L'eccidio di Valaperta

Il sangue dei vincitori

In mezzo al profluvio di memorialistica recente sulle malefatte dei partigiani, questa potrà apparire una storia fuori moda: una feroce razzia delle Brigate nere in un paesino vicino a Lecco.
A comandare, minacciare, bruciare, eseguire, un certo ing. Emilio Formigoni. Perché lo fece?

Valaperta, lapide ricordo

VALAPERTA
La lapide che ricorda l'eccidio

Fa molto freddo, stamattina a Valaperta di Casatenovo, e il minuscolo spiazzo davanti alla chiesa è incrostato di neve gelata. Lo stesso gelo e la stessa neve che dovevano esserci quella mattina del 3 gennaio 1945, quando su questo spiazzo ci fu un gran trambusto di gente, e il parroco di Maresso don Carlo piangeva e si agitava insieme a don Enrico, perché volevano fucilare quei quattro ragazzi proprio lì, davanti alla chiesa, in modo che tutti vedessero. E tanto piansero che i quattro furono portati qualche decina di metri più avanti sulla strada per Lomagna, in un campo che sta più in basso e dalla chiesa non si vede. Ma dopo tutti videro la striscia di sangue che colava dall’autocarro sul quale avevano caricato i partigiani morti, e quel rosso che macchiava la neve sulla salita per Casatenovo gli anziani se lo ricordano ancora oggi.

Valaperta è una frazione sulle collinette morbide e tonde della Brianza lecchese. In guerra era un pugno di cascine e stalle di contadini poveri, qualche casa operaia, un’osteria. Per i partigiani era una zona di transito, e non di combattimento. Si sparava più su, in Valsassina e in Valtellina. Più in basso si apriva la pianura con le fabbriche, con gli operai che facevano i sabotaggi e i partigiani che facevano saltare ponti e binari, e assaltavano i convogli del trasporto armi. A Valaperta i partigiani “di fuori” ci venivano soprattutto per organizzare il rifornimento viveri delle brigate di montagna — al salumificio Vismara uno dei padroni, Luigi, era particolarmente disponibile. Le donne del posto dicono che certi ci venivano anche per le ragazze, che “ai partigiani ci andavano dietro”.

Ma che cosa accadde il 3 gennaio 1945, e soprattutto, che cosa era accaduto esattamente il 23 ottobre 1944, antefatto e innesco dell’eccidio di Valaperta?

La morte di Chiarelli

Valaperta, campo

VALAPERTA
Il campo dove fu sepolto il milite Chiarelli

Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana di Como, 17.11.1944: “Il 23 ottobre u.s. il milite scelto GAETANO CHIARELLI del distaccamento della GNR di Missaglia, mentre si recava per assumere informazioni su un renitente veniva ucciso da banditi a colpi di arma da fuoco”. Il renitente è un ragazzo di Valaperta, Luigi Gaiati, uno dei tanti che non avevano risposto alla chiamata fascista. Negli stessi notiziari della Gnr inviati al Duce, mentre si registrava con sollievo la scarsità di forme palesi di ribellione, si notava con rancore: “Ciò non toglie che ci si trovi davanti ad una maggioranza di popolo senza spirito, senza fede e senza ideali ben definiti”.

Il milite scelto Chiarelli arriva in bicicletta da Maresso, e va a cercare la sorella di Gaiati. Passa davanti all’osteria gestita da Maria Caldirola, che i partigiani usano come punto di ritrovo. In quel momento, come ci racconta il partigiano di Casatenovo Aldo Redaelli, nel locale ci sono tre della 55° Brigata Rosselli, appena scesi dalla Valsassina. Uno è il vicecomandante di Redaelli, Nazzaro Vitali. È di Bellano, sul lago di Lecco: “Era uno bravo, non come gli altri due”. Degli altri due Redaelli prega di non fare il nome: ma ci spiega che sono morti poco tempo dopo quel giorno, ammazzati anche loro. Di Chiarelli dice: “Non era un sacrament, non era un fanatico. Più che altro lo usavano come postino. Ma Vitale non lo conosceva, non conosceva la zona. Quando gli altri due gli hanno detto “sparagli, sparagli”!, lui ha sparato. E poi lo hanno seppellito a testa in giù. E non era cosa da fare, perché noi eravamo partigiani, mica delinquenti”.

Alcune cronache, poi riprese in libri sulla resistenza brianzola, parlano di una sparatoria tra i partigiani e il milite. Ma pare certo che sparatoria non ci sia stata: i tre fanno scendere Chiarelli dalla bicicletta, gli chiedono di consegnare le armi, e al suo rifiuto, Nazzaro Vitale lo uccide.

