Disegno di Pablo Picasso
Prima, nel XX secolo, tutto era più facile. Se uno difendeva la dittatura di Francisco Franco era un fascista e se aveva un giudizio negativo della stessa era un antifascista. Dentro dell’una o dell’altra categoria si riconoscevano tutti o quasi tutti. Nella seconda di queste, la democratica, si ritrovava uno spettro ampio della società che andava dai liberali fino agli anarchici. Ovviamente, all’interno del dibattito storiografico, le valutazioni non potevano limitarsi ad espressioni di plauso o ripudio ad un regime che per 39 anni portò infiniti lutti agli spagnoli. Ma le differenze all’interno dell’ampio fronte antifascista erano soprattutto sfumature rispetto ad un giudizio storico condiviso e nettamente negativo.
Le questioni storiografiche principali concernenti il regime di
Franco sono consolidate e difficilmente questionabili. Il 18 luglio
1936 Francisco Franco scatenò una cruenta guerra civile contro il
legittimo governo repubblicano. Con l’aiuto di Adolf Hitler e Benito
Mussolini, instaurò una delle più sanguinose dittature della storia.
Gli stessi franchisti ammettono 30.000 esecuzioni in tempo di pace. In
realtà i fucilati e i garrotati (strangolati orribilmente) furono tra i
100.000 e i 200.000. Franco passò la vita firmando condanne capitali. Le
ultime cinque, quelle del “processo di Burgos”, furono eseguite appena
un mese prima della sua morte. Per 39 anni il suo regime
clerico-reazionario, non superò mai la divisione tra i vincitori, i
suoi, e gli sconfitti. Fu appoggiato dalla più conservatrice chiesa
cattolica al mondo e poi - quando già Hitler e Mussolini non potevano
più aiutarlo - dagli Stati Uniti. I difensori della democrazia contro il
totalitarismo sovietico, in epoca di guerra fredda, non trovarono
nessuno migliore di Franco che incarnasse l’Occidente capitalista e
cristiano nello scacchiere iberico. Il suo straordinario accanimento
contro le classi popolari, e specialmente contro la classe operaia,
causò alla Spagna un ritardo di sviluppo tra i 15 e i 20 anni, oltre ad
un decennio di vera carestia.
Anche il giudizio storico sulla II
Repubblica spagnola è consolidato. Questa, nonostante le tensioni e
divisioni che generarono episodi di violenza, restò una democrazia
rappresentativa e multipartitica fino all’ultimo giorno. Le Brigate
Internazionali, chiamate a difenderla rappresentavano la migliore
gioventù dei cinque continenti. La stessa che subito dopo fu
protagonista dell’epopea democratica della Resistenza al nazifascismo.
Dunque Franco era, e restò tutta la vita, un simbolo antidemocratico.
Antidemocratici erano tutti i suoi sodali, dalla Falange, il partito
simil-fascista, fino all’Opus Dei, il contenitore cattolico della
classe dirigente complice della dittatura. Al contrario gli oppositori,
dai liberali fino alla sinistra radicale, si riconoscevano nei valori
dell’antifascismo e in grande maggioranza anche nella democrazia
rappresentativa, come testimoniano figure come il Presidente della
Repubblica, Manuel Azaña.
LA PIETRA MILIARE DELL’ANTIFASCISMO negli ultimi anni ha perso
centralità. Non solo nel dibattito politico, ma nella stessa cultura
occidentale. Oggi, per gli intellettuali che aspirano a far carriera,
specialmente nei mezzi di comunicazione di massa, è indispensabile fare
un costante esercizio d’indipendenza di giudizio che sempre più spesso
si estende alla rinuncia alla pregiudiziale antifascista.
L’indipendenza di giudizio in sé è cosa positiva. Ma quella che è
emersa una volta di più nel dibattito sui trent’anni dalla morte di
Franco, è spesso un’indecente presa d’equidistanza tra franchismo e
democrazia, in senso più ampio tra fascismo e antifascismo. Altri
esempi non mancano. Tale equidistanza disarticola le basi della
convivenza democratica in due processi diversi. Da una parte impone
un’abiura strisciante dell’antifascismo, considerato uno strumento
incompatibile con una reale indipendenza di giudizio. È chiaro che ciò
comporta il corollario di una riabilitazione mascherata del fascismo.
Dall’altra parte, già che i fatti sono conosciuti e consolidati, così
come pure il giudizio storico complessivo, e non c’è alcun bisogno di
prescindere dall’antifascismo per studiare le fonti in maniera
obbiettiva, per superare le ragioni dell’antifascismo stesso è
necessario manipolare la realtà fino a dare un poco –o molta- ragione a
chi ragione non ebbe mai.
Così, per affermare che Franco fu un
dittatore e un assassino, bisognerà ospitare necessariamente l’altra
campana, perché ci spieghi che in realtà Franco salvò la Spagna dal
comunismo. Se i fascisti uccisero, è obbligatorio aprire un siparietto
per ricordare costantemente che anche gli antifascisti uccisero. La
conseguenza è scoperta: far entrare tutti in un calderone dove ragioni
e torti si perdono. Per arrivare a questa moderna equidistanza è
necessario manipolare storia e storiografia: dell’esperienza
repubblicana vanno esaltati i difetti. Allo stesso tempo vanno
minimizzati e giustificati i crimini del franchismo. Qualcuno al quale
farlo difendere si troverà sempre, come in questi giorni testimonia la
resurrezione di quel vecchio fascista di Manuel Fraga, spacciato come
autorità e memoria storica del franchismo per il solo fatto che la
giustizia verso di lui e verso i franchisti non abbia avuto la forza di
fare il suo corso.
