Spesso si pensa che le preoccupazioni per lo sviluppo insostenibile siano prerogativa della cultura occidentale. A Bali, invece, nel recente vertice sul clima si è visto un forte movimento asiatico per la salvaguardia del pianeta

Ambientalismo nei paesi asiatici

Il razzismo si sa può prendere molte forme: c'è quello rozzo modello ku klux klan e c'è quello più raffinato che si propone di esportare i superiori valori dell'Occidente nei paesi arretrati del Sud del mondo

Il razzismo si sa può prendere molte forme: c'è quello rozzo modello ku klux klan e c'è quello più raffinato che si propone di esportare i superiori valori dell'Occidente nei paesi arretrati del Sud del mondo.
Anche in questo caso sempre di razzismo si tratta visto che non viene prevista l'esistenza di altri valori al di fuori dei nostri. E ci vuole davvero una buona dose di sciovinismo per pensare che le preoccupazioni ambientali siano prerogativa unica di una cultura come quella occidentale che, dall'industrializzazione in poi, ha mostrato ben poco rispetto per la natura e che solo in anni recenti - e solo in casa - predica il rispetto dell'ecosistema.

A Bali, durante il vertice delle Nazioni Unite sul clima che si è tenuto a dicembre, si è visto un movimento ambientalista forte, radicale e capace di un'ampia mobilitazione che ha sorpreso l'Occidente. In realtà, come scrive Walden Bello «la visione della posizione del Sud sull'ambiente è semplicemente una caricatura. In realtà i costi ambientali della rapida industrializzazione sono una delle principali preoccupazioni per settori significativi della popolazione dei paesi in via di sviluppo e, in molti di questi, il movimento ambientalista è un attore politico molto significativo. Inoltre, attualmente c'è una discussione molto intensa sulle alternative al destabilizzante modello di crescita accelerata». Modello, vale la pena ricordarlo, imposto proprio dall'Occidente.

I primi arrivati: Corea e Taiwan

I movimenti ambientalisti più forti in Asia sono sicuramente quelli dei paesi di nuova industrializzazione, come una volta venivano chiamati la Corea del Sud e Taiwan. La cosa non stupisce visto che la rapida industrializzazione che si è avuta in questi paesi fra il 1965 e il 1990 è avvenuta in assenza pressoché totale di qualunque controllo ambientale. In Corea, il fiume Han che attraversa Seoul e il Nakdong che attraversa Pusan, già negli anni Settanta avevano raggiunto livelli d'inquinamento tali che stavano per essere classificati come biologicamente morti. Lo smaltimento di scorie industriali tossiche aveva raggiunto un livello critico trent'anni fa: nel 1978 Seoul era la città con il più alto tasso di anidride solforica del pianeta e anche le città minori se la passavano abbastanza male.

L'industrializzazione rapida ha avuto conseguenze disastrose anche a Taiwan dove, inseguendo una crescita bilanciata, i governi cercarono di evitare la concentrazione industriale e spinsero le manifatture ad aprire impianti nelle zone rurali. La formula taiwanese non ha funzionato: la densità industriale di Taiwan è 75 volte quella degli Stati Uniti con il risultato che almeno il 20 per cento della terra coltivabile è oggi inquinata e il 30 per cento del riso cresciuto sull'isola risulta contaminato dai metalli pesanti.

In entrambi i paesi i costi dell'industrializzazione sono stati scaricati sull'ambiente e sui contadini, e in entrambi i paesi è nato spontaneamente un movimento che ha attirato la partecipazione di diverse classi sociali e ha quindi subito collegato le questioni ambientali con quelle del lavoro, della salute e della crisi agricola. E' un movimento agguerrito che pratica l'azione diretta e che è riuscito a far chiudere molte fabbriche inquinanti e a prevenire la costruzione di nuovi impianti. Oltretutto, in entrambi i paesi, il movimento ambientalista ha costretto il governo a formulare norme più restrittive sui rifiuti industriali e sull'inquinamento dell'aria. Purtroppo questi successi hanno avuto una conseguenza negativa: le fabbriche inquinanti si sono trasferite altrove.

