così: perché davano fastidio in quanto poveri. Il ragazzino urlava, aveva soltanto dodici anni e nessuna colpa addosso. Se non quella di non avere nemmeno una camicia. Edmilton si trovava lì, a due passi. Vide uno di quegli assassini prendere la mira. E, così, si tuffò. Come faceva durante le partite. Un tuffo perfetto. Perché il proiettile prese la sua mano destra, ma non il ragazzino. Gli assassini se ne andarono, cominciava ad arrivare troppa gente. Edmilton perse tre dita, smise di giocare e di sognare. E' diventato il portiere della favela».

Non so perché, ma cominciai a piangere. Pedrinho mi prese sottobraccio. «Vieni, andiamo al porto. Ti ho mai raccontato la storia del pesciolino d'oro e della baiana dalle sette vite?».

Darwin Pastorin
Montevideo, 23 novembre 2004
da "Liberazione"