UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI MILANO BICOCCA
Facoltà di sociologia. Corso di Laurea triennale in Sociologia

Il 25 aprile e la “seconda” Repubblica Italiana: la festa della Liberazione a metà degli anni ‘90

Tesi di Laurea di: Patrizio Mirra, Relatore: Prof. Barbara Bracco

A mio padre Rosario Mirra.
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Introduzionevai a indice

Indagare sul fenomeno della Resistenza nel suo aspetto storico e politico e valutarne l’aspetto celebrativo a cinquant’anni di distanza non è impresa facile ma, seppure in maniera sintetica, è lo scopo di questo lavoro. L’argomento risulta essere estremamente interessante sia nel suo aspetto storico che nelle sue componenti sociologiche che, inevitabilmente, vanno ad interagire con la realtà politica del Paese.

E’ sembrato interessante andare a verificare quale sia l’immagine pubblica della ricorrenza del 25 aprile alla luce della trasformazione del quadro politico italiano scaturito negli anni ’90, con la nascita della così detta “seconda Repubblica” contrapposta alla “prima Repubblica” nata sulle ceneri della tragedia della Seconda guerra Mondiale e sulla scorta di quell’esperienza, inaspettata quanto decisiva per il futuro del Paese, che va sotto il nome di Resistenza.

Lo scopo di questa ricerca è quindi quello di verificare quale “uso pubblico della storia” sia stato fatto in merito al “mito resistenziale” durante e attorno al cinquantenario della festa di Liberazione che cadeva, appunto, negli stessi anni della nascita della “seconda Repubblica Italiana”.

Certo, le fonti da cui attingere per approfondire la questione sono innumerevoli e quindi si è dovuto operare una scelta che riducesse significativamente il raggio d’azione della ricerca e al contempo permettesse di ottenere dei risultati significativi nella direzione che ci si è prefissati.

Si è quindi scelto di focalizzare l’attenzione sull’analisi dei quotidiani. Naturalmente non potendo, per ragioni di tempo, scandagliare tutte le testate giornalistiche, si è valutato di analizzare quattro quotidiani di diversa natura editoriale.

La scelta è caduta su: “il Corriere della sera” in quanto il più diffuso ed autorevole quotidiano nazionale che è considerato di “area moderata”; su “la Repubblica” secondo quotidiano nazionale per diffusione sul territorio, decisamente più giovane del Corriere e considerato vicino a “posizioni moderate di sinistra”; su “il Giornale” quotidiano di proprietà della famiglia Berlusconi, opinione di riferimento per l’area di centro destra; su “il Manifesto” piccolo quotidiano comunista, connotato ovviamente all’interno della così detta sinistra radicale. In questo modo è parso di potere verificare un ventaglio di opinioni pubbliche di diversa natura e di diversa origine culturale.

Inoltre si è scelto di focalizzare l’attenzione su tre anni di celebrazioni del 25 aprile 1994-1995-1996 per tentare di evidenziare le differenze tra le tre ricorrenze anche alla luce dell’evoluzione del quadro politico ed istituzionale del Paese.

Dopo avere tentato, in maniera estremamente sintetica, di raccontare quale sia stato il clima celebrativo della ricorrenza del 25 aprile dal 1945 ai primi anni 90 con l’ausilio di testi citati, si è passati all’analisi dei suddetti quotidiani nei giorni del 23-24-25-26 aprile suddividendo l’esposizione in capitoli a seconda degli anni di riferimento e in paragrafi in relazione: a) il contesto politico, verificando quale fosse la situazione contingente dell’anno preso in considerazione, chi ci fosse alla guida del Governo del Paese in un periodo di grandi cambiamenti politici; b) la cronaca della giornata, constatando quali fossero gli aspetti celebrativi istituzionali, da chi fosse composta la piazza dei celebranti, quali fossero i programmi celebrativi svoltesi in tutta Italia e come si fossero svolti; c) gli editoriali e i commenti della varie personalità giornalistiche o meno che sono state ospitate sui quotidiani a cui si fa riferimento e in quale direzione si sono mossi questi commenti; d) le interviste a ex-partigiani, storici, politologi, personaggi dello spettacolo e, in particolare, politici; e) la programmazione televisiva, per tentare di valutare il grado di celebrazione televisiva della festa di Liberazione degli anni in questione.

Cap.1 - Breve sintesi del significato della Festa di Liberazione dal dopoguerra ai primi anni 90vai a indice

1.1 - dal ’45 agli anni 70vai a indice

A seconda dei punti di osservazione, anche in Italia l’esperienza della guerra ha prodotto una molteplicità di “memorie divise” spesso inconciliabili ed antagoniste tra di loro[1]. I ricordi di coloro che hanno partecipato a quella tragica esperienza hanno contribuito a ricostruire la natura di quella vicenda in differenti modalità, a seconda del punto di vista e del ruolo che ogni individuo ricopriva in quell’ambito. In questa “memoria frantumata” trovano posto i ricordi e le interpretazioni degli ex combattenti delle guerre fasciste (reduci d’Africa, di Albania, di Grecia, di Russia, della Jugoslavia), partigiani di diversa estrazione sociale e di diversa affiliazione politica (comunisti, socialisti, cattolici, azionisti, liberali, monarchici, militari), fascisti di Salò, internati militari in Germania, vittime della deportazione politica e razziale nei campi di concentramento, famiglie e comunità colpite dalle efferate stragi nazi-fasciste, vittime dei bombardamenti e degli stupri alleati, vittime della efferatezze delle squadriglie fasciste (torture, stupri, violenze di ogni genere), prigionieri di guerra in mano alleata, italiani vittime delle foibe e dell’esodo dai territori dell’Istria e della Dalmazia[2].

Vista la pluralità e la frammentazione delle memorie di singoli individui e di gruppi organizzati, anche all’interno dello stesso schieramento antifascista, parrebbe di difficile realizzazione l’identificazione del paese con una memoria collettiva e condivisa. Tuttavia è invece esistita una memoria pubblica della guerra e della resistenza celebrata dall’antifascismo vincitore, basata su una narrazione di fondo condivisa dalle singoli componenti antifasciste e impostasi come narrazione dominante. Nonostante che all’interno di questa “memoria condivisa” siano presenti i distinguo di frange appartenenti sia alla Democrazia Cristiana, sia alla sinistra radicale e non, resta il fatto che questa “memoria pubblica” è stata in grado di attivare nel paese processi di identificazione profondi, tali da conferirle i tratti di una memoria collettiva[3].

Questa “narrazione egemonica” elaborata dal fronte antifascista, ha subito nel corso di questi sessant’ anni ripetuti attacchi da più parti e, a seconda della fase storica e politica che il paese viveva, diverse sono state le interpretazioni date a singoli episodi in modo da avvalorare tesi che riconducessero ad una valutazione edulcorata del periodo fascista tale da distinguerlo nettamente dalla “brutalità nazi tedesca”, dimenticando consapevolmente le responsabilità italiane per la guerra d’aggressione e i gravissimi crimini commessi anche da parte italiana contro civili e partigiani in Jugoslavia e in Africa[4].

Nei primissimi anni del dopoguerra, questo tipo di atteggiamento da parte del fronte antifascista vincitore, era guidato sia da ragioni di opportunità politiche internazionali che permettessero all’Italia di accreditarsi presso gli alleati non come una nazione fautrice dello scatenamento della guerra, ma bensì come quella nazione il cui popolo era stato trascinato da Mussolini e dai suoi “scherani” in una guerra malvista e non voluta a fianco di un alleato detestato come la Germania Hitleriana, e in tal modo cercando di evitare o quantomeno di ammorbidire le prevedibili ritorsioni da parte delle potenze vincitrici, sia da ragioni di mantenimento di una fragile coesione sociale già messa a dura prova durante il periodo della guerra, e che aveva necessità di essere sempre più cementata in un tessuto sociale e politico che smussasse i vecchi rancori e le vecchie divisioni pur presenti nel tessuto sociale[5]. Il Partito Comunista Italiano (Pci), che più delle altre componenti antifasciste avrebbero potuto soffiare su queste divisioni, orientò invece la propria azione politica sul superamento di queste divisioni, com’è chiaramente provato prima dalla famosa “svolta di Salerno”[6] nel marzo-aprile 1944 e successivamente dall’amnistia del ’46[7] voluta da Togliatti. Negli anni successivi sarà il neonato partito fascista a screditare il più possibile il fronte della “narrazione egemonica” antifascista della resistenza, tentando a più riprese l’equiparazione tra i cosi detti “ragazzi di Salò” e i partigiani, considerando questi ultimi dei veri traditori della patria, esaltando l’eroismo in combattimento dei soldati italiani, affermando l’esistenza di una vasta adesione della popolazione italiana alla guerra dell’Asse[8].

Queste posizioni neofasciste non restarono confinate alla stampa ed all’editoria di quella parte politica, ma trovarono ospitalità in larghi settori dell’opinione pubblica italiana e in giornali allora influenti come “il Tempo” e “L’Uomo Qualunque” che accusarono dalle loro pagine gli antifascisti “sciacalli piovuti dall’estero per dilaniare il corpo della nazione”[9]. A queste posizioni il fronte antifascista rispose compatto e unanime, ma la sua coesione era già minata dall’anticomunismo alimentato dall’intensa campagna di stampa lanciata sin dall’autunno del ’45 dai giornali moderati e conservatori sulla questione dei prigionieri di guerra italiani in Unione Sovietica, nella quale si accusava Mosca di trattamenti brutali e schiavizzanti nei confronti dei prigionieri italiani[10]. L’unità dei partiti del fronte antifascista risultava così minata sia dall’esterno, con il risorgere delle posizioni neofasciste, sia al proprio interno con una frattura tra partiti della sinistra e le posizioni anticomuniste della Democrazia Cristiana che raggiunse il suo culmine in occasione delle elezioni del 18 aprile 1948[11].

Nella contrapposizione tra sinistre e partiti centristi, De Gasperi, in occasione del quarto anniversario della liberazione, il 25 aprile del 1949, rivendicò al proprio partito la capacità di rappresentare tutto lo spirito della liberazione e chiamò i partigiani cristiani a una “nuova resistenza”, “contro le forze disgregatrici” sia di destra che di sinistra identificate entrambe con “l’antilibertà” per difendere il patrimonio della resistenza non solo dalle insidie del neofascismo ma anche dalla sfida lanciata dalle sinistre marxiste[12]. In questa agguerrita contrapposizione tra sinistre e D.C. cercarono e in parte ottennero un maggiore visibilità le forze neofasciste che lanciarono l’idea della pacificazione tra fascisti e antifascisti con un preciso calcolo politico: puntare alla sostituzione dell’antifascismo con l’anticomunismo quale fonte di legittimazione della neonata Repubblica, nella prospettiva di accreditarsi come forza di governo per la “crociata anticomunista”.

Resta inteso che, anche se da un lato la Democrazia Cristiana aveva screditato la “Resistenza comunista” contrapponendo alla “rivoluzione interrotta” la “Resistenza nel segno della libertà” contro i totalitarismi sia di destra che di sinistra, stemperando il significato ideologico e rivoluzionario che della resistenza davano i partiti di sinistra, dall’altro lato essa non era però disposta a condividere la lettura che la destra, non solo neofascista, si ostinava a fare. Da parte della Democrazia Cristiana l’intesa politica con il Movimento sociale italiano erede delle posizioni fasciste era dunque ostacolata dall’ancoraggio del partito di De Gasperi all’antifascismo e alla memoria della resistenza che permise la costituzione di limiti precisi al revisionismo promosso dalla destra[13].

Dagli anni sessanta la memoria e i valori fondanti della Resistenza divennero un patrimonio ampiamente condiviso dal paese sia in virtù del clima prodotto nell’estate del 1960 dalle reazioni popolari contro il governo monocolore Democristiano Tambroni sostenuto al Senato dai voti missini, reo di avere autorizzato il congresso dei neofascisti a Genova città medaglia d’oro della Resistenza (reazioni popolari che impedirono lo svolgimento del congresso missino e portarono alla caduta del governo Tambroni); sia in virtù dell’avvento al potere nel 1963 della coalizione di centro sinistra con la partecipazione al governo del Partito Socialista[14].

Dal 1968 emerse un nuovo riferimento alla memoria della Resistenza: il movimento studentesco, in quale rivendicava la dimensione di classe della lotta partigiana e si collocava in aspra polemica non solo con la dimensione celebrativa unitaria del centro-sinistra al governo, ma anche in contrasto con l’opposizione governativa del Partito Comunista, responsabile, agli occhi del movimento studentesco, di avere accettato l’ordine costituito e tradito anch’esso i temi della Resistenza come “occasione mancata” e “rivoluzione interrotta”[15].

La ricorrenza del 25 aprile, per questa ampia area della sinistra radicale, divenne una vera e propria “scadenza di lotta” indirizzata sia contro il “fascismo squadrista” responsabile di innumerevoli episodi di violenza e di attentati, sia contro il “fascismo di Stato” della Democrazia Cristiana, considerata strumento dei “progetti reazionari” del “blocco capitalista”. In questo clima di alta tensione e di scontri di piazza a prevalere fu la convergenza e la coesione a difesa delle istituzioni minacciate dal tentativo eversivo fascista a suon di bombe e dalla sfida del terrorismo di sinistra, che rinsaldarono l’antifascismo dei ceti popolari e la solidarietà tra i partiti fondatori della repubblica e della costituzione.

1.2 - dall’80 ai primi anni 90vai a indice

A partire dagli anni ottanta la narrazione antifascista è stata posta sotto accusa e criticata radicalmente in virtù di un nuovo assetto politico del paese con la nascita del “pentapartito” e un rinnovato isolamento del Partito Comunista[16]. Ritornarono in voga critiche all’operato dei partigiani comunisti in episodi già ampiamente discussi e scandagliati dalla storiografia, nel tentativo non nuovo, di mettere sotto accusa le azioni partigiane condotte dai partigiani comunisti al fine di screditarle. Questa operazione era ispirata dalla nuova politica del Partito Socialista che attraverso la figura del suo leader Bettino Craxi si faceva fautore della cosiddetta “grande riforma” per un rinnovamento istituzionale che portasse a fondare quella “nuova Repubblica” che, nelle intenzioni del gruppo dirigente socialista, doveva fornire strutture istituzionali adeguate alla modernizzazione del paese e che trovava, invece nell’impianto della Costituzione “nata dalla Resistenza” un ostacolo da superare anche a costo di alimentare pericolose derive revisionistiche[17].

Così, al ricordo della violenza fascista furono contrapposti quello delle stragi delle foibe perpetrate contro gli italiani dai comunisti di Tito e quelle delle uccisioni di fascisti commesse da ex partigiani nell’immediato dopoguerra; furono inoltre portate alla ribalta e al clamore dell’opinione pubblica, utilizzando anche mezzi filmici, le violenze (tra l’altro già ampiamente conosciute) compiute da partigiani comunisti ai danni di partigiani di altro colore (eccidio di Porzus in Friuli)[18]. Il Comitato di Liberazione Nazionale (Cnl) fu accusato di essere all’origine del sistema corrotto della partitocrazia italiana e la lotta di liberazione fu rappresentata come una guerra civile tra due opposte fazioni, nessuna delle quali avrebbe goduto dell’appoggio popolare, minando alla base uno dei cardini della memoria pubblica antifascista della Resistenza secondo la quale il sostegno del popolo italiano fu fondamentale alla riuscita e alla vittoria della lotta di liberazione. Argomenti e tatticismi questi, mai scomparsi dalla stampa neofascista e da quella conservatrice, che ora trovavano anche un ampio eco nella ormai diffusa comunicazione di massa di stampo televisivo e che erano in grado, sfruttando questo aspetto della comunicazione di massa e la credibilità che fin dalla nascita questo mass-media deteneva nonché grazie all’avallo di note autorevoli personalità, di influenzare un vasto settore dell’opinione pubblica che cominciava a sentire distante per generazione e per conformismo i valori e le istanze a suo tempo generate dalla Resistenza.

Anche negli anni Novanta la nuova “ondata revisionistica” nei confronti della cosiddetta “vulgata resistenziale” parte dal mutamento del quadro politico del paese, intervenuto dopo il crollo del comunismo e la crisi della cosiddetta Prima Repubblica sulla spinta dell’azione della Magistratura milanese nei confronti della corruzione del sistema partitico della Prima Repubblica. Inoltre lo sfascio dei vecchi partiti politici e la decadenza delle influenze ideologiche che essi sono stati in grado di alimentare per oltre quarant’anni, hanno creato un vuoto culturale che ha allontanato la “memoria resistenziale” nelle nuove generazioni.

Cap.2 - 25 aprile 1994vai a indice

2.1 - Contesto politicovai a indice

Gli anni novanta rappresentano l’apice della crisi della “repubblica partitica”, che fino ad allora aveva governato il Paese. La fine della “guerra fredda”, l’aumento esponenziale del debito pubblico, la corruzione pubblica e privata venuta alla luce grazie all’operato del pool del Tribunale di Milano, la minacciosa e cruenta offensiva della mafia, le divisioni della maggioranza parlamentare e politica portano al disfacimento della classe politica. Dopo le elezioni del 92, sull’onda dell’espandersi dell’inchiesta giudiziaria di Milano, ribattezzata dai giornali “mani pulite”, la Presidenza del Consiglio viene affidata dal Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a Giuliano Amato. Si svolge nell’aprile del ‘93 il referendum che determina l’introduzione del sistema maggioritario parziale (75% maggioritario, 25% proporzionale), che trasforma in senso bipolare il sistema elettorale italiano. L’incarico di Presidente del Consiglio passa ora a Carlo Azeglio Ciampi, ex governatore della Banca d’Italia.