Il terrore si impadronisce degli abitanti di Valaperta. I partigiani locali chiedono ai tre della Rosselli di far sparire il corpo, gli uomini scappano temendo la rappresaglia. Il corpo di Chiarelli viene trascinato per un centinaio di metri, lo seppelliscono in un campo di frumento. Quando finiscono, a Valaperta sono rimasti solo vecchi, donne e bambini. Tra le donne c’è anche la Gustìna Fumagalli, che oggi ha 93 anni e quando le chiedi di quel giorno prima sbuffa “Uh, ma che menada!” ma poi racconta tutto e con le mani e con la faccia ti rimima tutto l’orrore delle 24 ore che seguono la spiata del contadino — non si è mai detto apertamente il suo nome — che telefona al brigadiere di Missaglia e lo avverte che Chiarelli è scomparso.

Valaperta, Aldo Redaelli

VALAPERTA
Il campo dove fu sepolto il milite Chiarelli

La prima che vede arrivare i fascisti è però una bambina di quattro anni. È con la mamma a fare il bucato, al rubinetto del cortile. “Mamma, i replicàn! I replicàn!”. La madre raccoglie il bucato, scappano in casa. La Gustìna Fumagalli invece sta mettendo a posto le bestie. Il paese brulica di militi. Ci sono le guardie repubblicane (la vecchia milizia fusa con i carabinieri), e ci sono le famigerate Brigate nere, formate da volontari: sono i più fanatici, i più indisciplinati, tanto dediti a saccheggi e razzie che perfino i tedeschi ne diffidano.

A Valaperta è l’inferno. I comandanti di Brigate Nere ce ne sono ben due: uno è il professor Giuseppe Gaidoni, comandante della Brigata nera di Merate, l’altro è l’ingegner Emilio Formigoni, lecchese, comandante della Brigata nera di Missaglia. Ed èquest’ultimo, futuro padre di Roberto Formigoni, attuale presidente della Regione Lombardia, a rimanere impresso — per fanatismo e ferocia — nella memoria dei sopravvissuti. Tutte le testimonianze cominciano così: “Arrivò quel Formigoni...”. I fascisti chiedono notizie del milite scomparso, ma nessuno risponde. Allora tirano fuori i lanciafiamme e le bombe a mano, e le lanciano nei fienili. Le cascine bruciano. Bruciano gli animali: le mucche, un mulo, i cavalli, i maiali. Sono legati nelle stalle, e agli abitanti non è stato concesso di portarli via. La signora che allora era una bimba ricorda che le donne furono obbligate ad allinearsi davanti all’incendio e a guardare e sentire le bestie che si struggevano nel fuoco: “Brucerete come loro! Queste bombe saranno per voi”. La GustIna si agita ancora adesso: “Io avevo quattro figli, quattro bagaj... madonna, i fascisti! Hanno rovesciato le damigiane di vino, hanno spaccato tutto. Volevo morire! Siamo scappati nel fango, a piedi nudi, e loro ci mitragliavano dietro. Ches chi sono i fascisti! Mi hanno bruciato anche la casa”. Sfida il gelo in grembiule e ciabatte, la Gustìna, per far vedere i segni dell’incendio.

Restano tutta la notte, le Brigate nere. Picchiano, minacciano, portano via la gente. Vorrebbero ammazzare la padrona dell’osteria, rea di aver ospitato i partigiani: la risparmiano solo perché è incinta. Al mattino trovano il cadavere del milite, che era stato nascosto sotto un gelso, con la terra ben ricompattata: ma le piantine di frumento mancanti denunciano la frettolosa sepoltura. Altre violenze seguono il ritrovamento, e non è certo finita. Quelli di Valaperta diventano sorvegliati speciali, alle famiglie vengono tolte per tre mesi le tessere alimentari: e non è che in quel terribile inverno 1944-1945 ci sia molto da mangiare. Gli uomini restano nascosti nelle campagne circostanti, chi ha visto bruciare case e stalle — e sono molti —chiede asilo ai parenti.

Valaperta, vecchie case

VALAPERTA
Il campo dove fu sepolto il milite Chiarelli

L’eccidio

Passano i mesi, e alla fine di dicembre nel carcere di Missaglia ci sono quattro partigiani, accusati dell’uccisione del Chiarelli. Uno èNazzaro Vitale, che inutilmente prega di lasciare liberi gli altri tre: lui, solo lui è il colpevole, lui ha sparato. Gli altri sono Mario Villa di Biassono, Natale Beretta e Gabriele Colombo di Arcore. Sono tutti della 104° Brigata Garibaldi.