La caduta della centralità dell’antifascismo comporta conseguenze
preoccupanti non soltanto nel dibattito intellettuale. La “teoria dei
totalitarismi” – un contributo molto importante - aveva come limite
l’esaltazione delle similitudini tra nazismo e stalinismo, sminuendo le
differenze tra le due ideologie. Il fatto che il franchismo – come le
dittature latinoamericane d’altra parte - non si coniughi nello schema
totalitario, genera conseguenze perverse: se il comunismo fu
totalitario come il nazismo nella vulgata odierna tutto quello che non
è totalitario sarebbe più vicino alla democrazia. Senza la bussola
dell’antifascismo, il dibattito politologico, non solo rispetto al
franchismo ma anche rispetto alla stessa modernità, prende cammini
pericolosi sia nel campo liberale come in quello della sinistra più o
meno radicale. Entrambi gli schieramenti convissero, anche se con
difficoltà, nel campo antifascista. Oggi paradossalmente si trovano in
campi contrapposti ancora di più che prima della caduta del muro di
Berlino. Paradossalmente perché, quando il comunismo rappresentava un
pericolo concreto per i liberali, queste due espressioni del pensiero
occidentale si riconciliavano nell’antifascismo che è stato patrimonio
comune delle democrazie occidentali nel dopoguerra. L’allontanamento
temporale dal fascismo classico, la fine della guerra fredda e
l’acquisizione da parte dell’ideologia neoconservatrice statunitense di
alcuni tratti chiaramente totalitari oltre che imperialisti, fanno sì
che il campo liberale smetta di considerare l’antifascismo prioritario
e possa debordare a destra senza limiti.
Nello stesso campo liberale
ciò si esplicita nell’appoggio acritico alla politica aggressiva degli
Stati Uniti da una parte e dello stato d’Israele nel suo contesto
specifico. Va però affermato che la perdita di centralità
dell’antifascismo comporta il rischio di pericolosi slittamenti anche
nella sinistra, più o meno radicale. Anche questa, se la stella polare
dell’antifascismo sparisce dal dibattito rischia di trovarsi spesso
senza punti di riferimento. Ciò si esplicita –in maniera uguale e
contraria al campo liberale- in alcune coincidenze nel giudizio
rispetto all’ultradestra neo e post-fascista che dal proprio ghetto
ideologico si oppone tanto agli Stati Uniti come –con plurisecolare
infamia- ad Israele. Tali coincidenze si ritrovano tanto in alcuni
tratti della critica all’impero anglosassone ed al capitalismo
globalizzato. Si ritrovano anche nella recettività e nell’introduzione
gradualmente più marcata di pregiudizi antisemiti – da sinistra - nella
radicalità spesso acritica del giudizio alla politica dello stato
d’Israele. Questo non merita indulgenze ma avendo come punto fermo
– proprio perché di Israele si tratta e la storia dell’antisemitismo non
è cancellabile - la continua autoanalisi sul confine tra giudizio e
pregiudizio. È aberrante, ed è solo un esempio, l’enorme circolazione
da sinistra di pregiudizi antiebraici rispetto a fatti indimostrabili
ed indimostrati, accaduti a Nuova York l’11 settembre 2001. Se liberali
e sinistra continuassero ad avere un terreno comune almeno
nell’antifascismo, tutti i pericoli elencati non si presenterebbero.
Purtroppo il mondo corre più veloce e le pietre miliari, anche quella dell’antifascismo, sembrano fatte per restare indietro. Tra vittima e carnefice l’intellettuale post-ideologico del XXI secolo non pensa che sia conveniente scegliere. In questi giorni una gran messe di intellettuali – anche di sinistra - solidarizzano con David Irving, lo storico negazionista. Questi da vari decenni, con argomenti risibili e repellenti, nega l’Olocausto e la settimana scorsa è stato arrestato in Austria per il crimine di “apologia del nazismo”, del quale è sicuramente colpevole. I costituenti che negli ordinamenti dell’Europa del dopoguerra considerarono l’apologia del nazismo o del fascismo come un crimine avevano buone ragioni, non dovute solo ad emozioni ed esigenze di breve termine. Tali ragioni continuano ad essere valide oggi, anche se vengono percepite come secondarie di fronte al principio della “libertà di parola”. Irving può parlare e, di fatto, siamo obbligati ad ascoltarlo e comporre il nostro giudizio – o quel che è peggio farlo comporre dalle nuove generazioni - anche assorbendo le sue fantasie criminali. Queste pur non essendo né credibili né rappresentative, per il solo fatto di esistere ottengono così un diritto di rappresentanza. Il sacrosanto principio di libertà di parola non può però non appoggiarsi sul contrappeso dell’antifascismo. Senza di questo, il dilagare dell’apologia del fascismo e del razzismo nella società ed il recepimento di questi da parte delle nuove generazioni potrà essere incontenibile. Domani, la sacralizzazione del terzismo come forma di alienazione e distorsione della democrazia ci obbligherà, per poter parlare di Auschwitz, a dare uguale diritto di parola all’opinione di un nazista.