Il 16 gennaio del 1994 il Presidente Scalfaro scioglie le camere e indice le elezioni politiche per il 27 marzo. Nel frattempo il terremoto creato dall’operazione “mani pulite” determina lo scioglimento della Democrazia Cristiana. Dalle sue ceneri nascono altre due formazioni politiche: il Partito Popolare Italiano (Ppi) guidato da Martinazzoli e il Centro cristiano democratico (Ccd) guidato dai neocentristi Casini, D’Onofrio e Mastella. Sul fronte delle destre la novità maggiore è rappresentata dall’iniziativa del segretario dell’allora Movimento sociale italiano (Msi) Gianfranco Fini che lancia il progetto di trasformazione del partito in Alleanza Nazionale, con l’intento di riformare il partito ancorandolo alle destre Europee proponendosi, sotto nuove vesti, di partecipare alla guida del paese. Quasi contemporaneamente Silvio Berlusconi si dimette da presidente della Finivest e annuncia le linee programmatiche del suo ingresso attivo in politica a capo di una coalizione, in via di formazione, alternativa alle sinistre.

Il quadro politico italiano, rispetto a quello che era stato fino ad allora, è completamente stravolto. Il confronto nelle elezioni del 27 marzo 1994 avviene tra due blocchi che sono composti da forze politiche che, quantomeno formalmente, si presentano agli elettori come forze innovative capaci di far uscire il Paese da un’evidente crisi politica. A destra il blocco elettorale è costituito dagli eredi missini che si presentano agli elettori con un nuovo simbolo Msi-An, con candidature comuni, al sud del Paese, al neo costituito partito-club di Silvio Berlusconi: Forza Italia. Berlusconi compie la stessa operazione al nord alleandosi alla Lega di Umberto Bossi, creando in questo modo una compagine di centro-destra formata appunto da Forza Italia, Msi-An, Lega Nord, Ccd; contrapposta ad una compagine di centro-sinistra formata da Pds, Verdi, Rifondazione Comunista, Cristiano sociali, Rete, Ad, rinascita socialista, Psi. Quest’ultima coalizione si presenterà però già frantumata alle elezioni del 27 marzo.

I risultati elettorali premiano il blocco di centro destra che si accinge ad andare al governo del paese con una coalizione formata per la più parte da organizzazioni politiche che non derivano affatto da quelle formazioni fautrici della Repubblica e della Costituzione. Infatti l’unica formazione politica che possa vantare legami con la realizzazione della Costituzione Italiana è il Ccd (Centro Cristiano Democratico) che deriva da una delle numerosi “correnti” della Democrazia Cristiana e che rappresenta ben poco all’interno della coalizione di centro destra[19]. Le altre formazioni non hanno nulla a che spartire con i fondamenti della Repubblica del Paese; anzi per quanto riguarda il caso del Msi-An, esso si pone esattamente dalla parte opposta rispetto alle formazioni politiche che hanno collaborato alla composizione e alla stesura della Carta Costituzionale Italiana, nonostante sia necessario aggiungere che il partito erede del Partito nazionale fascista (Pnf) stia vivendo in quel periodo un cambiamento strutturale che lo porterà, nel ‘95 al “congresso di Fiuggi” che sancirà il cambiamento del nome appunto in Alleanza Nazionale e, quantomeno a livello dirigenziale, stabilirà la rottura con le vecchie tesi neofasciste in favore di una più moderna destra europea.

Sull’onda della crisi di credibilità dei partiti dell’arco costituzionale che fino ad allora avevano governato il Paese, con la enorme disponibilità mediatica del partito azienda di Silvio Berlusconi, loro alleato, e accuratamente ripuliti nella loro immagine pubblica, i fascisti ritornano clamorosamente al potere.

In questo nuovo contesto politico del Paese emergono nuove sfide nel rapporto tra identità nazionale e cittadinanza democratica. Tre sono i fenomeni che impongono una nuova lettura dell’identità politica del paese: A) il mutamento degli equilibri bipolari sul piano internazionale, con la dissoluzione del sistema comunista dei paesi dell’Europa orientale e la disgregazione delle forme di identità che quel sistema aveva contribuito ad introdurre; B) la crisi del sistema dei partiti in Italia che aveva portato alla scomparsa o trasformazione o frantumazione dei grandi partiti di massa e dato origine a nuove compagini politiche; C) il paradosso tra due fenomeni in contraddizione tra loro e cioè da una parte l’avanzamento del processo di integrazione europea che dava forma a principi di natura sovranazionale, e dall’altra l’esplosione di rivendicazioni territoriali e politiche fondate su ragioni di natura etno-regionale che erano alla base di formazioni politiche schiettamente anti-statuali e anti-istituzionali (la Lega Nord di Umberto Bossi). Tutto ciò contribuì alla rimessa in discussione dei miti di fondazione della Repubblica e della gerarchia dei simboli nazionali a dimostrazione di quanto fosse sopita, ma non certo superata, la vecchia frattura tra coloro che nel Paese si riconoscevano nei miti fondanti della nazione, nel loro aspetto simbolico e rituale, alimentato attraverso le ricorrenze celebrative delle feste civili, e quanti, invece consideravano gli stessi miti come una sorta di “acqua passata”. Questo nuovo scontro culturale ed emozionale raggiunse l’apice proprio nel 1994 a ridosso della festa del 25 aprile e immediatamente dopo la vittoria elettorale che portava al governo quelle forze che si facevano promotrici di quell’idea dei miti repubblicani che prima abbiamo definito “acqua passata”. Fu soprattutto da allora in poi che si creò una sorta di corto circuito tra le discussioni sulle riviste, i nuovi orientamenti della storiografia e l’uso pubblico della storia. Infatti, con l’ascesa al potere del centro destra nell’aprile del 1994 con il nuovo governo in cerca di legittimazione interna ed internazionale, si orienta la discussione storico-culturale al di là dei classici schemi degli storici di professione, coinvolgendo a pieno titolo l’operato dei mass-media. Fu il significato del 25 aprile (forse anche perché la ricorrenza la cui data è immediatamente successiva alla vittoria elettorale delle destre) ad essere coinvolto e messo in discussione in primo luogo e, conseguentemente, a ritornare come era stato nei primi anni dopo la liberazione fonte di contrasto e di acceso dibattito sia culturale che politico.

2.2 - La cronaca del 25 aprile 1994vai a indice

Sotto una pioggia battente centinaia di migliaia di ombrelli divisi in due cortei distinti, sfilavano tra le vie di Milano in occasione della ricorrenza della festa di Liberazione del 1994. Sull’onda dei risultati elettorali delle elezioni politiche appena svoltesi, si paventavano possibili incidenti a cura del corteo alternativo degli autonomi che, a parere de “il Giornale” si preparano ad imbracciare il fucile. Ma non succede assolutamente nulla. Le uniche contestazioni sono dirette ad Umberto Bossi ed a un piccolo gruppetto della Lega Nord che è invitato più che calorosamente dai manifestanti di opposti schieramenti ad abbandonare il corteo. Sotto consiglio della polizia e tra il lancio di qualche monetina all’indirizzo del gruppetto della Lega, i Leghisti sono costretti a seguire un percorso alternativo per giungere in piazza Duomo. Ma la piazza è troppo piccola per accogliere tutti i manifestanti stimati in duecentomila da “il Giornale” in oltre trecentomila da il “Corriere” e da “Repubblica” e circa mezzo milione da “il Manifesto”. Sul palco dell’autorità salgono Achille Occhetto accompagnato da Massimo D’Alema e da Veltroni; la Jervolino, Bindi e Tina Anselmi; Ottaviano del Turco, Bertinotti, Cossutta; l’EX Presidente della Camera Giorgio Napoletano; Giorgio La Malfa e Raffaele Costa; I sindaci Francesco Rutelli e Antonio Bassolino; i sindacalisti D’Antoni e Trentin.

Tra i goffaloni di centinaia di comuni spiccano quelli che ricordano le stragi nazi-fasciste (Marzabotto, le Ardeatine, Boves ecc…). Decine sono i cartelli che espongono i nomi dei campi di concentramento. Numerosi sono, anche se solo singolarmente, gli esponenti della Magistratura che in quegli anni si trova nell’occhio del ciclone per via delle inchieste sulla corruzione imprenditoriale e politica venuta clamorosamente a galla nel bel Paese. Nel frattempo arriva anche il Sindaco di Milano Formentini, il quale più tardi terrà un ricevimento per le autorità nella Villa Comunale di via Palestro, al quale parteciperà anche la neo eletta Presidente della Camera Irene Pivetti che incontrerà, in quel contesto, il presidente della comunità ebraica milanese Cobi Benatoff al quale ha ribadito la sua intenzione di non avere voluto offendere la comunità ebraica con le sue recenti dichiarazioni di elogio al ventennio. Alle 16.40 dal palco, Aldo Aniasi prende la parola a nome delle associazioni partigiane e ricorda: “Siamo lontani da uno spirito di squallida rivincita elettorale e politica. Abbiamo preso atto dei risultati elettorali in elezioni libere proprio grazie alla Resistenza”, ed è sempre Aniasi che strappa applausi quando attacca il revisionismo storico, da più parti emergente, e in quella direzione, il quantomeno opinabile dibattito che ha seguito la prima puntata di “combat film”. Poi continua Paolo Emilio Taviani anche lui capo partigiano che, tra gli applausi della folla, ricorda come la Resistenza sia stata un fenomeno di massa, una lotta di popolo per la libertà. Tra la pioggia che continua battente è Arrigo Boldrini presidente dell’Anpi a ricevere l’ultimo applauso della folla di piazza Duomo.

Manifestazioni si sono svolte con grande partecipazione un po’ in tutta Italia. A Roma oltre trentamila persone hanno partecipato alla festa. A Modena oltre quindicimila si sono riversate in Piazza Grande. Ad Ancona il sindaco Leopoldo Elia ha ribadito l’importanza di “non confondere pacificazione con riconciliazione, in quanto non è possibile riconciliare la tirranide con la libertà”. Giovanni Spadolini a Massa ha affermato “che la festa di Liberazione coincide con la festa della Costituzione sulla quale è necessario vigilare perennemente”. Molta più gente degli altri anni ha anche partecipato alla cerimonia svoltasi presso la Risiera di San Sabba, nei pressi di Trieste, che è tristemente nota come l’unico campo di sterminio dotato di forni crematori, funzionante in Italia.

Molte le presenze anche al sud. A Taranto oltre diecimila persone si sono ritrovate aderendo all’appello delle associazioni partigiane e snobbando invece la commemorazione del sindaco Cito. A Catania la commemorazione si è divisa in due momenti celebrativi distinti; una organizzata dal comune e dalla associazioni partigiane e l’altra dal presidente della provincia il missino Nello Musumeci. A Palermo cinquemila persone hanno sfilato dal monumento in ricordo dei Caduti di Cefalonia al Palazzo di Giustizia.

Il Presidente del Consiglio uscente Carlo Azeglio Ciampi con il Presidente dell Repubblica Oscar Luigi Scalfaro hanno reso omaggio in mattinata, prima al monumento ai caduti a Roma e poi alle Fosse Ardeatine.

2.3 - Editoriali e Commentivai a indice

Gli editoriali dei quattro quotidiani presi in considerazione sull’argomento della festa di Liberazione, rispecchiano il dibattito generale su cosa sia stata, o non sia stata, la resistenza in Italia. Gli editorialisti del Corriere della Sera sono di diversa ispirazione e trattano in modo assai diverso l’argomento. Lucio Colletti nell’editoriale a lui affidato sul Corriere del 24 aprile inquadra il quarantanovesimo anniversario della Festa di Liberazione a cavallo tra “le esequie della prima Repubblica e gli incerti vagiti della seconda”. Nella sua analisi, Colletti indica il prodotto della lotta di Liberazione nella Democrazia Liberale divenuta “attraverso un tormentoso e lungo travaglio” patrimonio di tutta la Nazione. Egli auspica la possibilità di infondere nel 25 aprile “un contenuto nuovo e dal respiro più largo, in modo tale da trasformare quella ricorrenza nell’atto di nascita di una ritrovata unità nazionale”. Colletti suggerisce che la: “non ancora riuscita unità nazionale”, sia da attribuire ad una “ambiguità di fondo”. Tale ambiguità consisterebbe, a parere di Colletti, nella doppia natura equivoca del ruolo del Pci, che fu protagonista riconosciuto nella lotta di Liberazione Nazionale, ma che al contempo non possedeva quei requisiti democratici riconosciuti invece agli altri partiti antifascisti. Ora con la trasformazione del Pci in Pds e con la caduta dell’URSS, la sinistra italiana è finalmente, a parere di Colletti, anch’ essa antitotalitaria, cosi come lo è divenuta la destra con la recente trasformazione del Msi in An. In questo contesto Colletti auspica la possibilità di una ritrovata concordia nazionale, ritornando quindi a proporre quella tesi “degli opposti estremismi” entrambi da equiparare nel concetto di “totalitarismi” e per questo da condannare e da porre sullo stesso piano. È necessario ricordare, a questo proposito, che le prese di distanza dal socialismo reale dell’Unione Sovietica all’interno dell’ex Partito comunista italiano sono di lunga data e giungono inequivocabilmente fino alla radicale trasformazione del partito, mentre per quanto riguarda il Movimento sociale, anche durante questo quarantanovesimo anniversario non si sono sentite, da parte dei suoi esponenti, parole di condanna del periodo fascista, anzi come vedremo, si sono viste e sentite da parte di autorevoli esponenti ex fascisti e da parte di giovani autorità (la Presidente della Camera) parole di elogio del ventennio e del suo ispiratore.

Nel editoriale del 25 aprile sempre del Corriere tocca al partigiano Leo Valiani esprimere la propria opinione. Valiani pone l’accento su ciò che la lotta di Liberazione ha procurato alle popolazione che in essa si riconoscevano e anche a coloro che, a torto, vi si opponevano. Le libertà democratiche ottenute in eredità dal sacrificio di chi a quella lotta partecipò, furono e sono godute da tutta la popolazione. E, secondo Valiani, “ci vuole concordia per il mantenimento dei valori di libertà e giustizia, dei diritti democratici che spettano al governo e alle opposizioni politiche e a tutte le forze sociali e culturali. La dittatura fascista ne fu per un ventennio la totale negazione. La celebrazione dell’anniversario della Resistenza deve significare il richiamo alla difesa e al consolidamento delle libertà democratiche la cui durevolezza è possibile soltanto in un clima di reciproca tolleranza”. Ancora, quindi un richiamo all’unità nazionale, senza però l’utilizzo di una retorica antitotalitaristica presente invece nell’editoriale di Colletti. Importante è anche l’editoriale del 26 aprile a cura di Paolo Mieli. “Una prova di maturità” il titolo dell’editoriale di Mieli che ricorda che “mai dal 1945 al 1994 le manifestazioni del 25 aprile abbiano lasciato spazio a scontri di piazza”, e che erano del tutto infondate le preoccupazioni della vigilia nelle quali alcuni quotidiani e personaggi politici e non, paventavano la pericolosità delle manifestazioni. Manifestazioni che al contrario, per Mieli hanno rappresentato una prova di maturità del popolo italiano. Mieli si spenge anche oltre: ricorda cioè che si può e si deve legittimamente parlare di “riconciliazione nazionale tra coloro che abbiano pronunciato pubblica abiura nei confronti di passati valori anti-democratici”. Ci si riferisce chiaramente agli ex Msi ora Alleanza nazionale. Mieli si rivolge direttamente all’onorevole Gianfranco Fini sottolineando, in tono polemico, che il 25 aprile non rappresenta soltanto, come lo stesso Fini aveva avuto modo di dichiarare, la fine della seconda guerra mondiale; ma bensì “la sconfitta, con un altissimo tributo di vite umane, delle dittature nazi-fasciste” e che, rivolgendosi direttamente all’on. Fini, “nel giorno in cui coloro che hanno perso le elezioni rinunciano a strumentalizzare la ricorrenza del 25 aprile a scopi elettoral-politici, sarebbe stato opportuno, giusto e molto importante che Lei avesse colto l’occasione per un gesto clamoroso e definitivo di rottura con il fascismo”.

Sul “Il Giornale” del 24 aprile tocca a Vittorio Feltri scrivere il suo editoriale nel quale attacca senza mezzi termini la “retorica resistenziale” che, a parere di Feltri, strumentalizza un passato che non esiste più in virtù di un presente fatto di una piazza priva dei veri resistenti sia per ragioni anagrafiche che di scelta e densa, invece, di “delusi della politica: pidiessini, rimasugli socialisti, cattolici pauperismi, basisti orfani di poltrone; una massa irritata con il Polo delle libertà reo di avere conquistato i voti della maggior parte dei cittadini”. E ancora: “una massa di scontenti desiderosi di una rivincita immediata costi quel che costi”. Feltri dipinge una Milano semideserta e preoccupata per il pericoli di incidenti scatenati “dagli eredi degli autonomi degli anni 70: i leoncavallini” pronti ad imbracciare il fucile, “giovanotti avvezzi a trascorrere le serate davanti alla bottiglia di birra e non ai libri di storia”. L’editorialista del Il Giornale ricorda “che se non fosse stato per gli anglo americani nessuno ci avrebbe liberato e la Resistenza sarebbe rimasta con la lettera minuscola”. Forse non è un caso che si parli di anglo americani e non di alleati perché seguendo lo stesso ragionamento di Feltri sarebbe anche necessario dire che senza l’apporto delle truppe Sovietiche la scellerata alleanza del terrore tra Germania e Italia mussoliniana non sarebbe stata sconfitta. E forse senza l’opportuno aiuto delle popolazioni locali di tutta Europa e le forme diverse di Resistenza che ne scaturirono, le giovani democrazie Europee non sarebbe state realizzate. Inoltre, se è ovvio che la Resistenza non avrebbe potuto avere successo senza l’avanzata militare alleata, è anche vero che la Resistenza contribuì in maniera decisiva al successo dell’avanzata militare alleata con numerose azioni di sabotaggio e sconvolgimento organizzativo dell’esercito nazista (attaccando convogli stradali, distruggendo interi parchi locomotori, incendiando gli aerei sui campi di aviazione, giustiziando gli ufficiali nazisti e repubblichini e le loro spie), impegnando quest’ultimo a fronteggiarla e per questo distogliendo importanti truppe dal fronte, sfatando il mito della supremazia teutonica, infondendo fiducia nella popolazione per un futuro da popolo libero ed indipendente[20].