Di Colombo e Beretta sappiamo — da una memoria scritta nel 1946 da Roberto Beretta, fratello di Natale — che sono stati arrestati dalla Muti di Merate. Li hanno presi a casa, dove sono tornati contando sull’amnistia proclamata dalla Repubblica di Salò. Non c’entrano nulla, come non c’entra Mario Villa: contro di loro solo testimonianze campate sul vuoto, estorte con la tortura.

È crudele, particolarmente crudele, la repressione in Brianza. Il primo morto, la prima vittima dei nazifascisti è stato un matto di paese, uno di quelli che all’osteria bevono tanto e le sparano grosse. Abita a Osnago. Si chiama Casiraghi, ma lo conoscono come Galett. All’osteria gli dicono: se non ti piacciono i tedeschi, perché non fai qualcosa? Lui esce e va a tagliare un po' di fili telefonici del presidio della Wehrmacht. Lo impiccano il 28 ottobre 1943.

A Colombo, Vitale, Villa e Beretta non viene fatto alcun processo: al momento dell’esecuzione, quando qualcuno chiederà come mai questo sia accaduto, uno dei capi — un uomo che i testimoni descrivono come sui 45 anni, vestito con un impermeabile grigio — dirà che “questi sono i metodi del Saletta” (Domenico Saletta, capo dell’ufficio politico di Como, condannato a morte dal Tribunale Militare, e fucilato il 24 maggio 1945).


Valaperta, la Gustina

VALAPERTA
La Gustìna

L’uccisione dei quattro partigiani viene fissata per il 2 gennaio, ma la devono rimandare di un giorno perché la ditta Vismara con il pretesto di un guasto si e rifiutata di fornire il camion che servirà al trasporto delle bare. Della mattinata del 3 esistono due relazioni ufficiali. La prima, datata 22.11.1945, è firmata dal medico condotto di Valaperta, un omone grande e grosso, amatissimo dai suoi compaesani, che prima di morire in un incidente stradale mentre andava in ospedale a trovare una paziente, ebbe modo di raccontare al figlio Luigi (ora è lui il medico condotto) quella scena orribile con un partigiano a terra che gemeva e il fascista venuto a dargli il colpo di grazia: una scena tale da far gridare ai preti e al medico “Basta, non è mica un cane!”.

Relazione del medico

“Della Morte Guerrino di Cesare anni 28 nato a Campodolcino residente a Casatenuovo. Confermo la mia relazione fatta in data 10.9.1945. Verso le 10.30 del 3.1.1945 venne per ordine del Commissario Prefettizio di Casatenovo sig. Gennaro Firmiani, dicendomi di recarmi a Valaperta ove era necessaria Ia mia presenza. Colà giunto trovai 2 sacerdoti Don Carlo Sala e il suo coadiutore. Dall’abitato di Valaperta usciva il BB nero sig. Bonvecchio Giacomo, un sottotenente giovanissimo e due militari, arrivarono poi una o due motociclette, un motofurgone, una o due automobili e un camioncino. Dalle macchine scesero varie persone quasi tutti in borghese armati di mitra, sul camioncino stavano 4 partigiani che dovevano essere fucilati, notai sul loro viso atroci sofferenze. Sopraggiunto il Commissario Prefettizio il quale era allibito di dover assistere, ma gli fu imposto di restare. Giunti sul posto prescelto i 4 Partigiani furono spinti oltre la curva e scomparvero alla mia vista. Il plotone di esecuzione era composto di 4 persone: erano presenti Ing. Emilio Formigoni, Raul Remigi, Achille Miglioli maestro elementare, forse Parmiani e una persona piccola di 35/40 anni, chi sparò era in borghese. Dietro il plotone di esecuzione vi era il brigadiere Bonvecchio. Sentii sparare. Vi era una persona sui 45 anni di media statura con un impermeabile grigio che incitava a mirare nel segno perché alcuni di questi erano riluttanti e sdegnati per quanto stavano per fare.

Il Vitale Nazzaro presentava evidenti segni di gravi sevizie subite in precedenza, gli mancavano quasi tutti i denti, due erano morti subito. Colombo e Beretta da Arcore furono ripetutamente colpiti col mitra e con rivoltella. Constatata la monte, segnai i nomi dei caduti, composi le membra straziate che per quel tanto che permisero il mio spirito scosso e Ia mia mente inebetita per tanta barbarie. Firmato Dott. Della Monte Guerrino - Avv. Pietro Longhi. 22-11-1945”.

