Quella bomba faceva esplodere la certezza morale che la pratica scientifica, con l’osservanza delle sue regole metodologiche costituisse un sufficiente codice morale per lo scienziato.

Il 6 agosto del ’45 veniva lanciata la prima bomba atomica

Quel "fungo" ad Hiroshima segnò l’inizio di un’epoca

Dal momento che ogni forma di memoria, oltreché testimonianza d’eventi passati, è ricerca di senso sul presente, gli eventi storici cambiano, se non certo la loro sostanza, il loro senso, la loro vivezza e gli strati di comprensione alla luce del presente che viviamo.

E’ così che si dovrebbe pensare a Hiroshima. A partire da questo nostro presente. Perché è a causa del nostro tempo che - nonostante quel fatto in sé sia fissato in immagini topiche, sia iscritto nei corpi rifiutati dal mondo di quei pochissimi documenti viventi che sono oggi i giapponesi e i coreani sopravvissuti, bambini di pochi anni allora, sia stato riattraversato e deprecato a ogni anniversario - oggi è, di fatto, più lontano di ieri.

Ovvero l’epoca che quella bomba, chiudendo tutte le regole precedenti di condotta militare di innovazione scientifica, ha aperto nel 1945 è finita con altre diversissime semplicissime - "vecchie" bombe, si potrebbe dire. I corpi-bomba umana.

Un preciso arco di tempo: «l’epoca che iniziò con i due funghi atomici di Hiroshima e Nagasaki», secondo le parole di Hobsbawm, si è consumato con la fine della deterrenza dei due blocchi, ovvero con la fine di quella guerra "congelata", la Guerra Fredda, accuratamente pianificata tra due super-potenze mondiali. Una guerra ben strana che ha prodotto un tempo di coesistenza inquietante e relativamente pacifica sotto l’ombrello di una minaccia terrifica costante: il terrore nucleare. Senza quella bomba e il suo impatto sull’opinione mondiale non si sarebbe potuta costruire quella forma di squisito terrorismo tra i blocchi, quel "patto suicida" della minaccia nucleare a fini negoziali. Con il corredo del suo immaginario, comprese tutte le forme di rappresentazione simbolica di scenari da Day After che hanno modulato la lettura del senso della propria epoca durante seconda metà del XX secolo.

La quotidianità corrente, almeno per i nostri paesi, era assai meno drammatica di quello che concretamente viviamo oggi e questo fa scordare come quel vivere sul bordo dell’immaginario catastrofico scorresse, neppure poi tanto sotterraneo nel pensiero, nelle riflessioni della filosofia politica, nella retorica della lotta per la supremazia, nelle prefigurazioni di scenari esistenziali e planetari sul lungo periodo.

Hiroshima, quando la scienza perse la sua innocenza

Non solo la politica, ma anche la comunità degli scienziati fu investita da una crisi dei propri fondamenti dopo il lancio dei due ordigni sulle città giapponesi da parte degli Stati Uniti

Oggi il significato di quel tempo è al passato. Esiste, ma non ci tocca più fino in fondo. Viene evocato dalla potenzialità del possesso di mezzi di distruzione di massa. E anche se concretamente il mondo è ben più in balia di minacce nucleari a causa del facile commercio e del possibile bricolage di atomiche in paesi politicamente instabili, siamo tuttavia in un tempo diverso per le loro logiche strategiche.

Le guerre dei Balcani, le Twin Towers, l’Afganistan, i bombardamenti "intelligenti" di Bagdad hanno riportato a un’epoca che è da un lato più vecchia della deterrenza (periodi che erano stati chiamati della "libanizzazione", della "balcanizzazione", con riferimento al continuo terremoto di guerreggiamenti di quelle aree infuocate) e che dall’altro è altamente differenziato e insieme omogeneo, globalizzato anche in questo caso, e dunque nuovo. Nuovo per la sua disseminazione molecolare che copre gran parte del pianeta, per la combinazione asimmetrica tra contendenti: inafferrabilità anomica e acefala da un lato e dominio unico dall’altro.