Ancora più ardito e diretto a screditare il valore anche morale della Resistenza, è l’editoriale del 25 aprile de “il Giornale” a cura di Antonio Socci. Nel suo articolo Socci mette sullo stesso piano la ricorrenza 25 aprile e l’operato della Magistratura milanese impegnata nella ormai ultra nota azione di “mani pulite”. Socci, portando ad esempio alcuni avvenimenti immediatamente successivi alla Liberazione raccontati da Vittorio Foa, partigiano esponente del Partito D’Azione nel suo libro autobiografico “Il cavallo e la torre”, fa la genesi della corruzione partitica italiana facendola direttamente derivare dalla nascita della Repubblica e, implicitamente dai partiti antifascisti componenti il CNL che partecipando attivamente alla Resistenza si assunsero poi anche l’incarico di essere i fautori dell’organizzazione Repubblicana del Paese spartendosi incarichi e andando alla ricerca di denari per i partiti stessi. Insomma, per dirla con le parole di Socci, “W la Liberazione (dalle ipocrisie)”, (titolo del su editoriale) consisterebbe nell’ammettere finalmente che il sistema corruttivo dei partiti italiani sia annidato in quel lontano 25 aprile del 1945. I governi Crispi, Giolitti, il Fascismo sono a quanto sembra per Socci del tutto esclusi da questo pesante malcostume italiano. Sempre su Il Giornale del 25 aprile a pagina 3 si legge un commento sulla celebrazione della Liberazione a cura del regista Franco Zeffirelli che bolla la celebrazione “solo come un nuovo tentativo di spaccare il Paese”. Dice Zeffirelli: “Non vedo nessuna ragione per assegnare a questa celebrazione di oggi nessun significato particolare e nessun merito di attenzione. Se mai resta il rimpianto di non avere saputo celebrare prima questa pacificazione”. Egli ricorda che dopo la caduta del fascismo, il pericolo per gli italiani era rappresentato dal comunismo e non da un nuovo fascismo, e si domanda come mai non sia stato possibile dimenticare ed accantonare molto tempo fa le rivalse di una e dell’altra parte. Ancora una volta si fa opera di scarsa memoria, dimenticando consapevolmente o no che nessun regime stalinista ha, governato l’Italia, mentre è vero che Mussolini e soci hanno soprafatto gli italiani per oltre venti anni. E, dimenticando che dopo la fine della guerra, i vinti furono dai vincitori “perdonati”, completamente scagionati e rinseriti nella vita pubblica del Paese. Ma nonostante questo gli eredi dei vinti non pronunciarono mai abiura nei confronti del fascismo. Forse in questo, e certo non solo, risiede una delle cause per un mancato superamento di questa infinita spaccatura in merito alla celebrazione del 25 aprile, a cui ancora nel ’94 ma anche negli anni a venire nessun esponente politico degli eredi del Pnf partecipò alle feste di piazza in veste ufficiale.

Sempre sulle pagine del Giornale il 26 aprile tocca a Marcello Veneziani sfoderare la sciabola nei confronti delle personalità apparse sui palchi della celebrazione del 25 aprile colpevoli, a suo giudizio, di avere esternato pubblicamente “un nuovo ringhioso patriottismo della Costituzione”. Veneziani se la prende con “il malconcio fronte delle sinistre che ogni giorno di più si rileva come la forza più compiutamente conservatrice e reazionaria del Paese”. Il suo atto di accusa è rivolto contro coloro i quali difendono ad oltranza la Costituzione del 48 e sottolinea che “il Paese richiede a gran voce una svolta nel senso di una democrazia presidenziale e federale”. In sintesi anche Veneziani fa dipendere la corruzione e l’inefficienza dei governi della Prima Repubblica dai principi della Costituzione che hanno regolato la vita del Paese e permesso lo sviluppo di quel sistema partitico nel quale “nessuno si assumeva la responsabilità della decisione, ma tutto veniva mediato e mitigato nella partecipazione collettiva alle decisioni, maggioranza e opposizione”. E Veneziani considera tutto questo sistema di partecipazione alle decisioni non democratico.

Per quanto riguarda Il Manifesto iniziamo col prendere in considerazione l’opinione di Ida Dominijanni del 24 aprile. La Dominijanni prende spunto dalle dichiarazioni della Presidente della Camera Irena Pivetti a proposito di come le donne stavano meglio durante il fascismo. E, non senza amarezza, sottolinea fino a che punto sia giunta la falsificazione e l’ignoranza ormai entrata a pieno titolo nelle istituzioni e non solo. Ella fa discendere questa situazione da “un senso comune revisionista che si è fatto strada nel decennio scorso, quando con disinvoltura e non abbastanza contrastati, i cantori del craxismo dichiaravano obsoleto il pregiudizio antifascista della Costituzione e aprivano la via all’equiparazione dell’antifascismo con tutti i mali della partitocrazia”.

Il 25 aprile l’editoriale de Il Manifesto è firmato da Rossana Rossanda ed è intitolato “questo giorno è vostro”. La Rossanda si rivolge idealmente a coloro i quali nella loro diversità saranno presenti in piazza invitandoli a sentire “un poco chi vi parlerà del passato, chiedetevi molto e accortamente sul presente. E guardatevi, tanti, non depressi, non frustrati”. Ricorda, la Rossanda, che “neppure sul palco tutti si piacciono: uniti nella resistenza, presto si sono divisi”. Costoro sono però coscienti, a parere della Rossanda, che senza “quella unità Contro, che non riuscì ad essere unità Per”, non ci sarebbe stata nessuna ricorrenza della Liberazione. E se anche “la tela dell’Italia è stata tessuta in modo insoddisfacente, se avessero vinto Mussolini e Hitler, nulla sarebbe stato tessuto”. Il Manifesto, a ridosso del 25 aprile 1994 lascia molto più spazio alla cronaca, alle analisi storiche, politiche e sociali, piuttosto che alle opinioni e agli editoriali; in questo scenario scelto dal quotidiano resta da segnalare un brevissimo editoriale a cura di Luigi Pintor del 26 aprile nel quale l’anziano partigiano rivive la giornata del corteo a cui anch’esso a partecipato. Pintor ricorda la mobilitazione del “il Manifesto” che ha promosso il corteo, i ringraziamenti “dei molti, lungo i marciapiedi durante il tragitto sotto la pioggia scrosciante”; la convinzione che “nessuno, vecchio o giovane faceva fatica a capire, a sentire e a dire che la democrazia italiana e la nostra libertà hanno lì la loro origine e non sono pensabili altrimenti. Nessuno tuttavia celebrava il passato, tutti pensavano al futuro”. E conclude con due messaggi: uno alle destre italiane che dopo avere fatto di tutto per paventare incidenti e disordini di ogni tipo, devono prendere atto della assoluta riuscita della manifestazione e rendersi conto che “una lacerazione del patto costituzionale e una regressione autoritaria e fascistizzante getterebbero la società in convulsione”. Mentre il secondo e ultimo messaggio di Pintor è rivolto “alla sinistra, perché ritrovi finalmente se stessa”.

La Repubblica dedica ampio spazio al quarantanovesimo anniversario della Liberazione. Nelle pagine della città di Milano il 24 aprile sotto un immensa foto a doppia impaginazione raffigurante il 25 aprile del 45, si trovano dieci trafiletti contenenti i brevi racconti di altrettanti testimoni di quel primo anniversario della Liberazione. A contorno di queste testimonianze è presente un commento di Leonardo Coen anch ‘esso incentrato su l’accertamento dei fatti di quel periodo e rivolgendo particolare attenzione ai fatti di Piazzale Loreto. Coen ritorna sulla diatriba dell’eventuale pacificazione ribadendo che “i conti con il passato impongono la discussione, il confronto, non la mistificazione”, e ricorda che “il dilemma sul perdono, sulla violenza, sulla pacificazione, sulla giustizia era emerso subito” all’alba di quel 25 aprile del ‘45. Coen ripesca il corsivo che accompagnava due grandi foto di piazzale Loreto del 45 pubblicate dall’Avanti!: “ieri, in una luminosa giornata di sole, si è svolto uno spettacolo orribile” uno spettacolo necessario, ci si giustifica: “come tanti orribili castighi. Quale legalità avrebbe riparato il torto commesso, l’arbitrio fatto legge. La violenza eretta a norma di vita? Nessuna legge, nessuna legalità che non fosse sorta spontaneamente dal popolo stesso che aveva subito l’affronto. E il popolo è stato costretto a giustiziare il proprio tiranno per liberarsi dell’incubo di un offesa irreparabile.” Il 25 aprile la prima pagina di La Repubblica ospita l’editoriale non firmato intitolato “di chi è questa festa”, nel quale si sottolinea che la festa del 25 aprile è la festa di tutti. Senza quel 25 aprile del 45, senza la lotta armata, la ribellione, la resistenza contro la dittatura fascista, non ci sarebbe stata nessuna Repubblica, nessuno governo democratico sia esso di centro, di sinistra, di destra. Quindi il 25 aprile, alba della democrazia italiana, è, e deve essere, una festa di e per tutti. “Chi guarda con pigrizia e con fastidio al compleanno della libertà non è moderno, è solo pericolosamente stufo dei suoi diritti e di quelli degli altri”. L’editorialista di Repubblica continua scrivendo “quindi oggi non è giorno di rivincita né contro il governo Berlusconi che verrà, né contro la storia che è scritta…si ricordi il militante di sinistra, che oggi si misurerà in piazza la forza della democrazia e non quella della sinistra”. Ma, l’editorialista di Repubblica, ricorda anche “che nell’aria c’è anche un'altra rivincita, intollerabile, offensiva e bugiarda: quella di chi ci racconta che la guerra tra fascismo e antifascismo fu lo scontro tra due opinioni….tra chi stava con Hitler e chi con la democrazia…..quella scritta non è la storia dei vinti, è la storia e basta; altra storia non c’è, c’è solo una voglia di rivincita sulla democrazia e sulla libertà, nascosta sotto l’ambiguo concetto di pacificazione”. E continua: “non c’è nulla e nessuno con cui la democrazia italiana debba riconciliarsi o pacificarsi; chi combatté per la Repubblica di Salò fu amnistiato nel 1946 e mai da allora ha dovuto subire privazioni dei diritti civili o della libertà…la Repubblica democratica Italiana ha garantito la libertà a tutti, anche a coloro che mezzo secolo fa contro quella libertà sparavano, rastrellavano, impiccavano”. E conclude facendo un elenco di chi sarà in piazza: “i militanti di sinistra, coloro i quali ancora non credono alla vittoria elettorale delle destre, chi ha vissuto il fascismo in prima persona, chi pur essendo nato dopo ha capito che cosa è stata la dittatura fascista in Italia, chi ha votato per qualunque lista alle recenti elezioni del 27 e 28 marzo del 94”; e chi in piazza non ci sarà: “i riconciliatori (quelli che vogliono trasformare il compleanno della libertà in una sorta di festa della mamma), quelli che intonano petulanti: è passato tanto tempo…cinquanta anni, quelli che da settimane profetizzano gli scontri, gli incidenti, il morto in piazza, e ovviamente non ci saranno i fascisti quelli dichiarati ed orgogliosi, e non ci saranno neppure quelli che se ne fregano di tutto comprese le loro libertà”.

Per quanto riguarda il 26 aprile su Repubblica è presente l’editoriale di Giorgio Bocca, il quale cita la tesi dello storico Pavone secondo cui in Italia “la destra pensa che per costruire una nuova democrazia più solida e moderna sia necessario partire da una onorata ma definitiva sepoltura dell’antifascismo”, pensieri questi che non coincidono con la volontà della maggioranza del paese e che fanno pensare ad una sorta di strumentalizzazione della storia Repubblicana del paese al fine di “ripulire” la destra italiana da ogni connotazione di origine fascista. In seguito, nel suo editoriale Bocca ricorda ancora che la Liberazione ha permesso a tutti, oggi di pensarla come credono, anche da fascisti, peronisti, o da nazisti. Ma, si domanda se è permesso solo pensarla in questi modi o anche agire in questa direzione autoritaria? Bocca cita, a proposito il telegiornale di Italia 1 che ha mandato in onda per una mezz’ora le immagini di Piazzale Loreto con un commento di Giampiero Mughini che definiva quegli avvenimenti “ bassa macellazione ai danni di gente esente da ogni colpa penale”. Inutile è ricordare quali fossero le spregevoli responsabilità di criminali di guerra dei gerarchi fascisti e ricordare anche che Mussolini e il suo stato maggiore erano stati invitati alla resa dal legittimo governo dell’Italia del nord (Cnlai), e che rifiutando si erano invece dati alla fuga e che solo allora erano stati condannati a morte. Ma, come dice lo stesso Bocca, un operazione mediatica di questo tipo serve solo a raccontare una storia revisionista e fasulla che intende fare apparire la lotta di Liberazione e i suoi tragici avvenimenti, semplicemente come una sorta di “macellerie opposte”. Rimane quindi senza risposta quella domanda che Bocca aveva posto sulla possibilità non solo di pensare la storia e la propria attualità in un Paese democratico anche da fascisti, ma anche se sia possibile adoperarsi affinché certe nostalgie del passato possano ritornare.

2.4 – le intervistevai a indice

Partiamo ancora una volta dal Corriere della Sera ed analizziamo l’intervista realizzata da Paolo Franchi al coordinatore di An Gianfranco Fini. Fini dichiara che il suo 25 aprile “sarà il primo giorno di un anno di riconciliazione” e definisce quest’ultimo concetto come “la capacità di rileggere la nostra storia non per rinnovarne le fratture, ma per guardare avanti”. Stimolato dall’intervistatore che gli domanda se con la precedente affermazione egli invocasse un “revisionismo all’italiana”, Fini risponde: “neanche per idea…trovo che Scalfaro avesse ragione davvero quando ha detto che la storia è verità, la storia non si riscrive”, ma poi aggiunge: “certo tutto sarebbe più facile se anche in Italia, come nel resto d’ Europa, antifascismo fosse sinonimo di antitotalitarismo”. Ripropone, quindi anch’egli la tesi degli opposti estremismi che le destre di quel periodo cavalcavano con enfasi. Interessante risulta anche essere la risposta (o la non-risposta) data alla domanda: “Lei ha detto di considerare Mussolini il più grande statista del secolo..”, a cui Fini risponde: “scusi, ma l’ho giurato: di questo non parlo più”. Fini, sul fronte della politica interna, dichiara inoltre che i diritti acquisiti non possano essere lesi e che sarebbe una follia mettere in discussione il metodo della concertazione con i sindacati. A proposito delle paventate epurazioni di cui l’intervistatore gli chiede conto, Fini risponde che il concetto di epurazione non gli appartiene e che caso mai, si tratta di verificare la capacità di ogni individuo ad occupare o meno uno specifico posto; fa, in merito a questa questione, il nome di Michele Santoro che definisce lontano anni luce dalle opinioni di destra, ma bravissimo. La seconda intervista che prenderemo in considerazione pubblicata dal Corriere è del 25 aprile a cura di Marzio Breda a Tullia Zevi, presidente delle comunità ebraiche italiane. Il giornalista chiede alla Zevi se all’interno delle comunità non si avverta preoccupazione per il ritorno al governo italiano dei post-fascisti, segnalando inoltre, le uscite della Pivetti neo presidente della Camera dei Deputati. La Zevi, pur sottolineando che l’Italia sarà il primo paese, tra i firmatari del Trattato di Roma, che imbarcherà l’estrema destra al governo, dichiara che le uniche assicurazioni che domanderà al neo Presidente del Consiglio Berlusconi saranno centrate sul rispetto e l’assoluta fedeltà alla carta fondamentale di questa Repubblica, cioè alla Costituzione, nata dalle ceneri del nazifascismo e che contiene quell’intesa tra lo Stato Italiano e l’unione delle comunità ebraiche. Una sottolineatura, quindi, del valore assoluto sia in termini etici, che legali della nostra Costituzione e della sua drammatica, quanto orgogliosa origine.