Dichiarazione del commissario prefettizio. “Comm. Pref Gennaro Firmiani di anni Il giorno 3 gennaio 1945 dovetti recarmi a Valaperta quale Commissario Prefettizio della zona di Casatenovo perentoriamente chiamato dall’ingegner Formigoni Emilio, comandante delle BB nere. Per la fucilazione di ostaggi. lo vidi Formigoni Emilio, Miglioli, Bonvecchio non so se erano presenti Beretta Antonio e Remigi perché io ero agitato confuso e sgomentato di dover assistere a tanta barbarie. Gossetti Federico non era con gli altri delle brigate nere, era con i sacerdoti e formavano un gruppo a se. Gossetti non faceva parte degli esecutori. Firmato Comm. Pref Gennaro Firmiani, 26-10-1945”.

Il processo

Il 29 marzo 1947 la Corte d’assise Straordinaria di Como, presieduta dall’avvocato Ettore Acerra, pronuncia la sentenza contro 13 imputati. Tra questi ci sono i comandanti delle Brigate Nere di Merate e Missaglia, Gaidoni e Formigoni. L’ingegner Formigoni Emilio risulta latitante: nei giorni convulsi dell’insurrezione di fine aprile è stato catturato e portato nel carcere di San Donnino Como, lo stesso in cui i suoi uomini hanno torturato e ammazzato. Ma poi, in seguito a un accordo con il Comitato di Liberazione Nazionale, gli americani fanno uscire i fascisti imprigionati. Formigoni non si vede più né a Lecco, dove ha vissuto con la famiglia, né a Missaglia dove — oltre a fare il brigatista nero — ha diretto il cementificio di Lomaniga. Non tira aria, per lui, né a Valaperta né altrove. A Missaglia, per esempio, c’è un intera famiglia che non lo perdonerà. Le due sorelle Lina e Virginia Bottani, cattoliche, benestanti e antifasciste (hanno dato rifugio ai partigiani del raggruppamento Alfredo di Dio, e a chiunque — ebreo o insorto — sia venuto a bussare alla loro porta), sono un atto di accusa vivente contro di lui. Virginia, la più giovane, è stata arrestata con l’accusa di essere “una sovversiva”: l’hanno tenuta a San Donnino in una cella grande come una tomba, l’hanno costretta ad assistere alle torture di partigiani e li ha visti piangere come bambini invocando la mamma che li venisse a salvare. Poi l’hanno spedita a San Vittore, dove è rimasta fino alla Liberazione. Ora è molto malata, ma la si può vedere in una registrazione di qualche anno fa: una signora elegante e composta, che racconta di quando i fascisti oltre ad arrestare il padre e la sorella, le saccheggiarono la casa, porcellane di valore e biancheria ricamata. Con lei che dice: “La biancheria l’ho recuperata grazie al partigiano Valagussa che dopo la Liberazione si piantò davanti a casa del Formigoni per impedire che facessero a lui quel che avevano fatto a noi. Il Valagussa trovò in quella casa un baule pieno di biancheria ricamata, che era nostra: e ce la riconsegnò”.

Valaperta, lapide ricordo

VALAPERTA
Lapide ricordo

Ma nel 1947 il clima non è già più quello incandescente dell’insurrezione. Grazie all’amnistia Togliatti capetti e gerarchetti possono tirare un sospiro di sollievo. La Corte d’Assise di Como processa Formigoni per 12 capi d’imputazione: si va dalla rappresaglia di ottobre a Valaperta alle sevizie inferte a Nazzaro Vitale, dal rastrellamento di Barzanò (con incendio di un cascinale e di un fienile) a quello di Monte San Genesio, dalla razzia di tessuti con tentata estorsione messa a segno dalle sue Brigate “in danno di Gaverbi Giuseppe a Casatenovo” agli arresti di diversi partigiani.

La Corte prende in esame la rappresaglia di Valaperta del 23 ottobre: “Può, nel fatto, cosi come esposto, riscontrarsi il reato di saccheggio, ostativo all’applicazione dell’amnistia? La Corte in coscienza deve esprimere opinione contraria”. La Spiegazione è sorprendente: “A concretare, inoltre, il reato di saccheggio si sarebbe dovuto altresì accertare, che quelli imputati che parteciparono, in un modo qualsiasi alla rappresaglia dell’incendio, avessero voluto anche turbare con le loro azioni l’ordine pubblico, la pacifica convivenza e Ia sicurezza sociale della cittadinanza di Valaperta. Ma anche tale estremo esula nel fatto in esame, in quanto i fascisti, dopo l’uccisione del milite Chiarella, si recarono sul posto del delitto e dettero luogo alla rappresaglia non per portare turbamento nell’ordine pubblico, ma (a modo loro) per ristabilire l’ordine turbato nel paese, per reintegrare la disciplina e il rispetto degli ordini dei loro odiati capi e dirigenti... (...). Per le considerazioni svolte, il fatto di Valaperta può concretare un fatto di collaborazionismo e non il saccheggio, per cui anche per esso può applicarsi l’amnistia di cui al D.P. 22/06/1946 n.4”.

