8 settembre 1943

Una ricorrenza un po' speciale

L'anniversario cade nel pieno di una crisi che coinvolge tutti i gangli dello Stato, a partire dalle esibizioni pazzesche di chi si fregia del titolo di presidente del Consiglio

Non sono soltanto i sessant'anni (1943-2003), a rendere un po' speciale questo Otto Settembre, il cui anniversario cade nel pieno di una crisi che coinvolge tutti i gangli dello Stato, a partire dalle esibizioni pazzesche di colui che si fregia del titolo di presidente del Consiglio dei ministri. In questo momento politico, di disfacimento dello Stato, che parte dal suo vertice governativo, cade il 60° di una giornata-simbolo della nostra storia, caratterizzata in primo luogo dal disfacimento istituzionale. Fu il crollo totale del sistema-Stato, con una classe dirigente che mostrò la sua viltà, una monarchia che rivelò la sua pochezza istituzionale, un esercito in mano a generali e quadri perlopiù inetti e vigliacchi, anche se gli episodi di resistenza spontanea da parte di soldati italiani, sottufficiali e ufficiali (primi fra tutti Cefalonia e Corfù), furono - come ora il recente libro di Carlo Vallauri (Soldati, Utet) - assai più numerosi: quarantamila furono i morti e i dispersi.

A partire dall'espressione di Sebastiano Satta ("la morte della patria"), un po' improvvidamente utilizzata da Renzo De Felice e discutibilmente ripresa da Ernesto Galli della Loggia, si tratta appunto di chiederci che cosa sia stato l'Otto Settembre. Morte o rinascita? Catastrofe o ripresa del senso civico? Tradimento degli alleati o ricupero dell'autentica fedeltà? E così via, in un susseguirsi di interrogativi un po' retorici, che mostrano la difficoltà di mettere a fuoco i problemi, i quali furono tanti e gravi. Fu quella una nazione allo sbando, per servirsi dell'efficace titolo di un libro ora riedito (Il Mulino), di Elena Aga Rossi, che mette a fuoco impietosamente quelle viltà e quelle inefficienze degli apparati statali, e in specie del Regio Esercito, che rivelarono che il regime mussoliniano era un gigante dai piedi d'argilla, ma anche che non tutti gli italiani erano intenzionati a finire travolti nella "zona grigia", di coloro che aspettano alla finestra, di quelli che sperano solo di portare a casa la pelle, che "Franza o Spagna purché se magna".

La Resistenza, insomma, pur fatto minoritario, coinvolse una parte consistente degli italiani, un po' in tutte le regioni del Centro Nord: taluni in armi, molti in retrovie inventate momento per momento, la maggioranza in un atteggiamento di sostegno indiretto, anche solo psicologico. E ciò ebbe inizio proprio mentre lo Stato andava a brandelli, con l'esercito che si squagliava, il re che fuggiva e un brandello di governo sbagliava i tempi pur facendo la cosa giusta, ossia chiedeva l'armistizio agli angloamericani, e gli alleati nazisti si trasformavano in truppa d'occupazione.

Oggi più che mai, vale la pena di riaffermare il nostro debito di riconoscenza verso coloro che in quella fatidica data salirono "in montagna" o si diedero alla macchia, o quei soldati che osarono, per fedeltà allo Stato (incarnato dal monarca) o per una sorta di spontaneo odio per i tedeschi, o per una scelta politica. Prima insomma che ci impongano, per decreto, la tesi che l'Otto Settembre è stato "la morte della patria", e che i "ragazzi di Salò" furono patrioti alla stessa stregua dei partigiani e dei soldati che non vollero cedere alle truppe germaniche, ribadiamo che quello fu il primo tentativo di una minoranza di italiani - non così esigua - di liberarsi di un concetto di nazione intriso di morte e di sangue.

Nel contempo, con l'Otto Settembre, gli italiani si avviarono verso il ricupero di un'idea di patria, pur confusa, fondata sulle scelte e non sulle appartenenze, da costruire in nome di valori e non da tramandare come comunità dei morti e dei vivi, una patria da sigillare magari con l'eroismo fino all'estremo sacrificio contro i nazisti: non in quanto tedeschi, ossia "stranieri", ma in quanto portatori di un'idea e di una pratica fondate sul terrore; in tal senso nemici erano, alla stregua dei nazisti, i repubblichini, anche se parlavano la stessa lingua o magari erano vicini di casa.

Dopo, la "patria" incominciò a cambiare di segno; fu la patria della cittadinanza, quella scelta per un comune sentire, per un rifiuto nato, anche tardi, inizialmente tra pochi, poi diffusosi lentamente, contro la violenza di un sistema totalitario. Insomma, fu l'Otto Settembre a consentire agli Italiani di riscoprirsi com-patrioti in quanto con-cittadini: il cemento di quel nuovo "patriottismo" nacque dalla riscoperta - o piuttosto dalla scoperta - del valore della democrazia, dall'illusione di essere vicini a realizzarne una autentica. Da ciò - dopo l'esperienza catartica della Resistenza - nacque la Costituzione: che non fu un patto fra tutti gli italiani, ma soltanto fra coloro che avevano condiviso quella esperienza. Il che non impedisce oggi di essere perplessi davanti a certe nuove esaltazioni del concetto di patria, che magari rispolverano ideali mazziniani. Oggi si può riparlare di patria, ci si può commuovere sentendo l'Inno di Mameli o vedendo garrire un tricolore, ma solo perché qualcuno si inventa inesistenti "nazioni" padane o addirittura lombarde o varesotte. Il nuovo patriottismo comporta la necessità di fermare le vecchie ingiustizie e di tenere a bada le nuove, davanti ai problemi epocali - la guerra, la distruzione dell'ecosistema, le piaghe della malattia e della fame - e davanti alle questioni concrete del nostro paese - a cominciare dall'"anomalia B", che rischia di essere l'equivalente di un esercito di occupazione -, c'è l'urgenza di una cultura politica capace di affrontare quei problemi e la necessità-diritto di difendere la verità della storia e di non cedere davanti alle menzogne e all'oblio.

Angelo d'Orsi
Roma, 7 settembre 2003
da "Liberazione"