In contrapposizione a quest’ultima intervista del Corriere, ci occupiamo ora dell’intervista esclusiva rilasciata dall’Onorevole Irene Pivetti a Renato Farina, pubblicata su Il Giornale del 24 aprile. Dopo un primo approccio, nel quale Farina paragona la neo Presidente Pivetti alla principessa Sissi di filmica memoria, il giornalista chiede all’Onorevole se l’inizio della seconda Repubblica parta proprio dalla sua elezione a Presidente della Camera. La Pivetti risponde con decisione che l’origine della seconda Repubblica non inizia dalla sua elezione, ma “inizierà quando ci sarà una nuova Costituzione”. Così dicendo anch’ella si pone su quel piano, che tanto timore incute, di considerare vecchia e superata la Carta Costituzionale Italiana e pronta ad essere rivista, revisionata, riformata. Dopo altre considerazioni di natura politica, tra cui spicca la negazione dell’esistenza dell’estremismo di destra in Italia che sarebbe addirittura il segno della anomalia italiana in Europa a parere della Pivetti, l’intervista si orienta verso il campo religioso in cui la Pivetti, nonostante il suo ruolo istituzionale, non mostra certo disinteresse, tutt’altro. La Pivetti si dichiara una cattolica integrale, non integralista e continua con una disquisizione a proposito dal cardinale Lefèbvre e della scomunica che egli ricevette dal papato. Ne esce ridimensionata a questione squisitamente teologo-relisiosa la polemica sulle sue dichiarazioni nei confronti degli ebrei. La Pivetti dichiara, infatti che le accuse di antisemitismo che le sono state rivolte sono strumentalmente utilizzate per attaccare la Lega Nord dalle forze consociative della Prima Repubblica. E ribadisce che, a proposito dell’accusa di deicidio rivolta agli ebrei, non Le sembra ci sia nulla da eccepire in quanto trattasi di responsabilità storica accertata [sacrosanta…verrebbe da dire]. Farina conclude l’intervista entrando nel merito della questione e chiedendo all’On.: “che cosa è per lei il 25 aprile?”; La Pivetti non dice cosa sia per Lei il 25 aprile, ma spera: “spero diventi la festa della pacificazione nazionale”. “La storia ha emesso il suo giudizio su quel regime di dittatura che ha avuto anche elementi positivi sul piano sociale”, continua la Pivetti: “so di infrangere dei tabù anche solo ad accennarne, ho detto di leggi positive per la donna, e pensavo all’Opera per la maternità e l’infanzia, durata fino al 1962 e mi hanno linciata. Va così, ma si dovrà riaffacciare l’amore per la storia.” E continua la sua lezione di storia: “per rinnovare il patto di pace tra gli italiani è un dovere di tutte e due le parti di inchinarsi con rispetto ai morti….ci sono stati atti di fellonia e di eroismo da entrambi le parti.” Ancora una volta,quindi, spicca la classica teoria degli opposti estremismi, della pietà per i morti tutti uguali, delle vicende ampiamente scandagliate in ambito storico, ma sempre nuove per i mass-media e per chiunque abbia voglia ed interesse nel ricostruire strumentalmente la storia. Le interviste de Il Giornale continuano a pag.4 con Francobaldo Chiocci che intervista l’ultimogenito di Mussolini, Romano Mussolini. Quest’ultimo ricorda il padre appunto come padre, ricorda brevemente l’epopea della sua famiglia dopo “la tragedia del nord” e, a proposito delle immagini di combact film dice che nessuno della sua famiglia le ha viste e che non vuole ricordare suo padre da morto….e da morto “in quel modo infame”. Di maggiore interesse risulta invece essere l’intervista a Gianfranco Fini pubblicata da Il Giornale sempre il 25 aprile. Fini ribadisce che il 25 aprile del 94 “dovrà essere all’insegna del la ritrovata unità fra tutti gli italiani” e dopo una serie di domande e di relative risposte sull’attualità politica del governo che sta per instaurarsi in quei giorni e che vede l’Msi-An parteciparvi, il giornalista Federico Guiglia chiede a Fini se egli sì identifica con l’analisi dello storico tedesco Nolte (famoso per le sue tesi negazioniste) secondo il quale lo stesso Fini “potrebbe diventare l’erede moderno di Mussolini, proponendo un fascismo non totalitario”. La risposta di Fini è assolutamente negativa: “…non è alle porte nessun tipo di fascismo, neppure costituzionale. Il fascismo è nato, cresciuto e finito con il suo ideatore”.

Repubblica sceglie di dedicare al 25 aprile le sue pagine culturali, proponendo interviste il 24 aprile a Giorgio Albertazzi, Vittorio Foa, e allo storico Claudio Pavone. Albertazzi che politicamente si definisce “anarchico di centro” (?), si definisce anche fascista se fascista sta per colui che “ama il proprio paese, ne difende i confini, è coraggioso”. Albertazzi prosegue asserendo che senza la Repubblica di Salò, a cui egli aderì, i tedeschi avrebbero distrutto l’Italia. E poi: “ rimettere a posto la storia significa riconoscere che il filosofo Gentile è stato ucciso da quattro mascalzoni, e che l’unico che ha cercato di liberare la storia da pregiudizi politici ed ideologici è stato De Felice”. In conclusione Albertazzi cita, elogiandola anche la trasmissione Combact film. Vittorio Foa parla anch’egli del 25 aprile, certo da tutt’altro punto di vista. Ricorda l’importanza della data come momento che segna la fine del fascismo, e come vittoria dei valori della tolleranza, della solidarietà, del rispetto degli altri popoli, del riconoscimento dei diritti politici, civili e sociali. Ma Foa ricorda anche che la memoria della Resistenza non deve diventare una statua da venerare, ma il fondamento di valori da motivare giorno per giorno. A proposito della tanto acclamata riconciliazione, Foa se ne dice contrario, in quanto: “ non c’è nulla da riconciliare; l’unica riconciliazione possibile l’hanno fatta De Gasperi e Togliatti con l’amnistia”. Claudio Pavone fu il primo a parlare di guerra civile[21]. A lui L’intervistatore Nello Ajello domanda cosa pensi della pacificazione. E Pavone ribadisce “che le distinzioni andrebbero mantenute, almeno per evitare equivoci…. la parificazione sul piano dei diritti civili e politici si ebbe subito dopo la Liberazione…nel 48 nacque il partito neofascista…se le cose fossero andati a parti invertite, se cioè avessero vinto i fascisti, è assai poco probabile che ci sarebbe stato qualcosa di simile.” Pavone, stimolato da Ajello, ricorda anche che “l’antifascismo in quanto tale non può, a suo giudizio, guidare da solo la politica dell’oggi, esso segna però una soglia invalicabile di giudizio”. E, riferendosi alle esternazioni della neo Presidente della Camera Pivetti, dichiara che “la soglia è stata superata…. I veleni che hanno generato il fenomeno fascista, circolano ancora nella società italiana; hanno prodotto tanti disastri…non ha molto senso temere che questi veleni agiscano con l’intensità del 22, ma occorre tuttavia guardarsene”. L’ultima intervista che prendiamo in considerazione da Repubblica è del 26 aprile ad Alessandra Mussolini. L’intervista è inserita in riquadro al centro di pag 5, contornata da un articolo sul 25 aprile di Fini, nel quale quest’ultimo dichiara di partecipare ad “una messa per dimenticare”, “pensiamo al futuro, basta con gli steccati e gli odii del passato” è il sottotitolo dell’articolo. La Mussolini dichiara invece che la celebrazione del 25 aprile 1994 è stata “una provocazione della sinistra che ancora una volta erige un muro per dividere gli italiani, alimentare gli odi e i razzismi ideologici”. Dichiara inoltre di non avere partecipato alla messa a Roma per i caduti “sponsorizzata” da Fini, ma di andare a Predappio per l’anniversario della morte di suo nonno Benito. Insomma la Mussolini si dichiara, con la sua solita schiettezza, poco in sintonia con il segretario del suo partito e insiste che sia la sinistra e tutti coloro che a queste celebrazioni partecipano (vedi il sindaco di Napoli, Bassolino) a non volere la riconciliazione.

Per quanto riguarda le interveste de “il manifesto” ne citiamo una del 25 aprile. L’intervista a Gianni Ferrara professore di diritto pubblico generale all’Università di Roma ed ex parlamentare del Pci. L’intervista è centrata sul significato della Costituzione. Dopo aver chiarito cosa significhi per lui la giornata del 25 aprile, cioè: “liberazione dalla violenza totale empia e inesorabile che è la violenza degli stati che si fanno guerra e nel farla agli altri stati e agli altri popoli la fanno innanzitutto ai propri popoli, perché ogni guerra è guerra civile, ogni guerra è guerra all’umanità” (parole che nell’attualità odierna suonano molto reali), Ferrara risponde ad una domanda del giornalista che gli chiede se anche lui pensi che il patto costituente sia il primo episodio di consociativismo nell’accezione negativa che si è soliti attribuire oggi a questo termine. La sua risposta è “ogni Costituzione è un patto che viene stipulato dalle forza politiche in quanto rappresentanti del corpo elettorale. Se non fosse questo, allora si tratterebbe di una Costituzione decisa da una minoranza contro una maggioranza. Parlare di consociativismo in riferimento alla Costituzione del 48 significa non avere capito cosa significhi Costituzione, perché ogni Costituzione è un accordo, un intesa tra i più perché le regole appartengono a tutti”. Ferrara sembra nel 1994 prevedere cosa poi succederà in questi ultimi anni quando l’attacco alla Costituzione seguirà appunto quel metodo sottile che egli nel 94 prevedeva. Ferrara infatti pensa che la destra appena giunta al potere in quei giorni on oserà toccare direttamente i principi fondamentali della Carata Costituzionale, ma “cercherà di eliminare le istituzioni che garantiscono i principi fondamentali, toccando per esempio il potere reale del Parlamento, riducendolo a strumento di esecuzione della volontà del governo. Inoltre si tenterà di eliminare una serie di garanzie che la Costituzione ha fissato affinché quei princìpi astratti fossero poi effettivi; oggi l’attacco alla Magistratura sembra intanto un primo episodio di questa linea di tendenza; il non volere affrontare il problema dell’informazione sembra essere un ulteriore episodio di questa linea”. Alla luce degli sviluppi degli anni odierni la previsione di Ferrara sembra essere più che realistica ed al limite pecca di ottimismo in quanto si è poi giunti in questi ultimi anni anche ad un attacco diretto alla Costituzione attraverso la spinta della Lega Nord in direzione della famosa “devolution” con relativa modifica costituzionale in via di approvazione proprio in questi mesi.

2.5 – la resistenza in TVvai a indice

La televisione ha contribuito in modo non marginale a condizionare e a modificare il nostro modo di vivere e di pensare; e anche nel campo della memoria storica il ruolo che la televisione ha svolto e svolge è decisivo. Dando o non dando notizia dei fatti, i mass-media concorrono a determinare la realtà dei fatti stessi: da una parte i giornali, la radio e ancor più la televisione, che è recepita dalla quasi totalità dei cittadini, concorrono, oggi, ad una prima scrematura e sistematizzazione degli innumerevoli eventi che formano il nostro vissuto collettivo; dall’altra raccontano eventi che sono ancora in corso e i cui sviluppi dipenderanno anche dal modo in cui verrano riferiti[22]. La televisione, insomma può non limitarsi ad influenzare un pubblico passivo, ma può essere in grado di provocare direttamente l’attualità di cui ha bisogno[23].

Storici e politologi ci ricordano che una democrazia funziona non solo se dimostra efficienza istituzionale e amministrativa ma anche se conta su una forte identificazione da parte dei suoi cittadini; un identificazione che si basa sul riconoscimento di una storia comune[24]: “una democrazia vitale mantiene viva la memoria della propria origine, non importa quanto dolorosa e controversa sia tale memoria, purché alla fine tramite essa si generi tra i cittadini un sentimento di reciproca appartenenza”[25]. Di questo processo di identificazione la Resistenza dovrebbe costituire il nucleo centrale, il valore fondante. È da quell’esperienza che nasce il sistema politico-istituzionale nel quale tuttora viviamo; al di là dei pregi e dei difetti che finora ha dimostrato, il suo radicamento nella memoria collettiva dovrebbe essere ormai fuori discussione. Non sembra che questo però corrisponda alla realtà. Non possiamo, per ovvie ragioni, addentrarci meticolosamente nelle varie inchieste sociologiche e nei vari sondaggi al fine di constatare quale sia realmente il grado di memoria degli italiani in merito alla lotta di Liberazione. Ma possiamo citare un esempio su tutti che ci fa rendere conto di quanto sia lontano, per una buona parte degli italiani, la memoria e la comprensione di quella nostra pagina storica. L’esempio in questione è la trasmissione combat film andata in onda proprio a cavallo della ricorrenza della festa di Liberazione del 1994. La studentessa in studio che alla domanda su chi fosse Badoglio, risponde “Badoglio, chi era?” è una studentessa di scienze politiche. Le approssimazioni dei conduttori circa la paternità della svolta di Salerno attribuita non a Togliatti ma bensì a Benedetto Croce che in realtà rimase, come gli altri esponenti fascisti sorpreso e sconcertato dalla spregiudicata iniziativa del leader comunista. Tutto sembra dimostrare il livello medio bassissimo di alfabetizzazione storica del nostro paese.

Dopo questa brevissima analisi del ruolo del mezzo televisivo nella costruzione della memoria collettiva vediamo quanto siano vere le affermazioni precedenti circa lo svuotamento della memoria storica attraverso l’opera televisiva e il relativo approccio verso quest’ultima da parte dei quattro quotidiani in questione nei giorni a cavallo della festa di Liberazione del 1994.

Su Repubblica del 24 aprile c’è un interessante articolo sulla trasmissione “il rosso e il nero” andata in onda due giorni prima con la conduzione di Michele Santoro. Il conduttore è collegato in diretta dalla piazza di Caiazzo, in provincia di Caserta. Il paesino è sorto alle cronache per un eccidio nazista che costo la vita a 22 contadini del paese nel 1943. La contrapposizione che si nota nella popolazione di Caiazzo può essere presa ad esempio di quella che si evidenzia a livello nazionale. A Caiazzo la maggioranza dei cittadini si è espressa nelle recenti elezioni in maggioranza per Alleanza Nazionale. Difende i propri morti ma vota per gli eredi di coloro che erano alleati degli assassini. Tra la pioggia, ricorda il giornalista autore dell’articolo, c’è uno spaccato della realtà nazionale. Molti sono spinti verso la partecipazione alla trasmissione per pura vanità televisiva…pur di apparire. Altri, giovanissimi, sottolineano che quella storia, quella dell’eccidio, è ormai acqua passata. Altri ancora, tra le autorità locali, si sprecano in analisi sul ruolo della televisione. E tra molte urla e poche parole, si dimenticano i fatti.

“Il Manifesto” racconta esaurientemente l’offerta televisiva nella sua rubrica “televisioni” del 24 aprile e ci racconta che l’offerta televisiva sulla Liberazione parte a cavallo della mezzanotte su retequattro con il film “era notte a Roma” un film del ’60 di Roberto Rossellini che racconta di tre prigionieri, un russo, un americano, un inglese, che evadono da un campo di concentramento e sono nascosti nella soffitta di una donna romana. Sempre intorno alla Mezzanotte su rai due Beppe Fenoglio è al centro del ritratto documentaristico di Giulio Graglia che racconta le Langhe negli anni ’50 e gli scritti antifascisti di Fenoglio. Sulla trasmissione “ciak” di canale 5 Montaldo e Lizzani ci raccontano come alla Liberazione Politica e sociale del Paese corrisponda, almeno per 3 o 4 anni, una liberazione espressiva, artistica e produttiva del cinema italiano nell’inizio di quel periodo definito “neorealismo” che tanta fortuna ebbe.

Per quanto riguarda la giornata del 25 aprile sembra che la televisione (almeno quella pubblica e Telemontecarlo) abbiano deciso di puntare sull’evento e di stravolgere i palinsesti per dedicare molto spazio alla ricorrenza. Si comincia in mattinata con un film su Rai Uno del 1962 di Nanni Loy: “Le quattro giornate di Napoli” che racconta l’insurrezione del popolo napoletano del 28 settembre 1943, puntando l’obbiettivo sul popolo dei ragazzi combattenti. TeleMonteCarlo propone in prima serata il famoso “Roma città aperta” di Roberto Rossellini, per poi proseguire alle 23.15 con “Aldo dice 26 per 1”di Fernando Cerchiò, realizzato a Torino tra il ’45 e il ’46 sui giorni dell’insurrezione partigiana. Ancora Tmc alle 00.30 propone un altro film sulla Liberazione: “All’armi sian fascisti”, un film documento del 1962 diretto da Lino Del Fra, Cecilia Mangini e Lino Miccichè, dedicato ai principali avvenimenti storici, sociali e politici tra il 1911 e il 1945. Tra i due film e subito dopo Tmc, propone anche un dibattito che oltre alla partecipazione dell’allora direttore della rete Sandro Curzi, vedrà in studio anche Luciano Lama e Giano Accame. Sulle reti Finivest, solo Retequattro all’1,05 della notte trasmette: “I sette fratelli Cervi” del 1968, diretto da Gianni Puccini con un impareggiabile Gian Maria Volontè. E’ “il Manifesto” nella rubrica “televisioni” ad informarci sul palinsesto televisivo dedicato alla Liberazione nel quarantanovesimo anniversario per quanto riguarda i dibattiti, i programmi documentaristici, le dirette televisive. Alle 15.30 va in onda l’ultima puntata della tanto discussa trasmissione: “Combat Film”, che propone servizi su alcuni luoghi simbolo della Resistenza: Boves, Marzabotto, Genova, Ampezzo, Modena, Eboli, Bologna, Massa Carrara, le Fosse Ardeatine….raccogliendo testimonianze di chi ha vissuto quei giorni. Su Rai due alle 21.45 “Mixer” si domanda: “Riconciliarsi è possibile?”. Alle 23.45 su Rai tre la trasmissione di Enrico Deraglio “Milano Italia” mette a confronto Achille Occhetto e Umberto Bossi reduci dalla manifestazione milanese per la celebrazione della festa della Liberazione; Rai tre propone la diretta della manifestazione a partire dalle 16.30. A proposito della diretta della manifestazione sulla terza rete Rai, in “il Giornale” a pagina 3 troviamo un trafiletto che polemizza con sarcasmo sulla diretta della manifestazione, trovandola fuori posto ed eccessivamente pubblicizzata dai conduttori del Tg3, concludendo con una frase che lascia poco spazio all’interpretazione dell’articolo stesso: “L’unica liberazione che noi chiediamo”, dice il giornalista autore dell’articolo “è la liberazione da queste dirette”.

