Milano, 12 dicembre 1969

Le lunghe tappe del processo

Milano, 35 anni fa la strage neofascista. La "strategia della tensione"

La strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 non è, come molti vorrebbero ancora farci credere, un episodio oscuro nella storia del nostro paese. E' una pagina chiara. Forse non si riuscirà ancora a ricostruire in sede giudiziaria l'esatta dinamica, ma quel che non è più manipolabile è la trama. Si fece la strage per fermare, da parte di una classe politica criminale, la messa in discussione del proprio ruolo. Le bande neonaziste di Ordine nuovo, strumento esecutivo della "strategia della tensione", servirono a questo scopo.

Due comunque le domande che oggi ci poniamo a distanza di tanti anni circa la preparazione e lo svolgimento del 12 dicembre. Due interrogativi per nulla indagati e per molti versi ancora inediti che getterebbero luce nuova sullo svolgimento dei fatti. Cosa accadde veramente quel giorno a Milano?

Quattro e non due le bombe?

Sulle pagine del quotidiano L'Unità, il 18 dicembre del 1969, a pochissimi giorni dai tragici fatti e dalla morte di Giuseppe Pinelli, precipitato dal quarto piano della questura, comparve in edizione nazionale il resoconto di una conferenza stampa degli anarchici del circolo Ponte della Ghisolfa con la clamorosa denuncia del ritrovamento di altri due ordigni inesplosi, taciuti dalla polizia, nella sera stessa del 12 dicembre, uno in una caserma militare ed un altro in un grande magazzino. La questura smentì immediatamente, ma sembrerebbe che di almeno per uno di questi due ritrovamenti esisterebbe addirittura un verbale dei vigili urbani, ora agli atti del nuovo procedimento per piazza Fontana, con l'ora esatta del rinvenimento: le 23. Una ben strana notizia, rimasta senza seguito e successive attente verifiche. Alcuni dubbi rimangono, soprattutto se si considera l'affanno con cui il perito balistico del tribunale di Milano, l'ingegnere Teonesto Cerri, verso le 21,25, a pochissime ore dalla strage, su richiesta del procuratore generale della Repubblica De Peppo fece saltare la valigetta metallica con la bomba inesplosa ritrovata alla 17,30 alla banca Commerciale Italiana di piazza della Scala. La sua iniziale intenzione sembrerebbe in realtà fosse anche quella di distruggere insieme alla cassetta la borsa. Solo l'insistenza di un maresciallo artificiere impedì un atto tanto insensato. Una decisione che, come noto, comunque distrusse irrimediabilmente le possibilità di risalire con facilità agli autori ed ai mandanti della strage, esaminando l'esplosivo, la provenienza ed il congegno di innesco.

Legittime a questo punto alcune domande. Cosa si volle tenere nascosto quel giorno e chi lo fece? Quante furono effettivamente le bombe innescate? Quali proporzioni avrebbe dovuto assumere la strage di Milano? Di che le eventuali responsabilità dell'occultamento degli ordigni ritrovati? Domande che meriterebbero una risposta, pur a distanza di tanti anni. Domande non inutili per sapere chi e perché decise di manipolare la verità. Si spiegherebbe finalmente in questo modo forse anche il motivo dell'acquisto di quattro borse a Padova. Tutte, a questo punto, predisposte per gli attentati di Milano. A Roma per le altre tre bombe si sarebbe dovuto evidentemente provvedere diversamente.

Una strage attesa da ore

Anche un'altra concatenazioni di fatti, antecedente la strage, non è mai stata sufficientemente indagata. Nel memoriale di Aldo Moro redatto nei cinquantacinque giorni della sua prigionia ad opera delle Brigate rosse, tra il 16 marzo ed il 9 maggio 1978, rinvenuto nell'ottobre del 1990 in via Monte Nevoso a Milano, leggiamo testualmente: «Ma i fatti di piazza Fontana furono certo di gran lunga più importanti. Io ne fui informato, attonito, a Parigi dove ero insieme con i miei collaboratori in occasione di una seduta importante dell'assemblea del Consiglio d'Europa che per ragioni di turno dovevo presiedere… Proprio sul finire della seduta mattutina ci venne tra le mani il terribile comunicato d'agenzia, il quale ci dette la sensazione che qualcosa di inaudita gravità stesse maturando nel nostro paese. Le telefonate, intrecciatesi fra Parigi e Roma, nelle ore successive non potettero darci nessun chiarimento… Io cercai di sapere qualche cosa, rivolgendomi subito al presidente Picella, allora segretario generale della presidenza della Repubblica, uomo molto posato, centro di molte informazioni (ovviamente ad altissimo livello) ma non con canali propri. I suoi erano i canali dello Stato. Alla mia domanda sulla qualifica politica dei fatti, la risposta fu che si trattava di gente appartenente al mondo anarchico».

Un ricordo singolare. Come è noto, la strage di piazza Fontana avvenne solo alcune ore più tardi, alle 16.37. L'Ansa diramò la notizia alle 17.05 e solo nel dispaccio delle 18.30 parlò di una bomba. Si potrà certamente pensare ad un cattivo ricordo anche per le difficili condizioni di prigionia in cui versava Moro. Ma a ricordare male non fu il solo. Anche Carlo Cecchi, già parlamentare del Pci nella sua Storia della P2 incorse in un identico infortunio: «… In Italia l'inizio del secondo tripudio (quello delle armi e del terrorismo) è contrassegnato da una data e da un'ora: il 12 dicembre 1969, intorno alle 11 del mattino. E' la strage di Piazza Fontana».

Forse a monte di tutto ciò una spiegazione molto semplice: già 5 o 6 ore prima in ambienti politici e militari si era diffusa la notizia dell'imminenza di un fatto di eccezionale gravità. L'allarme era già diffuso. Da qui l'anticipazione in alcuni protagonisti politici dell'epoca del ricordo della strage. Andrebbe, sotto questo profilo, ancora una volta ricordato l'interrogatorio reso il 7 settembre 2000 dal senatore a vita Paolo Emilio Taviani, più volte ministro e figura tra le più prestigiose della Dc. Interrogatorio rilasciato nell'ambito delle nuove indagini sulla strage di piazza Fontana. Uno dei documenti in assoluto più illuminanti proprio sulle ore antecedenti i fatti. «La sera del 12 dicembre1969 - disse - il dottor Fusco, defunto negli anni '80, stava per partire da Fiumicino per Milano, era un agente di tutto rispetto del Sid… Doveva partire per Milano recando l'ordine di impedire attentati terroristici. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era tragicamente scoppiata e rientrò a Roma. Da Padova a Milano si mosse, per depistare le colpe verso la sinistra, un ufficiale del Sid, il tenenente colonnello Del Gaudio». Una ricostruzione ribadita dalla stessa figlia del dottor Fusco, Anna, solo pochi mesi dopo, il 13 marzo 2001. «Posso dirvi - ribadì, riferendosi al padre - che il non aver impedito la strage di Piazza Fontana fu il cruccio della sua vita». In questa ultima deposizione la signora Fusco aggiunse anche un particolare su cui mai si è forse riflettuto sufficientemente. «Mio padre - sostenne - era un "rautiano di ferro" e ho sempre avuto l'impressione che abbia appreso l'episodio del 12 dicembre non dai servizi ma dalle sue conoscenze di destra». La verità, anche in questa versione, continua a portare all'intreccio fra neofascisti ed apparati statali.

Saverio Ferrari
Milano, 12 dicembre 2004
da "Liberazione"