Quella "bomba atomica" (significativamente virgolettata nei comunicati stampa del giorno dopo) risalta ancora di più oggi come cifra di un’epoca con caratteristiche a netto contrasto con l’oggi perchè è il rovescio speculare della forma di guerreggiamento in cui il mondo è immerso dalla fine del regime bipolare. Se con la sconfitta dei regimi del blocco sovietico non è accaduta la Fine della Storia, l’instaurarsi del nuovo ordine mondiale, come alcuni profeti ingenui scrivevano, quello che viviamo oggi è esattamente il contrario del terrorismo "ben temperato" della catastrofe istantanea planetaria. Non sappiamo ancora cosa sia o sarà. Cominciamo però a sapere cosa non è più.

C’è ancora uno snodo nevralgico e molto specifico che può portare come ideale data di battesimo la bomba su Hiroshima. Uno scenario che Hiroshima involontariamente apre. E’ posto sul confine tra politica e conoscenza. Si tratta del cambiamento d’immagine, dei modi di produzione e dei valori della scienza che attorno a quell’evento gravitano.

Se l’innocente formula E=mc2 può essere alla base della produzione di armi di distruzione totale, il dramma degli scienziati (per molti singoli in piena coscienza e per l’intera collettività come sfondo disagevole) fu qualcosa di più radicale del fatto che, ad esempio importanti firme sulla lettera al presidente Roosvelt potessero aver contribuito a un tale uso delle loro scoperte.

Sia nel senso comune, sia entro le comunità scientifiche, soprattutto dei fisici, in breve tempo fece il suo drammatico ingresso la consapevolezza della non neutralità della conoscenza scientifica. L’impresa scientifica, con il suo corredo di norme etiche e procedurali, con sua la promessa illuminista di emancipazione umana, di democrazia e libertà di pensiero, di progresso, usciva bruscamente da una sorta di prolungata adolescenza curiosa e aitante, e veniva sbattuta, volente o nolente, per alcuni e non per tutti, con conseguenze sociali e culturali allora imprevedibili in una sofferta maturità. Il progetto Manhattan, di una struttura taylorizzata della ricerca, finanziato dal connubio militare statale e delle grandi industrie belliche, faceva nascere insieme sia la Big Science che avrebbe dominato la sociologia del fare-scienza fino alla fine del secolo, sia la bomba. Quella bomba, prima di altre meno plateali e drammatiche occasioni di autocoscienza per gli scienziati, faceva anche esplodere la certezza morale che la pratica scientifica, con l’osservanza delle sue regole metodologiche costituisse un sufficiente codice morale per lo scienziato.

La razionalità restava un suo connotato di base, ma il suo percorso avrebbe dovuto essere interamente rivisto.

Certamente i fisici atomici erano in quel mondo gli unici a "sapere" cosa sarebbe successo su Hiroshima, molti di loro si dissociarono, molti in buona fede credettero di lavorare per battere sul tempo un potenziale padrone di atomica ben più pericoloso, Hitler. Sta di fatto che nel ’45 la guerra con la Germania era già vinta e quella con il Giappone quasi.

E’ per l’insieme di queste ragioni, che, più che di una rapida chiusura di un terribile conflitto, più che di un "male minore", come venne presentata, l’icona del fungo di Hiroshima, a distanza rappresenta due aperture drammatiche del nuovo.

Per un verso l’apertura del nuovo gioco di scacchi geopolitico che arriva fino a fine secolo e che ha accompagnato l’immaginario dell’Occidente in cui si è vissuti fino a ieri, e su un altro piano l’innesco di un diverso modo di ragionare sui principi e sulle conseguenze del lavoro scientifico. Molte delle riflessioni che arrivano ad oggi, l’idea di una problematizzazione della ricerca, l’interfaccia sempre cercata e difficilmente realizzabile di un rapporto maturo tra scienza e società civile, la forza di molti degli scienziati contemporanei di sopportare l’ambivalenza della scienza, in luogo della sua idealizzazione, affondano le radici in un evento che cambiava il modo di pensare il mondo, e il pensare stesso.

Elena Gagliasso Luoni
Roma, 30 luglio 2005
da "Liberazione"