Cap. 3 - 25 aprile 1995vai a indice

3.1 – Il contesto politicovai a indice

Il cinquantenario della Liberazione si svolge in concomitanza con le elezioni amministrative nelle quali 43 milioni di elettori andranno a votare per rinnovare le amministrazioni di 15 regioni, 75 province, 5119 comuni. Ancora una volta il clima politico e sociale è surriscaldato. Il governo Berlusconi cade a dicembre del 1994 con le dimissioni del suo primo ministro, che aveva ricevuto in novembre un avviso di garanzia da parte della procura di Milano. Infuriano le polemiche sull’opportunità di mettere sotto inchiesta il Presidente del Consiglio. Il 13 gennaio del 1995 il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro affida a Lamberto Dini l’incarico di formare il nuovo governo. Quest’ultimo dà vita ad un governo di tecnici che ottiene la fiducia alla Camera con 302 voti a proprio sostegno, 39 contrari di Rifondazione Comunista e 270 astenuti (“benevoli”, come sono definiti dalla stampa i voti del Polo). Nel frattempo il 25 gennaio al congresso di Fiuggi il Movimento Sociale Italiano (MSI) si scioglie per dare vita ad una nuova entità politica: Alleanza Nazionale. Nonostante che tra i delegati del Movimento Sociale vi siano anche interventi di tipo nostalgico nei confronti dell’origine del partito (Pino Rauti e Teodoro Buontempo), la mozione del segretario del partito On. Gianfranco Fini è approvata con 1507 voti su 1679 e sancisce la fine del Movimento Sociale e la nascita della “nuova linea politica” di Alleanza nazionale che molto sinteticamente è possibile esprimere con questa frase dell’On. Fini: “noi non siamo i figli del fascismo”.

Nel bel mezzo dell’evidente crisi politica che attanaglia le istituzioni del Paese, il Parlamento approva il 10 febbraio la legge elettorale sulle elezioni regionali: 80 per cento dei seggi assegnati col sistema proporzionale, il 20 per cento come premio di maggioranza. Inoltre il governo Dini vara il decreto sulla par condicio al fine di garantire pari opportunità di visibilità mediatica ai vari candidati. Altro evento che desta molto scalpore e che mette in discussione la storia politica del paese è l’inizio del processo nei confronti del più volte Presidente del Consiglio, e più volte ministro: On. Giulio Andreotti, accusato dalla Procura di Palermo di associazione mafiosa.

In questo clima sempre più confuso si giunge al 23 aprile, data delle elezioni amministrative. Queste elezioni passeranno alla storia per avere affossato tutte le previsioni dei vari istituti demografici che avevano accreditato la vittoria al Polo delle Libertà (Alleanza Nazionale, Forza Italia, CDU) fino all’alba del giorno dopo quando, a spoglio ultimato, si scoprirà che anche gli exit-pool avevano clamorosamente sbagliato la previsione e il risultato si ribalterà attribuendo, nove regioni contro sei, la vittoria al centro sinistra. Da sottolineare che la Lega Nord di Umberto Bossi aveva lasciato il Polo delle Libertà votando in parlamento la sfiducia al governo insieme all’opposizione già dal dicembre del 1994, facendo di fatto cadere il governo Berlusconi di cui era in precedenza alleata. In queste elezioni amministrative la Lega Nord si presentò da sola ottenendo il 6,4 per cento dei consensi.

Nel frattempo l’indagine giudiziaria sulla corruzione va avanti, ma perde il suo maggiore rappresentante Antonio Di Pietro, per il quale inizia un periodo tumultuoso che lo porterà da prima alle dimissioni dalla magistratura e in seguito a dovere difendersi in diversi procedimenti aperti a suo carico, dai quali uscirà del tutto indenne.

Da ricordare vi è inoltre la riforma pensionistica varata dal governo Dini che viene accettata dai rappresentanti dei lavoratori e non dà luogo alle imponenti manifestazioni di protesta da parte dei lavoratori che invece si erano avute nel novembre e dicembre del 1994 quando il governo Berlusconi aveva proposto la riforma pensionistica.

3.2 – La cronaca del 25 aprile 1995vai a indice

Il cinquantesimo anniversario della Liberazione non ha la stessa enfasi che invece risulta dai giornali a proposito dell’anno precedente. Sembra quasi che sia il 1994 ad essere eletto come cinquantenario della festa. In ogni caso le manifestazioni che si succedono in Italia risultano comunque essere imponenti. La manifestazione più partecipata risultare essere ancora quella svoltasi a Milano. Oltre centomila persone affluiscono in Piazza del Duomo. Il Presidente della Repubblica O.L. Scalfaro arriva a Milano in mattinata; partecipa alle ore 10,00 alla Messa in Duomo celebrata dal cardinale Carlo Maria Martini; presiede la manifestazione militare interforze all’Arena Civica, poi alle 11,00 rende omaggio ai caduti per la libertà prima alla Loggia dei Mercanti e poi al Sacrario dei Caduti di tutte le guerre in Piazza Sant’ Ambrogio. Alle 12.25 il Capo dello Stato inaugura, alla Triennale la mostra “le ragioni della libertà”. Alle 15,00 da Porta Venezia parte il corteo ufficiale che giungerà (ancora una volta come l’anno precedente, sotto la pioggia battente) in Piazza Duomo. Prima dell’intervento del Presidente della Repubblica dal palco di Piazza Duomo prendono la parola l’Onorevole Aldo Aniasi, Presidente della Federazione Italiana associazioni partigiane, il quale ricordando il popolo insorto a Milano cinquant’anni prima dice: “è un illusione pensare che non essendoci più il fascismo, non ci siano più i fascisti…la libertà non è mai conquistata una volta per sempre, ma va sostenuta e alimentata ogni giorno”. Dopo Aniasi, dal palco delle autorità è la volta di Paolo Taviani che ricorda, a proposito del tema del federalismo, che: “ci vuole anche l’autonomia, magari maggiore di quella attuale, senza però mettere in discussione l’idea di Patria”. In successione, come ci ricorda il corriere della sera, parla anche la medaglia d’oro della Resistenza Arrigo Boldrini che fa esplodere la folla in un boato di consenso quando dice: “L’insurrezione non è solo un fatto militare ma anche politico, per ribadire che l’Italia era antifascista e unitaria: per questo pagammo allora la nostra aspirazione alla libertà…se qualcuno considera il nostro paese terreno di nuove avventure, ha sbagliato idea”. Per ultimo interviene il Presidente Scalfaro che incita all’unità, alla concordia nazionale e alla difesa della Costituzione e della democrazia; quindi invita sul palco e abbraccia la partigiana Carla Voltolina, vedova del partigiano ed ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini. I continui riferimenti all’unità nazionale da parte delle varie istituzione della Repubblica ci rimandano al vento seccesionistico che la Lega Nord continua ad agitare sul dibattito politico italiano. Da più parti infatti si discute di riforma costituzionale in senso federativo per evitare una paventata disgregazione nazionale sull’onda della grave crisi politica nella quale il paese si trova dopo la decapitazione della classe politica della Democrazia Cristiana e del Partito Socialista a causa dell’inchiesta sulla corruzione del Magistratura milanese.

Oltre ai discorsi delle autorità la polemica di questa giornata del 1995 verte su alcuni scontri, lanci di monetine e insulti rivolti, all’interno del corteo, verso una piccola delegazione di Forza Italia capitanata dall’On. Pilo. L’episodio ha una notevole eco sui quotidiani. Il Corriere titola: “malmenati gli azzurri nel corteo. La delegazione guidata da Pilo costretta a rinunciare alla manifestazione”. Su Repubblica troviamo un trafiletto con le accuse dell’On. Pilo: “squadristi di Bossi e di D’Alema”. Altro trafiletto su Il Manifesto intitolato semplicemente: “Milano. Forza Italia espulsa dal corteo”. Su Il Giornale a pagina 9 in una sezione stranamente intitolata “speciale elezioni” troviamo un insieme di articoli che evidenziano la “presunta intolleranza” dei manifestanti contro gli esponenti del Polo delle Libertà. Il titolo centrale riguarda i fatti di Milano: “la sinistra commemora col manganello” con il sottotitolo: “a Milano assaliti i delegati di Forza Italia che volevano partecipare alla celebrazione del 25 aprile”. A seguire, nella stessa pagina troviamo due trafiletti; il primo riguarda Bergamo: “Bergamo fischiato il presidente della Provincia Gianfranco Ceruti, eletto nelle liste del Polo”; il secondo riguarda una cittadina della provincia milanese: Buccinasco, il cui Sindaco dopo avere vietato alla banda di suonare “bella ciao”, non riuscirà a tenere il suo discorso davanti al monumento ai Caduti per l’intemperanze della folla.

Per quanto riguarda i rappresentanti del Polo delle Libertà, se a Berlusconi è sconsigliata da parte della Questura la presenza sul palco a Milano, l’On. Fini per Alleanza Nazionale accompagnato dall’On. Previti per Forza Italia e da Francesco D’Onofrio per i centristi del Polo si sono recati all’Altare della Patria a Roma per deporre, su invito del partigiano Edgardo Sogno, una corona d’alloro in commemorazione del cinquantenario della Liberazione e della fine della guerra. Partecipavano alla cerimonia anche vecchi combattenti della Repubblica di Salò e i giovani del Fronte della Gioventù (organizzazione giovanile dell’ex Movimento Sociale, ora Alleanza Nazionale) che per bocca della sua portavoce Roberta Angellili Euro parlamentare di A.N. esprime il proprio pensiero sul 25 aprile: “è intollerabile festeggiare il 25 aprile come data di inizio di una nuova fase della politica per il Paese senza ricordare i 50 anni di un sistema politico malato e corrotto”.

Altra importante celebrazione per questo cinquantenario del 25 aprile è quella che si è svolta a Napoli, dove è stato simbolicamente aperto a mezzogiorno il portone di Palazzo Serra di Cassano che per 196 anni era rimasto chiuso in segno di lutto per il giovane duca Gennaro ghigliottinato dal boia borbonico nel 1799 dopo che la rivoluzione partenopea dello stesso anno aveva creato un governo repubblicano affogato nel sangue dalla dura repressione borbonica. La riapertura del portone simboleggia, nelle intenzioni del Sindaco Bassolino, il ritorno del vento della libertà che soffia su Napoli e il crollo della barriera che ha diviso la politica dalla cultura decretando la rinascita di Napoli. “Fu Benedetto Croce a dire che la breve Repubblica di Napoli del 1799 segnò l’inizio del Risorgimento Italiano” dice sul corriere il sindaco Bassolino, e continua: “ecco perché abbiamo voluto celebrare in questo modo i 50 anni della Liberazione, che rappresentano invece il secondo Risorgimento del nostro Paese”. È da sottolineare che sia un importante esponente della sinistra, qual’è l’allora sindaco di Napoli Antonio Bassolino a porrè l’accento sulla continuità storica della Resistenza nel segno del Risorgimento e ad evidenziare l’importanza di un personaggio come Benedetto Croce che certo non era così in voga nelle file della “sinistra resistenziale”. Segno questo, evidentemente, di una notevole apertura del maggior partito di sinistra (l’allora PDS) che si sforza di mediare la lettura storica della Resistenza.

Nel pomeriggio la festa a Napoli continuerà con il corteo a cui parteciperanno circa cinquantamila persone.

3.3 – Editoriali e commentivai a indice

Il primo parere che prenderemo in considerazione è quello di Claudio Magris sul corriere della sera del 25 aprile intitolato: “il mito di ogni giorno”. Magris inizia raccontando l’origine del nome di un suo amico, famoso storico austriaco, Adam Wandruska. Quest’ultimo rivela a Magris che il suo nome di battesimo Adam gli è stato dato dal padre, ufficiale austriaco caduto durante la prima guerra mondiale, per simboleggiare “l’uomo nuovo, liberato dalle scorie del passato e interiormente rinnovato, che sarebbe dovuto nascere (a parere del padre di Adam) dalla rigenerazione spirituale e morale provocata dalla guerra”. Magris constata tristemente che questo auspicio non si è realizzato e che al contrario gli eventi del ventesimo secolo hanno riservato un succedersi di episodi in tutt’altra direzione rispetto ad una società nuova libera da ingiustizie. Magris continua asserendo che: “in questo contesto anche la resistenza, pur contribuendo a sconfiggere coloro che nella più cieca e violenta sopraffazione volevano imporre un nuovo ordine, non riuscì a creare quella società nuova e giusta che il padre dello storico Wandruszka auspicava. Magris conclude asserendo che l’evolversi della storia in questa direzione può indurre a una stanca rassegnazione con la conseguenza di “arrivare a concepire la politica quale mera gestione dell’esistente e a rinunciare ai valori perché non si riesce a vederli nella prosa della realtà….mentre la Resistenza può oggi insegnare a resistere a questa rassegnazione, a questo cinismo; l’uomo nuovo non nasce, una volta per tutte, da cataclismi epocali, ma dal disincantato e appassionato buon combattimento d’ogni giorno”.

Nella pagina della cultura del corriere della sera del 26 aprile troviamo, di spalla un articolo di Leo Valiani che ricostruisce la nascita della Resistenza come atto di coloro i quali: “privi di armamenti anche solo paragonabili a quelli della enorme potenza militare tedesca…non si rassegnavano all’asservimento, ma si ribellavano”. Valiani continua: “quasi cinquantamila partigiani di montagna, campagna e città vennero uccisi, sovente dopo inarrabili sevizie o inviati in campi di sterminio, ma le loro schiere non fecero che crescere”. Conclude l’articolo ricordando che nelle prime ore di quel 25 aprile del 1945 ritornarono a vedere la luce i quotidiani antifascisti dopo un forzato silenzio ventennale: “la libertà riconquistata non si è più spenta e non deve spegnersi”.

Per quanto riguarda “il Giornale” focalizziamo l’attenzione su un articolo, in prima pagina, del 25 aprile a firma di Piero Buscaroli e dal titolo quanto mai eloquente: “il 25 aprile, un giorno come un altro”, con all’occhiello: “non ha più senso celebrare una data che ricorda solo la guerra civile imposta dai comunisti”. Con queste premesse sembra quasi superfluo aggiungere altro, ma proseguendo nella lettura dell’articolo ci si accorge di cosa significa la parola “revisionismo”. Buscaroli inizia ribadendo le tesi neofasciste a proposito del significato dell’8 settembre, che viene identificato come il momento culminante del “tradimento” italiano nei confronti degli alleati tedeschi. Buscaroli identifica la Repubblica Sociale di Salò (Rsi), come l’unica mossa possibile per impedire ai tedeschi di “trattare l’Italia come meritava”. Mussolini è, per Buscaroli l’eroe che “accetta l’umiliazione di governare lottando per riconquistare la sovranità una volta compreso che le sole difese dell’Italia erano l’amicizia e il riguardo di Hitler, diavolo dell’inferno, ma tedesco e romantico per la sua personalità”. Buscaroli continua nel sottolineare l’assenza dell’antifascismo democratico che aveva lasciato il campo alla “guerra privata del Partito Comunista” responsabile, a parere di Buscaroli “della guerra civile imposta ai capi della Rsi. Così facendo il Pci si rese responsabile di “annullare i riguardi che la Rsi tentava di garantire all’Italia”. La resistenza, per Buscaroli “non accelerò di un giorno la fine del Reich, ma rese tremendo il contributo di sangue innocente alle sorti, già decise della guerra, istigando i tedeschi a quelle rappresaglie con cui qualsiasi esercito si difende dalle guerriglia”. I tedeschi erano quindi ampiamente giustificati nelle loro rappresaglie, dato che non facevano null’altro che difendersi! Continua Buscaroli: “la presente democrazia non fu frutto della guerra partigiana ma della sola vera vittoria inglese e americana”. Quindi né i russi né tanto meno i “resistenti italiani” avevano nulla a che fare con la disfatta tedesca. L’opinione aggressiva e revisionistica di Buscaroli procede nell’indicare i comunisti “che ora venivano consacrati per la loro Resistenza, come coloro i quali erano stai i paladini dei disertori durante la prima guerra mondiale”. E ancora “la guerra in Italia finì con la resa di Caserta il 2 maggio…il 25 aprile segnò soltanto l’insurrezione di una parte del nord contro i tedeschi che vinti dagli anglo americani, se ne andavano per conto loro”. Per finire “si abbatté poi su Trieste la più brutale occupazione che mai un lembo d’Italia patisse, quella dei banditi di Tito, mentre imperversava la strage dei vinti italiani per opera dei comunisti”. In fine “la storia capovolta” di Buscaroli si conclude come era iniziata, con l’auspicio cioè a cancellare la Festa della Liberazione “per restituire il 25 aprile a San Marco Evangelista, per le calende della storia il 25 aprile è un giorno qualsiasi”. È da notare che questa aggressiva opinione non appare su un quotidiano quale il “Secolo d’Italia”[26], ma trova spazio su un giornale che non è o non dovrebbe essere, almeno ufficialmente, organo d’espressione di un partito politico di estrema destra, come appaiono invece le tesi esposte da Buscaroli. Questo fa pensare che il tentativo dell’On. Fini di “ripulire” il proprio partito da esponenti “nostalgici” abbia avuto un discreto successo, visto che le tesi di Buscaroli non trovano spazio sul “Secolo d’Italia[27]”; dall’altra parte, visto che Buscaroli è pubblicato da “il Giornale”, di proprietà dell’alleato di Fini, Silvio Berlusconi, si può pensare che ci siano esponenti del centro destra che si spingano anche oltre le tesi di Alleanza Nazionale.

