Politica contro Storia

Giorno della Memoria: se le vittime si fanno concorrenza

In Europa non c’è ancora un’identità condivisa. In Francia (come in Italia) si cerca di crearla per legge: in difesa del colonialismo o per tutelare il “politicamente corretto”.

Fabio Montermini

Photo by: Dillo ad Aliceinfo

Un saggio uscito in Francia alcuni anni fa si intitolava significativamente La concurrence des victimes (La concorrenza delle vittime).

In esso l'autore, Jean-Michel Chaumont, analizzava, senza partiti presi né timori reverenziali, il dibattito costante tra due modi opposti di vedere la memoria dell'Olocausto.

Da una parte c'è chi utilizza l'esempio dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti come emblema del 'male' del secolo e come il prototipo di tutti i genocidi che, da allora, si sono succeduti nel mondo. Dall'altra chi, in nome dell'unicità della Shoah, rifiuta qualsiasi confronto, sentito come una banalizzazione di un'esperienza che è stata unica nella storia. Il libro metteva bene in evidenza l'implicazione profonda di queste polemiche: non si tratta tanto di garantire il rigore storico e il dovere della memoria, quanto di cercare di ottenere, attraverso la storia, un riconoscimento nel presente della propria identità, individuale e di gruppo.

Alcuni episodi recenti, a ridosso della Giornata della Memoria, mi hanno fatto tornare in mente questo interessante libro, purtroppo - che io sappia - non disponibile in italiano. Come ormai accade da diverso tempo, infatti, continuiamo ad assistere al tentativo, da parte delle categorie più disparate, di far riconoscere - a torto o a ragione - il proprio ruolo nella storia recente. Riconoscimento che, naturalmente, ha principalmente lo scopo di legittimare l'esistenza e l'azione del gruppo nel presente.

Questa concorrenza rappresenta un'innovazione rispetto al passato. Per limitarci, per ora, ai campi di sterminio nazista, nell'immediato dopoguerra il ruolo del reduce dal lager non era così facile da sostenere. Nell'epoca in cui si celebravano i vincitori e gli eroi di guerra, c'era poco spazio per le vittime, per i 'perdenti'. Sappiamo bene, per averlo sentito raccontare direttamente, come fosse difficile per gli scampati farsi ascoltare, e sappiamo bene quanto ci abbia messo Primo Levi a farsi pubblicare Se questo è un uomo da un editore a larga tiratura.

Oggi la situazione è radicalmente cambiata. Oggi essere una vittima è garanzia di riconoscimento e sostegno da parte della società, o anche solo di visibilità. E la lotta per il riconoscimento non si limita alla 'concorrenza delle vittime'. Quando, decentemente, non ci si può proprio atteggiare a vittima, si cerca perlomeno di sfruttare il riconoscimento e il prestigio di cui godono altri (che a loro volta possono essere vittime o no) per, equiparandosi ad essi, trovare o ritrovare una legittimità sociale. Ritornerò su questo punto più avanti.

L'altro fatto nuovo è il modo con cui questa legittimazione viene cercata. Se non si riesce ad ottenerla nel dibattito storico, o presso gli intellettuali, che comunque hanno scarso appeal per il grande pubblico, si tenta di imporla per legge.

A questo filone appartiene il ddl 2244, che equiparava i combattenti nella Repubblica di Salò ai partigiani, recentemente presentato e poi frettolosamente ritirato dall'ordine del giorno del Senato. Ma, sorpresa!, in questo campo gli italiani non hanno inventato niente. In Francia, ho scoperto, legiferare sulla storia e sulla sua interpretazione è un'abitudine inveterata. Il decreto legge di cui sopra ha almeno quattro precedenti oltralpe. Mentre, però, alcune di queste leggi 'a sfondo storico' suscitano poche o nulle obiezioni, ve ne sono almeno due che proprio in questi giorni stanno causando, per motivi diversi, un certo dibattito.

La prima di queste è una legge del 21 maggio 2001, la cosiddetta 'legge Taubira' (dal nome della deputatessa delle Antille che l'ha proposta), che riconosce la tratta e lo sfruttamento degli schiavi come crimine contro l'umanità. Non è tanto il merito della legge che fa discutere, quanto le sue conseguenze pratiche e l'uso che ne è stato fatto. Recentemente, un collettivo di abitanti dei territori francesi d'oltremare (Antille, Guyana, Réunion) ha denunciato, in nome appunto della legge Taubira, uno storico, reo di aver scritto un libro sullo schiavismo senza denunciarlo, a loro dire, con sufficiente convinzione.