Thailandia e Filippine

A differenza della Corea del Sud e di Taiwan, nel Sud-Est asiatico i movimenti ambientalisti esistevano prima della rapida industrializzazione che qui si è verificata più tardi, fra la metà degli anni Ottanta e la metà dei Novanta. Questi movimenti erano emersi negli anni Settanta e Ottanta per lottare contro le centrali nucleari (nelle Filippine), contro le grandi dighe (Thailandia, Indonesia e Filippine) e contro la deforestazione e l'inquinamento marino (Thailandia e Filippine).

Sono state battaglie epiche, come la lotta contro la diga sul fiume Chico nel nord delle Filippine e quella contro la diga sul Pak Mun in Thailandia, lotte che hanno costretto la Banca Mondiale a ritirare il proprio sostegno a questi giganteschi progetti idroelettrici.

Sicuramente qui, più che in altri luoghi, il movimento ambientalista è uscito dalla ristretta cerchia della classe media per diventare un fenomeno di massa: nella lotta contro la diga sul Chico l'opposizione era prevalentemente indigena mentre contro la Pak Mun Dam si sono mobilitati i piccoli coltivatori e i pescatori artigianali, e in entrambi i casi la questione ambientale è stata sviscerata in tutti i suoi aspetti.

Nel caso delle Filippine, ad esempio, la deforestazione era vista come una conseguenza diretta della strategia di crescita orientata all'esportazione imposta dagli aggiustamenti strutturali della Banca Mondiale e del Fondo Monetario che avevano costretto a pagare il debito estero svendendo le proprie risorse naturali oltre che, naturalmente, tenendo bassi i salari. Classe media, lavoratori, abitanti delle baraccopoli e ambientalisti si trovarono così alleati naturali nella battaglia contro il capitale transnazionale, i monopoli locali e il governo centrale che avevano sposato una linea anti-ambientalista.

Nella regione il movimento ambientalista non solo ha ottenuto importanti risultati - come il blocco della costruzione della centrale nucleare di Bataan - ma ha avuto un ruolo fondamentale nella cacciata dei dittatori anche perché, inizialmente, il movimento era percepito come non politico e per qualche tempo i governi autoritari non pensarono di proibire assemblee e incontri in cui si parlava di salute e di fiumi. Così, quando cominciarono a spuntare, i movimenti per la democrazia si trovarono già a disposizione una rete attiva e molto ben ramificata mentre la devastazione ambientale fu subito letta come la manifestazione più evidente dell'irresponsabilità dei regimi nei confronti dei propri paesi. In Indonesia, per esempio, il gruppo ambientalista Walhi ha denunciato per inquinamento e devastazione ambientale sei organismi governativi, incluso il ministero per l'Ambiente e la Popolazione. Quando i dittatori si accorsero che ambientalisti e anti-fascisti si stavano rafforzando l'un l'altro, era già troppo tardi.

Le lotte in Cina

La crisi ambientale ha raggiunto proporzioni gravissime in Cina, come ha ammesso lo stesso governo. Il grande bacino acquifero dell'altopiano del Nord, dove viene prodotto il 40 per cento del grano cinese, sta scendendo di un metro e mezzo ogni anno. All'inquinamento e alla scarsità dell'acqua si sommano gli effetti del riscaldamento globale - come la desertificazione - l'inquinamento delle attività industriali e l'impoverimento dei suoli causato dall'agricoltura intensiva degli anni passati. La maggior parte della destabilizzazione ambientale in Cina è causata dalle imprese locali e dai massicci progetti governativi - come la Diga delle Tre Gole - ma il contributo degli investitori stranieri è molto significativo. Approfittando della scarsa attuazione delle normative ambientali, le corporation transnazionali trasferiscono le fabbriche più inquinanti nel paese, aggravando i problemi ambientali o creandone di nuovi. Il delta del Fiume delle perle e quello dello Yangtze, le due Zone Economiche Speciali che ospitano la maggior parte delle corporation straniere, sono i più inquinati di tutto il paese. Oltretutto la Cina sarà sicuramente uno dei paesi più colpiti dall'innalzamento dei mari causato dall'effetto serra visto che quasi 150 milioni di persone vivono nella zona costiera, un numero destinato ad aumentare perché la strategia di sviluppo di Pechino è incentrata sull'industrializzazione orientata all'esportazione e quindi sulla creazione di zone speciali costiere che, oltre a distruggere ulteriormente l'ecosistema, sono particolarmente esposte ai fenomeni climatici estremi connessi col riscaldamento globale.