La “Repubblica” nel suo articolo di spalla dell’inserto del 23 aprile dedicato alla Liberazione mette a confronto le varie tesi sulla Resistenza. Si citano coloro i quali sentono “la necessita di sostituire la costruzione della vulgata storiografica antifascista sulla Resistenza con una visione più articolata e meglio rispondente ai risultati della ricerca storica”; in contrapposizione si citano coloro i quali “vogliono distruggere con il mito della Resistenza anche il significato e i valori che furono alla base della guerra civile, di classe e patriottica del 1943-1945 e sostituire ad essi una versione addomesticata che fa degli italiani che non vollero scegliere e attesero a piè fermo i vincitori, gli unici ad uscire indenni da quella tragedia”. Ci sono poi coloro “che si rifiutano di sottoporre il mito alla critica storica”. L’articolo, a cura di Nicola Tranfaglia, chiama poi in causa Claudio Pavone e il suo saggio “una guerra civile”, nel quale Pavone “conferma in maniera incontestabile la fondatezza delle ragioni che spinsero una minoranza tutt’altro che esigua a prendere le armi contro i nazisti e la Repubblica di Salò”. Nel citare ancora Pavone, Tranfaglia insiste nel ricordare che “accanto agli oltre duecentomila che presero parte attivamente alla Resistenza ce ne furono molti altri che, pur senza prendere le armi, collaborarono alla lotta contro l’occupante….e che contrariamente al quel che il mito ci ha fatto credere, la Repubblica sociale ebbe l’appoggio di una parte della popolazione italiana del nord”. L’articolo si conclude quindi asserendo: “il metodo deve essere, dunque, quello di verificare con gli strumenti della ricerca storica più aggiornata, episodi, avvenimenti e dinamiche di quello scontro feroce e analizzare con la massima serenità consentita alle nuove generazioni ragioni e torti dell’una e dell’altra parte. Senza dimenticare tuttavia che la condanna del fascismo nasce già negli anni venti, a difesa di quella democrazia liberale che la classe dirigente italiana non seppe difendere e che uomini come Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Giacomo Matteotti seppero raccogliere e trasmettere ai loro fratelli minori”. Sempre su “la Repubblica” del 23 aprile troviamo un articolo di Nicola Tranfaglia sulle divisioni concettuali tra due intellettuali quali Norberto Bobbio e Renzo De Felice. La tesi di quest’ultimo verte sulla considerazione che “sul 25 aprile c’è il vanto di una egemonia da parte del Pci…contrapposti alla democrazia, oltre ai fascisti, ci sono anche i comunisti”. Mentre Bobbio dice: “in Italia le cose sono andate diversamente perché il Pci di Togliatti è stato a fianco della democrazia”. Inoltre, a riguardo del giudizio storico sulla Resistenza, per De Felice “la guerra fu guerra fra élite, una élite fascista e una antifascista, con la maggioranza della popolazione che restava indifferente. L’ex partigiano Bobbio replica “ seppur siamo stai una minoranza, abbiamo cambiato la rotta degli eventi….inoltre l’antifascismo non è equivalente all’anticomunismo: la contrapposizione frontale con la democrazia, per lo meno in Italia, riguarda solo i fascisti”. Un altro interessante articolo sempre su “la Repubblica” è a cura di Francesco Erbani, il quale cita una ricerca di Claudio Dellavalle, storico dell’università di Torino sulla entità e la composizione della Resistenza in Piemonte. I dati di Dellavalle parlano di circa 90.000 persone coinvolte a diverso titolo nella Resistenza piemontese. Circa la metà di essi “sono partigiani veri e propri, cioè inquadrati nelle formazioni armate. Il 38 per cento sono indicati come patrioti o benemeriti, cioè coloro che, pur senza armi, solidarizzavano attivamente con la Resistenza”. L’età dei combattenti risulta essere molto giovane: 24,7 la media. La stragrande maggioranza proviene dal Piemonte, ma molti sono anche i partigiani meridionali che risiedono a Torino oppure che, sbandati, sono rimasti a combattere sulle colline piemontesi. “Almeno quattro su dieci sono appartenenti alle formazioni garibaldine, di impronta comunista. Ma diventano cinque se si considerano anche le Sap (squadre di azione patriottica che, all’interno delle città, volantinavano, facevano azioni di sabotaggio contro linee tranviarie o telefoniche e che vengono inquadrati come patrioti e non come combattenti), all’ottanta per cento costituite da comunisti. Il venti per cento dei partigiani militano invece nei gruppi di Giustizia e Libertà, il 25 in formazioni autonome”. Per quanto riguarda le classi sociali di appartenenza dei partigiani, la ricerca di Dellavalle indica che il 18 per cento apparteneva al settore dell’agricoltura, oltre il 63 per cento al mondo operaio, impiegatizio e tecnico dell’industria e dell’artigianato, circa il 17 per cento erano appartenenti al settore terziario che includeva sia i commercianti che gli studenti, e infine 1,5 per cento provenivano dalle classi più agiate dei professionisti e dei proprietari.

3.4 – Le intervistevai a indice

Le interviste di questo 25 aprile del 1995 sono tratte solo da “la Repubblica” e dal “il Manifesto” in quanto non ne sono presenti né sul “Corriere della Sera” né su “il Giornale”. Partiamo quindi da un intervista di Simonetta Fiori su “la Repubblica” del 23 aprile all’ex-capo partigiano di Giustizia e Libertà Giorgio Bocca. Dopo che Bocca spiega come visse lui il 25 aprile del 1945 nella sua Torino, la giornalista gli domanda che cosa abbia provato quando i fascisti sono tornati al governo. Bocca risponde: “da un lato un sentimento di fine d’epoca…dall’altro un sentimento di chiarezza: finalmente si scopriva che una parte dei democristiani erano fascisti camuffati da democristiani”. E continua ricordando l’esclusione, nel dopo guerra, dei partigiani nella vita sociale del Paese: “Ci avevano lasciato entrare nei giornali, nelle orchestre, nei teatri, nelle scuole ma a patto che non rompessimo le scatole. Al borghese di buon senso il partigiano dava noia. Sfuggivamo al controllo della Chiesa cattolica e controriformista”. A questo punto la giornalista domanda: “quando finirono le ostilità?” e Bocca risponde che le ostilità terminarono con l’avvento del centro sinistra nei primi anni sessanta quando lui cominciò a scrivere di Resistenza al quotidiano“il Giorno” diretto da Italo Pietra; ma continuando Bocca dice: “durò poco, arrivò il miracolo economico che parve inghiottire le nostre richieste riformistiche; presto la Resistenza cadde nel dimenticatoio e i partiti intanto avevano cominciato a mangiare…”. Poi si parla di cosa sia il fascismo oggi e Bocca dice: “una democrazia autoritaria e plebiscitaria è oggi assai più pericolosa del fascismo mussoliniano…oggi l’autoritarismo democratico penetra nella collettività anche grazie a quel potente mezzo di persuasione che è la TV…un regime cioè, che come diceva Tocqueville., non farà soffrire i cittadini ma li degraderà”. E, a proposito di Alleanza Nazionale, Bocca dice: “il suo progetto politico è usare la democrazia inzuppandola di cultura reazionaria”. Per quanto riguarda il 25 aprile, Bocca spiega cosa lui pensi significhi oggi: “è un segnale netto contro questo centro destra che si presenta con grandi rischi per il paese”. Bocca non pensa a “persecuzioni fisiche contro gli avversari”, ma all’esclusione di quest’ultimi dai mezzi di comunicazione (cosa che accadrà in maniera eclatante dopo la vittoria del centro destra alle elezioni politiche del 2001 con l’esclusione dalla Rai di Santoro, Biagi, Luttazzi, Guzzanti ecc..).

La seconda intervista appare sempre su “la Repubblica” del 23 aprile 1995 a cura di Nello Ajello. L’intervistato è l’ex-capo partigiano di Giustizia e Libertà Nuto Revelli, autore della famosa “Guerra dei poveri” nel 1962. Revelli racconta la propria epopea prima da sottotenente nell’inferno della ritirata dalla tragica “campagna di Russia” e poi la ritrovata vitalità nella scelta di trasformarsi da ufficiale alpino del Regio esercito a partigiano in collina sopra a Cuneo. Alla domanda di Ajello: “ci sono ancora i fascisti”, Revelli risponde: “certo che ci sono, la sceneggiata di Fiuggi non l’ho presa sul serio; tutto è rimasto com’era, anzi peggio perché adesso sono mascherati. Se scorri le liste elettorali ci trovi picchiatori, fanatici, gente che è stata condannata persino in Cassazione per vilipendio della Resistenza. Non pretendevo che i miei diffamatori finissero in carcere, ma addirittura candidati! Si sono vestiti a nuovo, hanno nascosto i manganelli. Io mi auguro soltanto che quei manganelli non tornino in piena luce e che, quantomeno rimangano sepolti nei loro cervelli”. A proposito della “pacificazione” Revelli dice: “i fautori di questo inganno, la pacificazione, tirano in ballo i morti di entrambi le parti. Non facciamoli parlare i morti. È meglio: lasciamoli dove sono”. Revelli continua sull’argomento: “la pietà per i caduti io l’ho sempre provata, però non dimentico e faccio parlare i numeri: tremila i civili uccisi in venti mesi nella provincia di Cuneo, circa duemila i partigiani morti in combattimento o assassinati, quasi mille le case incendiate, cento gli eccidi, settecento i deportati. Questo il prezzo che pagammo nella sola Cuneo e provincia. Non abbiamo bisogno della “pacificazione”, ci serve la libertà. Non volgiamo che ci sottraggano altri spazi di libertà, alcuni ce li hanno già tolti”. Revelli considera l’antifascismo un criterio ancora valido per interpretare l’attualità, dice: “il pericolo viene ancora dalla stessa parte; non tanto dai fascisti storici, ma dai fascisti di complemento: quelli tutti abbronzati e con tanti denti finti”. L’autore de “la guerra dei poveri” testimonia la sua esperienza in numerosi dibattiti specialmente nelle scuole, tra i ragazzi; e l’intervista si conclude con la stessa esortazione che Revelli fa ai giovani che incontra “non considerate la politica una cosa sporca, non abbandonatela nelle mani dei mascalzoni, altrimenti quelli trionfano e noi affondiamo”.

Passando alle interviste de “Il Manifesto” citiamo l’intervista del 23 aprile ad Antonio Bassolino, allora sindaco di Napoli. Nell’intervista di Guido Ruotolo, Bassolino parla della Napoli che festeggerà la Liberazione e del futuro politico del Paese. Oltre alle considerazioni politiche incentrate sull’esito delle elezioni amministrative appena svoltesi che alla regione Campania hanno visto l’affermarsi di Antonio Rastrelli, candidato del centro destra ed espressione diretta di Alleanza Nazionale e della storia del Movimento sociale, nell’intervista Bassolino si dice “onorato di essere il sindaco di questa Napoli che si riconcilia con la storia scegliendo di collegare idealmente le celebrazioni napoletane del cinquantesimo della Liberazione con la rivoluzione napoletana del 1799 e con la memoria di Benedetto Croce, che la considerò l’inizio del Risorgimento italiano”. Bassolino aggiunge inoltre che “l’iniziativa celebrativa del 25 aprile di Napoli ha un valore, oltre che nazionale, anche meridionale…questa data, infatti, oltre a segnare la Liberazione dal fascismo e dal nazismo è anche stata il momento d’avvio di un grande processo di ricostruzione dell’unità nazionale”. A proposito dell’omaggio alla tomba di Benedetto Croce, il sindaco di Napoli dice: “ci sembrava giusto onorare la memoria del grande filosofo, educatore di più di una generazione di antifascisti, anche per dare fino in fondo il senso che Liberazione e antifascismo sono il grande patrimonio unitario e democratico del paese, il pilastro della nostra Costituzione”. Concludiamo con l’equiparazione tra Milano e Napoli nei festeggiamenti del cinquantenario della Liberazione: “ Milano è la capitale della Resistenza; Napoli è stata la prima grande città a insorgere da sola con i suoi ragazzi, i veri protagonisti delle Quattro giornate”.

Sempre centrata su Napoli la seconda intervista de “il Manifesto” del 25 aprile ancora a cura di Guido Ruotolo allo scrittore Luigi Compagnone. Quest’ultimo ricorda l’insurrezione antifascista della città, indicando tra le ragione della rivolta: “l’incoscienza sublime dei giovani napoletani. Si trattava di una generazione che era nata sotto il fascismo e il nazismo e che non conosceva la libertà. Una molla che la fece scendere in campo fu il bando di chiamata alle armi dei nazisti….ma quei ragazzi avevano fame, fame di libertà. Un’ ulteriore molla fu l’eccidio da parte dei nazisti di una famiglia che dormiva nel tunnel di Piedigrotta”. Poi Compagnone parla dell’arrivo degli americani in città e della fame, quella vera, “che spingeva i coetanei dei Martiri delle Quattro giornate a portare madri e sorelle ai soldati americani: la Napoli di Curzio Malaparte e del suo famoso romanzo “la pelle”.

La terza ed ultima intervista da “il Manifesto” del 25 aprile è a cura di Enrico Bosio che intervista Enzo Biagi, che prima di diventare uno dei maggiori giornalisti italiani, fu un giovane partigiano tra le file della brigata “Giustizia e Libertà” del Partito d’Azione. Biagi racconta della sua esperienza di giovane partigiano come il momento più bello della sua vita e nel confronto tra quell’Italia e quella attuale dice: “allora c’era tutto da fare, adesso c’è molto da rifare”. A proposito della nuova ondata di destra in Italia, Biagi pensa: “non si tratta di una destra che si qualifica soltanto per una visione politica ma anche, ed è quello io temo di più, per una scala di valori. C’è un tipo di fascismo che non ha necessariamente la camicia nera ma che concepisce i rapporti umani, l’esistenza in un modo che io respingo”; e continua: “ha detto Tolstoj che i Napoleoni non nascono a caso, questo vale anche per i Mussolini, gli Hitler e gli Stalin, c’è sempre qualcosa che li determina”. Poi il giornalista domanda a Biagi se il tessuto democratico e civile del nostro paese esista ancora. Biagi risponde: “credo che questo paese ami la democrazia…purtroppo tra le virtù nazionali non c’è il carattere…di recente si è visto come persone che militavano nelle schiere socialiste si ritrovino in Alleanza Nazionale…il trasformismo è un vecchio male dell’Italia”. Biagi, nel rispondere alle domande del giornalista conclude sulla questione dei valori, asserendo: “che, per quanto i valori di oggi non siano così evidenti come lo erano durante il periodo della Resistenza, restano sempre fondamentali: il rispetto degli altri, il tentativo di conciliare la libertà politica con la giustizia sociale… la tolleranza, il cercare di capire gli altri, il rispetto di sé e del nostro prossimo…tutte cose che noi possiamo realizzare nella vita di ogni giorno”.

3.5 – La Resistenza in TVvai a indice

Come avremo occasione di notare, nonostante la ricorrenza del cinquantenario del 25 aprile, lo spazio offerto dalla Televisione alla commemorazione non risulta essere all’altezza dell’avvenimento. Certo c’è da evidenziare la qualità di alcune trasmissioni di cui ci accingiamo a parlare, ma la messa in onda di queste in orari non in grado di attirare grandi quantità di pubblico televisivo (pomeriggio, seconda serata, notte) fa pensare a quanto sia difficile superare il concetto di TV commerciale anche nella Tv pubblica che commerciale non dovrebbe essere.

Tra queste “chicche” vi è un film documentario andato in onda il 23 aprile su rai tre alle 23.10. Il documentario in questione è: “25 aprile la memoria inquieta” del giovane regista Guido Chiesa e dello storico Giovanni De Luna. Del documentario troviamo traccia sia sul “il Manifesto” del 23 aprile, che sul “Corriere della Sera” del 26 aprile a firma del critico televisivo Aldo Grasso. Entrambi gli articoli elogiano il documentario che è un lavoro di montaggio su materiali di repertorio degli archivi Rai che aiuta a ricostruire il modificarsi dei climi politici e sociali nel susseguirsi delle ricorrenze celebrative degli anniversari del 25 aprile. Grasso scrive: “la memoria inquieta ci insegna che la Resistenza trasmessa dalla Rai in tutti questi anni è qualcosa che assomiglia più a uno sceneggiato, una saga tipo Piovra, che all’indagine storica… è una Resistenza, come ha scritto Gianni Riotta, che si è sparsa nella melassa antifascista dell’arco costituzionale…una Resistenza sbiadita nelle immagini dei Tg, dal tempo ma soprattutto dalla finzione e dalla retorica”.

La giornata commemorativa è iniziata con la diretta su Rai uno alle ore 11.00 della cerimonia per il cinquantesimo anniversario della Liberazione svoltasi all’Arena Civica di Milano alla presenza del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Sempre in diretta su Rai due alle 18.00 è stato trasmesso il concerto di musica sinfonica in onere delle celebrazioni del cinquantenario della Liberazione, organizzato dalla Rai presso l’auditorium del Lingotto di Torino. Su Rai due, prima della diretta da piazza Duomo per la manifestazione e la celebrazione ufficiale con il Presidente della Repubblica, è trasmesso uno “speciale 25 aprile” a cui hanno collaborato Sergio Zavoli, Giordano Bruno Guerri, Arrigo Petacco, Gianni Bisiach e Roberto Olla. È stata la volta, sempre su rai due in serata di Enza Sampò e Arnaldo Bagnasco che si sono trovati a condurre il programma “25 aprile, 50 anni dopo”, un grande contenitore per ripercorrere gli avvenimenti del 43-45 con testimonianze dei protagonisti, collegamenti con Alba, capitale di una delle repubbliche Partigiane, e Napoli per le rievocazione delle “quattro giornate di Napoli” affidata al regista Nanni Loy. All’interno del programma è stato sottolineato il ruolo fondamentale delle donne durante la Resistenza con interventi di Lucia Testori e Frida Malan. In studio erano presenti anche gli storici Rusconi, De Luna, De Felice, Scoppola. Il tutto con la proiezione del film di Roberto Rossellini “Roma città aperta”. Su Rai tre alle 9,00 è andato in onda il programma: “cinquant’anni dopo: guerra di Resistenza e Liberazione nelle regioni italiane”. Che è stato trasmesso alternando momenti a diffusione nazionale e speciali regionali. Alle 12.15, come tradizione, il “gran premio Liberazione” di ciclismo. Per ultimo, alle 03.20 della notte su Rai tre, è stato trasmesso il film: “la lunga notte del ‘43” (1960) di Florestano Vancini. Per quanto riguarda le televisioni private c’è da ricordare il film di Roberto Rossellini “Paisà” andato in onda su TeleMonteCarlo in prima serata e, in nottata alle 01.50, su Rete quattro il film di Carlo Lizzani “Achtung banditi!” (1951).

