Le pretese patrimoniali degli eredi Savoia al loro rientro in Italia previsto domani

La legge non è uguale per tutti

dalla Rivoluzione francese un esempio che l'attuale governo non ha seguito

Fu aspro, ma anche di elevato livello il dibattito che si accese in Francia alla fine del 1792 e nel successivo gennaio, dapprima all'Assemblea nazionale poi alla Convenzione. Si trattava di decidere la sorte di un re che non solo aveva speculato sul carovita ma tramato con la Prussia e con la controrivoluzione. Perciò, nelle concezioni giusnaturaliste dell'epoca, aveva tradito il patto che ne faceva il protettore del popolo francese, in cambio del riconoscimento del diritto all'esercizio del comando sul popolo, dell'insindacabilità degli atti e dell'inviolabilità per sé e per i propri discendenti.

Il dibattito sulla sorte di Luigi XVI

La Gironda - il partito moderato - era dapprima timorosa che i suoi argomenti a favore del re e del proseguimento della monarchia non avrebbero incontrato il favore del popolo di Parigi, che era insorto vittoriosamente proprio contro il re il 10 agosto - consegnando il potere al partito rivoluzionario della Montagna giacobina. Solo in un secondo momento i girondini entreranno apertamente in campo.
Mailhe, relatore sulla questione, vicino ai giacobini, respinse l'obiezione della Gironda e di quant'altri si appellavano alla Costituzione del 1791 per argomentare il rifiuto della possibilità stessa di giudicare il re. Sostenne che non si poteva opporre una costituzione al popolo nel momento in cui quest'ultimo recuperava appieno il proprio diritto naturale all'autodeterminazione. Per effetto del suo tradimento il re era diventato un semplice cittadino, giudicabile e pertanto giustiziabile, alla stregua di qualsiasi altro cittadino francese. Né si poteva rinviare il caso ad un tribunale particolare, ad hoc: ciò avrebbe implicitamente ammesso la condizione speciale di insindacabilità delle azioni del re, rendendo di fatto obbligatoria la sua assoluzione, o illegale la sua esecuzione.
La Convenzione, inoltre, era stata incaricata dal popolo di dare alla Francia una nuova Costituzione, perciò univa in sé ogni potere, compreso quello giudiziario. Era essa perciò il tribunale legittimato a giudicare il re. Infine, la Convenzione operava nelle condizioni straordinarie di una guerra dall'esterno e dall'interno intesa a distruggerne la libertà.
Ma fu soprattutto Saint-Just, uno dei più capaci capi giacobini, ad andare al cuore della questione: non si trattava in realtà di fare un processo, se non nella forma, bensì di compiere un atto di rottura rivoluzionaria la cui dimensione era necessariamente anche antigiuridica. Il fondamento ideologico e giuridico del potere della monarchia era infatti consistito sino a quel momento in Francia come in tutta Europa nella pretesa ascendenza divina. Era in ragione di tale ius sanguinis che la monarchia si poneva come garante delle rigide inamovibili differenze di "ordine" che definivano l'attività lavorativa, i diritti e i doveri di ogni individuo e dei suoi discendenti. Gli atti del re erano insindacabili e la sua persona inviolabile. Il passaggio ad un altro modello di relazioni sociali basato sui principi della libertà e dell'uguaglianza degli individui - cittadini richiedeva dunque un atto di grande significanza simbolica ed emotiva, vale a dire la rottura con lo ius sanguinis (richiedeva un'"eccezione" reale, avrebbe detto Carl Schmitt, un atto di puro imperio, assolutamente libero, fuori e contro il diritto vigente). Si trattava perciò obbligatoriamente di praticare la giustiziabilità del re, in quanto traditore del suo popolo: solo così il re sarebbe stato eguagliato ad ogni altro individuo del popolo; solo così si sarebbe realizzata una rivoluzione per la libertà e l'eguaglianza. Il 21 novembre cominciava dinanzi alla Convenzione il processo al re. Due mesi dopo esatti il sovrano salirà sul patibolo.

La Costituzione italiana e le responsabilità dei Savoia

Il popolo italiano ha sancito, a suo tempo, l'esilio del re e dei suoi eredi al trono attraverso una procedura non difforme: un'Assemblea Costituente ha prodotto una Costituzione repubblicana e un referendum l'ha approvata. Le modalità pratiche, grazie principalmente alle lotte di civiltà del movimento operaio europeo, si erano progressivamente fatte meno cruente, non c'era nessuna necessità di ghigliottine o fucilazioni. Sicché a Umberto II tutto sommato andò bene. Non che, invece, i Savoia fossero stati da meno dei Borboni di Francia: da complici del massacro del generale Bava Beccaris, che fece sparare nel 1898 con i cannoni a mitraglia contro gli operai di Milano che protestavano per la tassa sul pane - Umberto I lo nominò senatore l'anno successivo - a complici dello sterminio nella prima guerra mondiale di 600 mila contadini-soldati mandati dal generale Cadorna all'assalto delle trincee austriache o decimati se rifiutavano. Dalla responsabilità per non aver bloccato la marcia fascista su Roma alle leggi razziali fino alla fuga a Brindisi di Vittorio Emanuele III dinanzi agli invasori tedeschi. Per mezzo secolo i Savoia hanno recato lesioni immense e tradito il popolo italiano. Oggi, reazionari e buonisti di tutta Europa obiettano: che c'entrano con tutto questo i discendenti di Umberto I e di Vittorio Emanuele III? E' un principio della moderna civiltà giuridica che le colpe siano solamente degli individui che le hanno commesse, non anche dei loro parenti o discendenti. Basta quindi con questa barbarie dell'esilio.

E come no, siamo anche noi dal lato della moderna civiltà giuridica. Ma è pure un suo principio che quando si rivendica l'eredità di un patrimonio, questo non ne riguardi solo l'attivo ma anche il passivo di danni materiali e morali. E soprattutto non è accettabile né giuridicamente né politicamente che da un lato gli attuali Savoia si appellino alla moderna civiltà giuridica, che li colloca come semplici cittadini, e dall'altra rivendichino quote patrimoniali e trattamento al rientro consoni al loro sangue blu, richiamandosi al diritto premoderno dell'Antico Regime. E cioè se i Savoia sono cittadini alla stregua di tutti noi, non è accettabile che pretendano di recuperare dimore e danari, che rifiutino di avere a loro carico, mediante l'esilio, la macelleria e i tradimenti di famiglia. E ancor meno accettabile è l'ambiguità delle loro pressoché quotidiane dichiarazioni.

Luigi Vinci
Milano, 10 novembre 2002
da "Liberazione"