Per quanto riguarda la fucilazione, il tribunale conclude che, in assenza di prove “sicure e tranquillanti” sul ruolo di Bonvecchio Giacomo e Formigoni Emilio, che erano sicuramente presenti sul posto “ma distanti dal luogo della fucilazione più di 50 metri” non può negarsi nei loro confronti il beneficio dell’amnistia, che si applica ovviamente anche a tutti gli altri capi di imputazione. Chi è in carcere, come Gaidoni, viene scarcerato. Gli altri sono uomini liberi, definitivamente.

Quel che resta

Pian piano la gente digerisce tutto, metabolizza, dimentica. Ogni anno, però, una manifestazione ricorda l’eccidio di Valaperta: centinaia di persone che nel gelo di gennaio vanno lI dove una lapide — è in un anfratto, in curva, roba che a rendere omaggio si rischia di finire arrotati — ricorda i quattro ragazzi. Un anno che il minicorteo ha cambiato percorso (partendo da una strada invece che da un’altra), i carabinieri hanno piantato grane, ma in tribunale hanno dato loro torto.

Dei partigiani caduti non si sa molto di più di quel che si sapeva allora. Il “garibaldino” Ambrogio Riboldi di Arcore dice che i suoi compagni di brigata Colombo e Beretta erano ragazzi come lui, cresciuti sotto il fascismo e poi finiti a fare i partigiani “perché o stavi con i ribelli o stavi con i repubblichini”. Il Colombo era un operaio, il Beretta era uno che di mestiere ammazzava i maiali e andava in giro con suo papa. Sappiamo che pochi minuti prima di morire Colombo scrisse “A te mamma, a tutta la mia famiglia, alla mia adorata fidanzata e al mio caro fratello Egizio va il mio ultimo pensiero. Tanti saluti, abbracci e baci a tutti. Addio. Colombo Gabriele”. E che Natale Beretta affidò questo biglietto al prete: “Dopo un’ottima confessione Iddio mi chiama. Non so per quale motivo sono stato condannato, addio mamma, addio papa, muoio di una morte santa, muoio per l'Italia. Vostro Natale”.

Di Vitale resta una traccia all’Anpi di Como, in una scheda azzurrina. Le schede, tenute insieme con un elastico, sono quelle dei caduti. Me le mostra un signore alto e sottile, ex partigiano socialista, brigate Matteotti. Si chiama Perugino Perugini, suo padre era comunista e per non finire in galera ha passato molti mesi in un buco scavato sotto il parquet di casa, a Milano. Gli tremano un po’ le mani, e così pare che accarezzi queste vecchie carte, vergate con una grafia elegante, inclinata, un corsivo sbiadito d’altri tempi. La sede dell’Anpi è di un ordine immacolato, commovente. La scheda di Vitale “di fu Giuseppe e Giuseppina, partigiano dal 15.6.1944 al 3.1.1945, grado Capo Squadra” ci restituisce un volto ancona bambinesco, un ciuffo scuro e spettinato.

Emilio Formigoni come era scomparso è ricomparso. Ha vissuto a Lecco, ha fatto l’ingegnere all’Enel, si è fatto vedere pochissimo in giro. Uno studioso di storia locale di Valaperta, Angelo Galbusera, gli ha scritto parecchie volte, senza mai avere risposta. Emilio è morto il 6 febbraio 2000, aveva 98 anni. L’unica volta in cui questa vecchia orribile storia è arrivata — di striscio — sulle pagine dei grandi giornali è stata nel 1995, quando Umberto Bossi odiava Forza Italia e i fascisti. Si era alla vigilia delle elezioni regionali, e Bossi disse che non si doveva votare per il figlio di un fucilatore di partigiani, pluricondannato (e non era vero). Formigoni figlio disse che le carte erano false, e che suo padre era un fascista come tutti gli altri. E non era vero.

Marina Morpurgo
Valaperta, 4 marzo 2005
da "Diario"