Per ultimo, il 26 aprile del 1995, apprendiamo da “la Repubblica” della messa in onda su Rai uno della prima puntata della trasmissione di Italo moscati e Sergio Tau “La ciociara e le altre” che è considerata da Gualtiero Pieride, il giornalista autore della recensione su “la Repubblica”, “una delle rarissime occasioni in cui la televisione approfondisce la realtà, anziché simularla, interroga sulla storia, anziché suggerire evasioni sull’attualità”. La trasmissione si occupa, attraverso reportage documenti e testimonianze, delle violenze e delle umiliazioni subite dalle donne tra il ’43 e il ’45.

Cap. 4 - 25 Aprile 1996vai a indice

4.1 – Il contesto politicovai a indice

Il governo Dini, che aveva traghettato il paese dopo le dimissioni di Berlusconi, cade l’11 gennaio. Il Presidente Scalfaro conferisce l’incarico di formare un nuovo governo all’On. Maccanico. Quest’ultimo, dopo una serie di consultazioni tra i partiti, rinuncia a formare il governo. Il clima politico è teso. La situazione politica del paese è in stallo. Il 15 febbraio il Presidente Scalfaro scioglie le Camere ed indice le elezioni per il 21 aprile. Ancora una volta, quindi, elezioni a cavallo della ricorrenza del 25 aprile. Prodi guida la coalizione vincente di centro sinistra denominata “Ulivo”, formata dai Progressisti democratici di sinistra, Rinnovamento Italiano, Partito popolare Italiano, Unione democratica e Verdi. Prodi e la sua coalizione dell’Ulivo avranno la maggioranza al Senato, mentre alla Camera avranno bisogno dei seggi di Rifondazione Comunista con la quale avevano stretto un patto non di alleanza ma di “desistenza” in alcuni collegi, impegnandosi entrambi a non presentare candidati in contrapposizione tra i due schieramenti. Il 17 maggio il Governo Prodi si insidia alla guida del Paese. La festa del 25 aprile si svolge quindi in un clima completamente diverso rispetto a quello di due anni prima: nel 1994 con la vittoria elettorale delle destre e la prima volta del Movimento Sociale al governo, con tutto quel che questo comportava; nel 1996 con la vittoria elettorale delle sinistre e la prima volta di esponenti comunisti tra i ministri del governo.

4.2 – La cronaca del 25 aprile 1996vai a indice

Mentre su “il Giornale” si susseguono gli allarmismi per l’avvento dei “marxisti” al potere (titolo della prima pagina del “Giornale” del 24 aprile), in tutta Italia si svolgono le manifestazioni celebrative del cinquantunesimo anniversario della Liberazione. Ancora una volta sotto la pioggia, a Milano sfilano circa cinquantamila persone in un corteo composito che partendo da Piazza Castello giunge fino a Piazza Duomo dove è organizzato il consueto raduno della autorità. Ai piedi del palco i gonfaloni dei comuni, i cartelli neri con la scritta dei campi di sterminio, un’infinità di bandiere e di cartelli con le più svariate scritte.

Subito dopo l’intervento del Sindaco di Milano Formentini, prende la parola Tino Casali, presidente dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (Anpi) che ricorda il valore politico della manifestazione e sottolinea l’importanza della vittoria elettorale delle sinistre del 21 aprile 1996. Poi è il turno di Giorgio Strehler chiamato in qualità di oratore dal comitato permanente antifascista milanese. Strehler, dopo avere ricordato gli eccidi commessi dai nazifascisti ha aggiunto: “riformare la Costituzione è un pericoloso atto politico”.

C’è inoltre da sottolineare il caso della Lega Nord. Nel 1994 il leader della Lega Nord Umberto Bossi, fu oggetto di fischi durante il corteo del 25 aprile al quale comunque partecipò. Nel 1995 le cose si ribaltarono e Bossi fu accolto da applausi. In questo 1996, nel quale la Lega inneggia sempre più alla propria “indipendenza padana”, si sono avuti tafferugli tra autonomi e un piccolo gruppo di leghisti che intendeva partecipare al corteo. Niente di grave, ma ritorna la disapprovazione della piazza del 25 aprile nei confronti della Lega.

Il Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro, dopo avere deposto due corone d’alloro all’Altare della Patria a Piazza Venezia a Roma, si è recato, come ogni anno, a rendere omaggio al Sacrario delle Fosse Ardeatine, dove tra il 23 e 24 marzo 1944 furono trucidate dai nazisti 335 persone.

Per quanto riguarda le altre città italiane, il Sindaco di Genova, Adriano Sansa, nella sobria cerimonia di palazzo Tursi ha ammonito: “La Resistenza oggi vuol dire memoria di quello che è successo, memoria senza rancori ma inflessibile, anche perché qualcuno ci ha proposto, proprio recentemente, ancora il fascismo come regime modello, come un buon regime”. A Bologna grande festa alla presenza delle autorità locali in Piazza Maggiore. Cerimonia solenne a Trieste presso la Risiera di San Sabba con il sindaco triestino Illy. A Brescia in Piazza della Loggia è intervenuto l’ex comandante dei GAP (Gruppi Armati Partigiani) e medaglia d’oro al valore militare Giovanni Pesce. L’on. Aldo Aniasi ex partigiano, nome di battaglia Iso, è intervenuto a Firenze insieme al sindaco della città Primicerio a conclusione del corteo celebrativo. A Palermo serata di festa musicale il 24 aprile e il giorno dopo le autorità capitanate dal sindaco Orlando deporranno corone di fiori alla Stele dei Caduti di Cefalonia[28]. Festa e manifestazione contro il razzismo a Catania. E poi ancora a Udine, a Napoli, a Reggio Emilia, a Modena, a Siena, a Parma, a Cagliari, a Venezia, a Torino.

Per quanto riguarda le “contromanifestazioni” inneggianti al fascismo c’è da ricordare che non sono mancate neppure quest’anno. Nel triestino, a Basovizza, alcuni attivisti del Movimento sociale-Fiamma Tricolore hanno manifestato con i soliti saluti romani e uno striscione con la scritta “onore ai caduti delle foibe”[29]. Nella provincia milanese sono stati dati alle fiamme nella notte due palchi approntati per le celebrazioni, tracciate svastiche sulle mura del municipio di Busto, bruciato il tricolore davanti alla caserma di Rho. Per ultimo, uno striscione con una grande svastica è stato affisso al ponte monumentale di Genova.

4.3 – Editoriali e commentivai a indice

Per quanto riguarda gli editoriali e i commenti del 1996 sono praticamente tutti rivolti all’analisi del voto del 21 aprile e alle sue ricadute politiche. Il 25 aprile rimane così decisamente in ombra in controtendenza a quanto era invece accaduto nei due anni precedenti. Pare che la vittoria del centro sinistra tolga, in qualche modo, l’attenzione sulla data celebrativa della Liberazione italiana dal nazifascismo. La ricorrenza ritorna quindi ad essere una celebrazione che non appassiona più di tanto i mezzi informativi come, d’altra parte era stato per tutti gli anni ’80 e per i primi anni ’90 fino all’eccezionale risveglio del 1994.

Prendiamo comunque in analisi alcuni interessanti spunti da “il Giornale” e da “il Corriere della sera” nella loro rubrica dedicata alla corrispondenza dei lettori. Ne “il Giornale” del 25 aprile una lettrice da Genova si infiamma sulla presunta commemorazione “a senso unico” del Presidente della Repubblica Scalfaro. La lettrice lamenta l’assenza di “quell’individuo che risponde al nome di O.L. Scalfaro” da qualunque cerimonia che riguardi il ritorno dei resti mortali dei nostri alpini in Russia. La lettrice se la prende anche con “quel triste figuro che fu Palmiro Togliatti” reo, a parere della lettrice, di non essere intervenuto, nonostante si trovasse in Russia “per salvarsi la pelle”, a favore degli alpini italiani, in quanto il fatto di lasciarli al loro destino avrebbe giovato alla causa comunista. La lettrice continua chiedendosi: “perché questi nostri eroi sono grandi dimenticati, mentre secondo il Presidente Scalfaro, soltanto i partigiani sono degni di essere onorati?”. Se la lettera, per quanto assurda possa apparire, può anche essere giustificata in virtù di storie e drammi personali (la lettrice si identifica come sorella di un alpino allora ventenne caduto in Russia), la risposta di P.G. (presumibilmente Paolo Guzzanti) è decisamente sorprendente. P.G. infatti cita la risposta di Nikita Kruscev, l’allora presidente dell’URSS, all’allora Presidente Italiano Gronchi che chiedeva (timidamente) lumi sui militari italiani caduti in Russia. Nella risposta Kruscev sottolineò, secondo P.G., che la guerra ha causato la morte di due milioni di compagni e che quindi qualche migliaio di italiani non erano così importanti. P.G. mette in relazione questa risposta con il presunto atteggiamento univoco di Scalfaro, sul quale fa ricadere l’indifferenza per coloro i quali combatterono “in grigioverde e non con il fazzoletto rosso al collo”.

Per quanto riguarda il “Corriere della sera” concentriamo l’attenzione sulla risposta di Indro Montanelli ad una lettera di un lettore di Firenze pubblicata il 25 aprile. Il lettore fa parte del Consiglio Centrale dell’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione inquadrati nei reparti regolari delle Forze Armate. Il lettore centra la sua corrispondenza su presunte omissioni storiche nei confronti dei così detti “badogliani”, coloro cioè, che militarono tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 in quel che rimaneva dell’Esercito Italiano. Il lettore chiede a Montanelli di approfondire il discorso sui valori per cui combatterono i “badogliani”, che non offrirono la loro vita per il Re o per Badoglio ma, a parere del lettore, per difendere la perdita dei valori di Patria, Onore, Nazione. Verità, queste, che il lettore crede nascoste dalla storiografia della Resistenza. Montanelli, che prima di essere stato “badogliano”, nella sua più verde età, partecipò volontario alla guerra di Etiopia con l’esercito fascista, si dice d’accordo con il lettore a proposito dei motivi che lo spinsero a schierarsi dalla parte dei militari “badogliani” e cioè la difesa della Patria e della Nazione, ma considera proprio questo l’elemento che contribuì a mettere “fuori gioco i badogliani”. Montanelli pensa, infatti, che quei valori erano già “fuori gioco”, in quanto abusati e inflazionati per oltre vent’anni dal duce e dai suoi gerarchi. Montanelli, dichiarando che “la storia della Resistenza ormai è scritta e che è impossibile che venga revisionata nel senso che io (Montanelli) e lei (il lettore) vorremmo”, dice “chi sottovaluta o ignora il contributo dei “badogliani” alla Resistenza, commette un falso…cerchiamo di non commetterne uno anche noi sopravvalutandola…sia prima che dopo l’8 settembre…, a parte i soliti eroici episodi individuali o di piccolissimi reparti, la nostra guerra onorò poco, e in alcuni casi disonorò i valori di Patria e di Nazione”[30].

4.4 – Le intervistevai a indice

Anche per quanto riguarda le interviste, il 1996 risulta essere decisamente avaro rispetto agli anni precedenti. Ne prendiamo in considerazione due, entrambe da “il Manifesto”. La prima è a cura di Paolo Griseri che intervista Nuto Revelli pubblicata da “il Manifesto” del 2 aprile. Anche in questa intervista il discorso verte sulla situazione politica e sulla vittoria del centro sinistra nelle elezioni del 21 aprile, argomento, questo, che riempie ovviamente tutti i giornali. Revelli, oltre a rispondere alle domande del giornalista a proposito del nuovo clima politico del paese, parla della festa della Liberazione e dice: “dedicherei la vittoria elettorale del centro sinistra al 25 aprile, che è la festa della nostra libertà…questo anniversario della Liberazione deve essere di forte impegno, dobbiamo stare attenti a non fare errori…non dobbiamo credere che la vittoria sia eterna..è stata una vittoria ancora fragile che dovremo saper gestire e consolidare”. Se alla luce dei fatti che seguiranno nel corso degli anni, queste parole possono sembrare profetiche, dette da un ex-partigiano acquistano anche un senso di saggezza e di prudenza di coloro i quali hanno messo in gioco la propria vita nella lotta partigiana, hanno esultato per la sconfitta del nazifascismo cinquant’anni fa e hanno poi visto disilluse alcune speranze per le quali si erano battuti. Dell’intervista a Revelli estrapoliamo un’ ultima risposta: alla domanda del giornalista su come sia spiegabile la vittoria della Lega Nord a Cuneo, dove l’ex partigiano vive, la risposta è: “Nella provincia di Cuneo la Democrazia Cristiana ha avuto per 40 anni un dominio quasi assoluto…al referendum del ’45 qui ha vinto la monarchia…per decenni lo spauracchio del comunismo è servito a mantenere il consenso alla D.C….i comunisti erano i sovietici che trattenevano i 6500 dispersi nella campagna di Russia…una strumentalizzazione sulla quale i democristiani hanno giocato per decenni [ e sulla quale, anche se molto timidamente giocano ora le forze del centro destra; vedere nel paragrafo 4.3 la lettera pubblicata da “il Giornale”] …le responsabilità della tragedia non erano del fascismo che aveva mandato gli alpini in Russia, ma dei sovietici”.

La seconda intervista sempre tratta da “il Manifesto”, questa volta del 25 aprile, è a Cesare Bermani, un ricercatore storico “tra i più decisi nel fare le pulci alle ricostruzioni conciliatorie, accomodanti, neutrali, partendo dai suoi studi sulla Resistenza”. Gli studi di Bermani si basano sulla storia orale raccontanta dai testimoni degli avvenimenti. Per ricostruire la storia di una sola brigata partigiana della Valsesia, Bermani ha raccolto oltre 200 testimonianze per poi incrociarle alle fonti scritte documentali. La prima parte dell’intervista s’incentra sulla diatriba tra storia ufficiale e storia orale. A parere di Bermani il lavoro fatto sulle fonti orali tocca solo qualche punto del territorio nazionale. Inoltre Bermani aggiunge: “la ricerca dal basso faceva saltare alcuni luoghi comuni e visioni ossificate sulla Resistenza…rompeva le scatole ai politici”. Bermani continua dichiarando notevoli dubbi sui quadri interpretativi della storia della Resistenza. A proposito della definizione di “guerra civile”, Bermani dice che fino al 1965 tutti i dirigenti della Resistenza ne parlavano apertamente in questi termini: “a partire da Togliatti che vara l’amnistia proprio con questa motivazione…Luigi Longo in un intervista sui fatti di Piazzale Loreto dice che in una guerra civile queste cose possono succedere”. Bermani ricorda che durante una sua ricerca per fare un opuscolo commissionato dall’Anpi di Grinasco, verificando di persona che era necessario trovare altre categorie interpretative per raccontare la storia della Resistenza. Dice, per esempio, che a Milano emergeva “un quadro di assoluto scollamento tra la linea di Salerno e la realtà del movimento di massa, per cui poi si capiscono la Volante rossa e altre cose”. Bermani sull’altro fronte dice: “Borghese, capo della X Mas, viene assolto nel ’49, salvato dagli americani, al punto che poi diversi gruppi della X vengono inglobati in Gladio”.E ancora: “un momento decisivo della mancanta rottura di continuità col fascismo è il caso di Guido Leto, capo dell’Ovra (servizi segreti fascisti), che fu poi incaricato di formare tutti i poliziotti italiani”. Bermani conclude asserendo che si siano verificate in questi cinquant’anni forme di consociativismo storiografico che hanno portato ad ammorbidire posizioni di entrambe le parti per trovare formule comuni di lettura della storia della Resistenza, rendendo la politica culturale del movimento operaio prevalentemente “celebrativa” e totalmente subalterna alla cultura ufficiale.

4.5 – La Resistenza in Tvvai a indice

Se per il cinquantenario della Liberazione abbiamo notato una televisione “distratta” ma comunque presente nel celebrare l’anniversario, per quanto riguarda questo 1996 possiamo dire che la programmazione televisiva a riguardo della cinquantunesima commemorazione sia prossima allo zero. Se le televisioni Mediaset hanno completamente snobbato la ricorrenza, la Rai non ha fatto molto di più. Da segnalare c’è qualcosa solo nella programmazione notturna.

Il 24 aprile su Rai tre a partire dalle 02.10 della notte, all’interno del contenitore: “ma la notte…percorsi della memoria”, i più notturni tra i telespettatori hanno potuto assistere al documentario del 1974: “I giorni della nostra storia (l’Italia firma l’armistizio – I re e i generali sono fuggiti a Brindisi)”; al film del 1962: “il mondo è una prigione”; ad un altro documentario: “la donna della Resistenza” del 1965.