A seguito dell'episodio, un nutrito gruppo di storici ha sentito il dovere di pubblicare su Le Monde un appello in favore della libertà di ricerca. Non perché, suppongo, convinti negrieri, ma piuttosto per rimettere le cose al loro posto. Non si tratta di giustificare lo schiavismo o altri misfatti storici, né negare le sofferenze di milioni di esseri umani, quanto, mi sembra, di denunciare i paradossi e i rischi di una causa, anche giusta, imposta per legge.

La seconda di queste leggi ha suscitato reazioni ancora più violente. La legge Taubira, infatti, almeno difende una causa giusta, condivisibile e unanimemente condivisa. L'articolo 4 della legge del 23 febbraio 2005, invece, impone di insistere, nell'insegnamento della storia nelle scuole, sul “ruolo positivo” della colonizzazione francese in Africa del Nord e nelle altre colonie. Questa volta non sono solo gli storici e gli insegnanti che sono insorti, ma anche gran parte della stampa, tutta l'opposizione di sinistra, e si è persino sfiorata la crisi diplomatica con l'Algeria.

Più o meno sopito fino all'autunno, il dibattito si è riacceso con i recenti disordini nelle periferie. Innanzitutto, non c'è unanimità su questo 'ruolo positivo', se ci sia effettivamente stato e, se sì, quale sia il suo peso nel bilancio complessivo della storia coloniale francese. In secondo luogo, siamo di fronte ancora una volta ad un tentativo di imporre per legge un'interpretazione unica, e per giunta parziale, dei fatti storici.

Non c'è bisogno, tuttavia, di scomodare Stalin o il Grande Fratello per analizzare la patetica legge francese sulla colonizzazione. Ogni dittatura che si rispetti ha avuto la sua dottrina da insegnare nelle scuole, solidamente ancorata in un passato più o meno mitizzato. Il tutto, però, faceva parte di un progetto più globale di controllo sociale e culturale. Nel caso francese, come nel suo grottesco corrispondente italiano, invece, l'interpretazione imposta per legge dei fatti storici è soltanto il prodotto secondario di un particolarismo che sfrutta questo canale per ottenere un riconoscimento e una legittimazione sociali che ha perso, o che non ha mai avuto.

Nel caso della Francia, si tratta dei francesi fuoriusciti dalle colonie e soprattutto degli ex combattenti nelle guerre coloniali, che hanno visto il loro prestigio di 'vittime' o 'eroi' erodersi col tempo, e la loro credibilità diminuire mano a mano che la verità sul passato coloniale della Francia (e soprattutto sulla guerra d'Algeria, che ne è l'emblema) veniva a galla. La maggioranza di destra ha voluto fare questo regalo ad una categoria che costituisce una parte importante del suo elettorato (così come di quello dell'estrema destra). Nel caso dell'Italia, fortunatamente abortito, si è trattato dell'ennesimo tentativo dei nostalgici del regime di sfruttare il prestigio di cui gode la Resistenza per ottenere una presentabilità che loro, a differenza dei francesi delle colonie, non hanno, per ovvi motivi, mai avuto.

E' evidente che il ricorso ad una legge per cercare una legittimazione sul piano sociale ha un valore simbolico molto forte e un valore pratico quasi nullo. Si immagina difficilmente un'irruzione di gendarmi in una classe francese nell'ora di storia, o un carabiniere multare un ex partigiano colto in flagrante nel non rendere gli onori militari a un ex repubblichino.

La nostra civiltà ha ancora bisogno di simboli e di miti, ma non si può accettare che questo vada a detrimento della verità storica. Sono le situazioni di amalgama e di incertezza che favoriscono i tentativi, come quelli che ho descritto, di appropriarsi della memoria altrui.

E' per questo che abbiamo bisogno che gli storici possano fare tranquillamente il loro lavoro, che i parlamenti facciano il loro, e che chi ha bisogno di una legittimazione sociale la cerchi attraverso quello che fa, e non attraverso quello che ha fatto o, peggio, che altri hanno fatto o subito nel passato.

Fabio Montermini
Internet, 1 febbraio 2006
www.dilloadalice.it