Il 25 aprile su Rai uno alle 01.15 della notte è trasmesso il film del 1960: “la lunga notte del ’43”. Nella stessa data l’unico avvenimento televisivo trasmesso durante il giorno è “il 51° Gran premio della Liberazione”, consueta manifestazione sportiva di ciclismo andata in onda alle ore 12.15 su Rai tre. Sempre su questa rete, durante la notte, a partire dalle ore 03.00 il film documentario “I giorni della nostra storia (I soldati italiani nelle prigioni di Hitler – Da Salò al 25 aprile)”.

Per quanto riguarda il 26 aprile da elencare ancora una volta esclusivamente la programmazione notturna di rai tre, sempre con “I giorni della nostra storia” incentrata, questa notte, sulla Resistenza: “Le repubbliche partigiane – sulle rocche si amministra la Libertà – La Resistenza diventa governo – dalle valli verso la Liberazione”.

Conclusionivai a indice

Lo scopo della ricerca, come abbiamo preannunciato nell’introduzione era quello di verificare, alla luce dei mutamenti del quadro politico del Paese, in quale direzione fosse orientato “l’uso pubblico della storia” attorno al 25 aprile.

L’uso pubblico della storia, definito da un lato dai suoi rapporti con il mondo della politica e dall’altro da quelli con i mezzi di comunicazione di massa, è divenuto elemento essenziale ed imprescindibile del lavoro dello storico[31]. Per quanto Habermas e Le Goff insistano sulla distinzione tra “la storia degli storici”, soggetta a proprie regole scientifiche garanzia di autonomia e credibilità, e “memoria collettiva”, vista essenzialmente come il luogo in cui i mass media costruiscono e fanno circolare una visione mitica del passato densa di tradizioni inventate e di vulgate propagandate dal potere politico, in realtà non sembrano esistere confini netti e gerarchie scontate tra la ricerca storico-scientifica e il mercato editoriale[32].

Con l’avvento dei mass media la commistione tra i due modi di “fare storia” genera una gigantesca arena nella quale confluiscono i mezzi di comunicazione di massa, le arti, la letteratura, i luoghi come la scuola, i musei storici, i monumenti, le istituzioni formalizzate quali sono i partiti, le associazioni culturali, i gruppi religiosi; tutti questi soggetti sono in grado di fornire una lettura della storia a partire dalla memoria del gruppo rispettivo[33]. La memoria del gruppo d’appartenenza e la lettura storico scientifica degli avvenimenti del passato s’intrecciano fino a generare un “eterno presente” che modella un passato di comodo per impedire qualsiasi alternativa a sé nel futuro[34].

Non sfugge a questa logica il discorso pubblico a riguardo della festa di Liberazione, anche se il ritorno alle grandi mobilitazioni popolari registratesi nel 1994 e 1995 in concomitanza dell’accesa contingenza politica (vittoria elettorale delle destre prima e caduta del governo Berlusconi poi), ruppe la routine celebrativa e la crescente spettacolarizzazione del 25 aprile che, dalla fine degli anni settanta, aveva reso marginale i contenuti civili e culturali della celebrazione.

Il 1994, dunque, come ritorno ad una “politicizzazione della festa” densa non solo di contenuti celebrativi e retorici, ma anche di partecipazione popolare eterogenea e “resistenziale” in continuità con quello che era stata la festa del 25 aprile nei primi due anni della sua celebrazione e poi per tutti gli anni ’60 e la prima metà degli anni settanta.

A partire dal 1993 e ancor più da dopo le elezioni del 27/28 marzo 1994, il concetto di antifascismo e le forze politiche che in esso si riconoscono non hanno più senso di esistere, a parere dei post fascisti, proprio perché il fascismo è morto e sepolto. Per portare il paese ad una nuova modernità, la destra italiana vincitrice delle elezioni del ’94, propone di superare l’antitesi fascismo – antifascismo, propone di riconciliare la memoria dei morti da entrambi le parti, propone di rivalutare “gli aspetti positivi dell’epoca mussoliniana”, propone di riconsiderare i propri meriti quale forza che ha tentato con preveggenza d’impedire la svolta bolscevica". La nuova coalizione di governo propone in sintesi di riscrivere la storia sull’onda della proposta Craxiana degli anni ’80 di riforma Costituzionale del Paese che “riveda e revisioni” quel documento fondante del Paese scritto a più mani da coloro che alla resistenza parteciparono attivamente.

Dall’altra parte, le sinistre uscite sconfitte dalle elezioni del ’94, ritrovavano coesione proprio concentrandosi sulla resistenza comune nei confronti dei tentativi di smobilitazione Costituzionale che le destre al potere paventano.

La giornata del 25 aprile ridiventa occasione di scontro politico tra coloro che ne chiedono quantomeno un cambiamento nel significato (giorno dedicato alla pacificazione nazionale, alla commemorazione della fine della guerra, alla lotta contro ogni totalitarismo), se non una cancellazione di fatto dal calendario celebrativo e coloro che ne esaltano nuovamente i contenuti politici e sociali, connotando nuovamente la festa a difesa dei valori democratici e costituzionali che parevano essere messi in pericolo dalla nuova ondata “revisionistica” legittimata dalla consacrazione al potere degli eredi del Partito fascista.

La festa del 1994 sembra essere la vera celebrazione del cinquantesimo anniversario della Liberazione. Fiumi di persone in cortei tenutesi in tutta Italia come da tempo non si vedeva più. Resta da stabilire se ciò sia dovuto alla spontaneità popolare, allo stimolo generato dalle associazioni partigiane e da sentimenti di natura “resistenziale” o fu una nuova mobilitazione di stampo politico dei partiti usciti sconfitti dalle elezioni del marzo del 94. Probabilmente le due cose s’intrecciano: la classe politica del centro sinistra dimostra di essere ancora in grado di mobilitarsi attorno ad ideali in grado di fare breccia tra una vasta fetta di popolazione; e tra le genti di più di una generazione, anche molto distanti da quelle in via di sparizione che hanno effettivamente partecipato alla “guerra civile”, c’è una gran voglia di ribadire i valori e gli ideali “resistenziali” di democrazia, tolleranza, civiltà.

Questi valori sono ormai patrimonio della grande parte della popolazione italiana o rimangono gelosamente conservati dalla generazione che partecipò e visse in prima persona la Resistenza? E ancora: le forze politiche sono ancora in grado di riconoscersi in quei valori fondanti? Oppure quei valori sono utilizzati strumentalmente, una volta dagli uni e una volta dagl’altri al fine della conservazione del potere, o della legittimazione politica?

Certo, se riguardiamo l’iter di cinquant’anni di celebrazioni del 25 aprile, ci accorgiamo facilmente che in un modo o nell’altro la festa ha sempre subito condizionamenti legati ai momenti politici e sociali che il Paese stava vivendo; quindi non fa eccezione il 1994 e l’avvento al governo del Paese di una forza politica che si richiama al fascismo e la conseguente grande mobilitazione popolare che sembra rimanere comunque ancorata al concetto di antifascismo nonostante le destre s’impegnino, nel discorso pubblico attorno alla storia, a sostituire questo concetto con un più astratto “antitotalitarismo”.

Nel 1995 si celebra, con grande enfasi retorica e partecipazione popolare, il cinquantesimo ufficiale della festa di Liberazione. Il clima politico è cambiato, le destre sono “cadute” dal Governo del Paese, ci si riprepara ad nuova tornata elettorale, mentre la colazione compie sacrifici per l’aggiustamento dei conti pubblici in previsione dell’entrata in un nuovo soggetto politico sovrannazionale: l’Europa.

Le destre deluse dal loro insuccesso politico e dal mancato raggiungimento della “pacificazione e riconciliazione” nazionale (che significava poi riscrizione della storia attribuendo ad entrambe le parti, partigiani e fascisti, meriti e torti e riabilitazione del fascismo, distinto dal nazismo, in una sorta di legittimazione per il Movimento sociale), ritornano a farsi aggressive dal punto di vista mediatico (Buscaroli su Il Giornale). Dall’altro canto a sinistra si cerca di mediare sulle posizioni storiche e si esalta il ruolo di Benedetto Croce (cronaca di Napoli del 95).

Nel 1996 la festa della Liberazione sembra essersi di nuovo ridimensionata e lasciata celebrare quasi esclusivamente alla generazione di ex partigiani e alle loro associazioni. Il clima politico è radicalmente opposto a quello del 1994, il centro sinistra ha vinto le elezioni. I giornali di destra paventano il “pericolo marxsista”, la piazza è concentrata sulla vittoria elettorale e sulle speranze che in essa si ripongono. L’attenzione dei quotidiani è incentrata sul quadro politico e la celebrazione perde quella connotazione “resistenziale” che aveva riassunto nel 1994, come se non ce ne fosse quasi più necessità, visto che il Paese aveva riassunto una connotazione politica che non destava più preoccupazione sul piano della continuità Costituzionale.

Questo cambiamento di atteggiamento sembra suggerire una risposta alla domanda che in precedenza ci si era posti sull’uso più o meno strumentale dei “valori e della memoria resistenziale” in funzione di aspirazioni politiche e di legittimazione del consenso anche da parte di quei partiti che si riconoscono in quei valori e in quella memoria. Se, infatti, è evidente l’operazione tentata dal centro destra di svincolo dalla memoria del Paese dei “valori resistenziali ed antifascisti” realizzatasi con l’avvento al potere nel 1994 per una legittimazione del Movimento sociale nuovamente in auge nel quadro dirigenziale del Paese, risulta altrettanto ambigua la “debolezza celebrativa” del 1996 allorché a giungere al potere è quella classe dirigente che solo due anni prima mobilitava la piazza in funzione antifascista.


[1] Cfr., G.E. Rusconi, Resistenza e postfascismo, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 7.

[2] Cfr., F. Focardi, La guerra della memoria, Editori Laterza, Bari, 2005, p.4.

[3] Cfr., F. Focardi, op. cit., p.4.

[4] Cfr., Per esempio, T. Sala, Guerra ed amministrazione in Jugoslavia 1941/1943: un’ipotesi coloniale, in B. Micheletti, P.P.Poggio (a cura di) L’Italia in guerra 1940-1943, Fondazione Luigi Micheletti, Brescia 1992, pp.83-94; T. Ferrenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Istituto friulano per la storia del movimento di Liberazione, Udine, 1994; E. Collotti, Sulla politica di repressione italiana nei Balcani, in L. Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, La Nuova Italia, Firenze, 19897, pp. 181-208; C.S. Capogreco, Una storia rimossa dell’Italia fascista. L’internamento dei civili jugoslavi (1941-1943), in “Studi Storici”, XLII, gennaio-marzo 2001, 1, pp. 203-230.

[5] F. Focardi, op. cit., pp.8-18.

[6] E’ chiamata “svolta di Salerno” la decisione di Togliatti, segretario del Partito Comunista Italiano, di togliere la pregiudiziale antimonarchica al fine di collaborare con Casa Savoia nella lotta contro tedeschi e fascisti.

[7] L’8 giugno 1946, per festeggiare la vittoria della Repubblica, Togliatti, allora ministro della Giustizia, annunciò l’amnistia per i reduci di Salò per mezzo della quale nelle prigioni, dei circa quarantamila reduci di Salò ne rimasero quattromila alla fine del ’46.Usciranno quasi tutti tra il ’48 e il ’49.

[8] L’Asse rappresenta l’alleanza tra Berlino e Roma.

[9] F. Focardi, op. cit., pp. 19-21.

[10] F.G. Conti, I prigionieri di guerra italiani (1940-1945), Il Mulino, Bologna, 1986.

[11] Gli effetti della divisione di campo prodotti dalla guerra fredda si concretizzarono nel maggio del 1947 con l’esclusione di comunisti e socialisti dal governo e con l’aspra campagna elettorale per le elezioni del 1948. Si veda G. De Luna, Il 18 aprile, in M.Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Personaggi e date dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 319-332.

[12] F. Focardi, op. cit., pp.26-27.

[13] A. D’Angelo, De Gasperi, le destre e “l’operazione Sturzo”, Studium, Roma, 2002.

[14] Cfr., M. Ridolfi, Le feste nazionali, Il Mulino, Bologna, 2003, pp. 218-221.

[15] F.Focardi., op. cit., p.47.

[16] Cfr., P.Ginsborg, L’Italia del tempo presente. Famiglia, società civile, Stato 1980-1996, Einaudi, Torino, 1998, pp. 257 sgg.

[17] Cfr., F.Focardi, op. cit., p. 57.

[18] Cfr., G.De Luna, La passione e la ragione, B. Mondatori, Milano 2004, pp. 78-79.

[19] Cfr., F.Focardi, op.cit., pp. 74-75.

[20] Cfr., G.Pesce, Senza tregua: la guerra dei GAP, Feltrinelli Editore, Milano, sesta edizione 2005, pp.7-10.

[21] Dopo il saggio di R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1953, è stato necessario aspettare quasi quarant’anni prima che uno storico si cimentasse con un’altra storia generale della Resistenza, appunto la preziosa opera di C. Pavone: “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza”, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Nel saggio in questione Pavone traccia la mappa che, a suo dire, descrive “le tre guerre” che si sono combattute in Italia dopo l’8 settembre 1943: una guerra di patria contro gli invasori, una civile contro i fascisti, una di classe contro il capitale.

[22] Cfr., E. Forcella, La Resistenza Italiana nei programmi della Rai, Rai VQPT, Rai-Eri, Roma 1996, p.17.

[23] Cfr.. G.De Luna, op.cit. p.239-246; per u ulteriore approfondimento critico della Tv come agente di storia: cfr., L. Gervereau, Les images qui mentent, Editions du Seuil, Paris 2000.

[24] Cfr., E. Forcella, op. cit.

[25] Cfr., G.E. Rusconi, op. cit.

[26] Quotidiano organo d’espressione prima del Movimento Sociale e poi di Alleanza Nazionale.

[27] Sul “Secolo d’Italia” del 25 aprile 1995 sono comunque presenti articoli che contestano anche duramente la ricorrenza “antifascista” della giornata simbolo della Liberazione (per esempio di Aldo Giorleo: “la verità storica oltre la retorica”), ma in maggioranza la scelta editoriale del quotidiano si concentra sull’iniziativa della cosi detta’ “riconciliazione”: “Un 25 aprile di riconciliazione; Un popolo unito nel dolore:testimonianze dei condanni a morte della Rsi e della Resistenza; 25 aprile cerimonia di riconciliazione; Così dimostrammo il nostro amore per l’Italia: raccontati gli ideali e le passioni dei due fronti opposti”, questi alcuni titoli apparsi sul “Secolo d’Italia” del 25 aprile 1995.

[28] Cefalonia è un isola Greca del mediterraneo nella quale si trovava la divisione Acqui dell’Esercito Italiano che fu sterminata dall’Esercito Tedesco all’indomani dell’8 settembre. Nella notte tra il 13 e il 14 settembre del ’43 viene tenuto un tumultuoso plebiscito in cui tutta la divisione rinuncia a consegnare le armi ai tedeschi e si pronuncia per la lotta contro il “nuovo nemico”. In un momento di completo sbandamento delle autorità centrali, sono direttamente i soldati semplici e gli ufficiali inferiori a prendere l’iniziativa e ad “innescare la rivolta”. Alla fine, tra lo sgomento dei tedeschi che non riescono a capire come i soldati italiani preferiscano la morte ad un “possibile ritorno a casa”, la divisione Acqui viene completamente distrutta. Saranno 8400 i caduti di Cefalonia, quasi tutti fucilati dopo essersi arresi allo strapotere militare tedesco. Cefalonia, in quanto episodio di Resistenza Militare, fu evento strumentalizzato da più parti e in un primo momento escluso dalla “vulgata Resistenziale ufficiale”, nella quale però trovò una propria connotazione nella considerazione che si trattava di un episodio di ribellione militare e popolare al contempo che partiva appunto “dal basso”, da quei giovani che pur rischiando e perdendo la propria vita, difesero la propria dignità e con essa quella della loro “Patria”. L’episodio di Cefalonia contribuì notevolmente a rappresentare le Forze armate Italiane, nel corso del tempo, in maniera non del tutto omogenea rispetto a quell’immagine che la maggioranza della popolazione aveva dei militari sul suolo Italiano; un’immagine che era quanto di peggio e di più deprimente si potesse immaginare: i generali che scappavano, i soldati abbandonati alla cattura da parte dei tedeschi.

[29] Le Foibe (cioè le cavità carsiche delle montagne al confine tra l’Italia e la Slovenia, nelle quali sono stati gettati i cadaveri del “nemico”, fosse esso prima il partigiano antifascista sloveno e poi il collaborazionista fascista italiano o yogoslavo) sono state un argomento che, come dimostra l’episodio citato della manifestazione del Movimento Sociale, è stato preso a simbolo della violenza esercitata dagli antifascisti dopo la fine della guerra nei confronti dei vinti. A contribuito a questo una certa “dimenticanza” nel trattare l’argomento da parte della “vulgata Resistenziale”, ma certo è che le Foibe siano divenute nel tempo un argomento sul quale basare diverse opinioni “revisionistiche” nel senso peggiore del termine.

[30] per approfondire quale fu il ruolo dell’esercito “badogliano” vedere R. Battaglia, Storia della Resistenza Italiana, Op. cit. cap.4, paragrafo “la Resistenza delle Forze Armate nel territorio nazionale”.

[31] G. De Luna, op. cit., pp. 69-70

[32] Ivi, p. 71

[33] Ivi, p.73

[34] Cfr. G. Santomassimo, “Revisionismo” e non solo, in La Rivista del Manifesto, anno II N°12, Roma dicembre 2000

Patrizio Mirra
Milano, 20 ottobre 2005