Nel frattempo la struttura sanitaria rurale collassava sotto i colpi di una privatizzazione strisciante, e tornavano in auge malattie che i medici scalzi di Mao avevano debellato. Come in Corea e a Taiwan 15 anni prima, l'industrializzazione accelerata ha fatto confluire in un unico calderone la rabbia dei lavoratori migranti, quella delle comunità agricole le cui terre sono state confiscate o rovinate dall'inquinamento, gli allarmi degli ecologisti e le critiche all'attuale modello economico provenienti dal movimento della Nuova sinistra. Come risultato le "rivolte ambientali" sono aumentate in modo esponenziale e sono ormai considerate dal governo "una fonte contagiosa di instabilità" nel paese. Secondo il Center for Strategic and International Studies di Washington, che riporta dati ufficiali del governo cinese, nel 1995 gli "incidenti di massa" erano stati 8.700 in tutta la Cina, mentre nel 2005 sono arrivati a 87.000. E non si tratta di ribellioni di poco conto se nell'aprile del 2005, quando i contadini disperati si ribellarono a Huashui, ben 10 mila poliziotti impiegarono qualche giorno per "riportare la calma". Ma la rivolta è riuscita a fermare nuovi espropri e la connessione fra ambiente e consapevolezza politica ha cominciato a cementarsi, esattamente come è accaduto a Taiwan parecchi anni prima.

«La forza del movimento ambientalista cinese non va esagerata - sottolinea Bello - le alleanze sono spesso improvvisate e non vanno oltre il livello locale» tuttavia «il movimento ormai è qualcosa con cui lo Stato e il grande capitale sono costretti a fare i conti». Oltretutto il fermento nelle campagne ha indotto la leadership cinese a essere più aperta ai suggerimenti della Nuova sinistra che invita ad abbracciare una crescita più sostenibile - e lenta - basata sull'aumento della domanda interna.

La forza dell'India

Negli ultimi 25 anni il movimento per la salvaguardia dell'ambiente e della salute pubblica si è esteso in tutto il paese, ed è ormai parte fondamentale della democrazia indiana. Probabilmente l'evento scatenante è stato l'incidente industriale di Bhopal, che causò la morte di 20 mila persone - ma c'è chi sostiene che siano state almeno il doppio. Da allora le vertenze si sono moltiplicate in tutto il paese: c'è la campagna nazionale contro le fabbriche della Coca e della Pepsi Cola, che prosciugano la falda acquifera e inquinano i campi, e quella contro i grandi allevamenti ittici nel Tamil Nadu, in Orissa e in altri stati costieri, senza dimenticare la campagna contro gli ogm, nell'ambito della quale sono state distrutte intere piantagioni di riso transgenico.

Per quanto riguarda la salute pubblica, gli indiani sono leader mondiali nella lotta contro i Trips, gli accordi sui brevetti farmaceutici imposti dal Wto, e contemporaneamente sono grandi produttori di generici a basso costo per i paesi poveri affetti dall'epidemia di Aids, fra cui la stessa India. Ma il movimento più famoso a livello internazionale è certamente quello contro le grandi dighe, quelle che Nehru definiva "i templi dell'India moderna". Nell'India indipendente l'elettrificazione centralizzata era un precetto di fede intrinsecamente connesso con il nazionalismo e, come scrisse Arundhati Roy in The Cost of Living , «anche solo interrogarsi sulla loro utilità equivaleva a un atto di sedizione». In nome dell'elettrificazione però «non solo venivano costruite nuove dighe e nuovi schemi di irrigazione ma venne anche distrutto il sistema tradizionale di raccolta delle acque che aveva funzionato per migliaia di anni», un sistema decentrato, meno distruttivo dal punto di vista ambientale, a basso impiego di capitale e ad alto impiego di manodopera. L'elettrificazione rurale è stata in realtà un modo di utilizzare il capitale naturale delle campagne e delle foreste per sussidiare la crescita dell'industria urbana, una parcella molto salata sia dal punto di vista ambientale che sociale: Roy ha calcolato che nel paese almeno 33 milioni di persone sono state dislocate per fare posto alle dighe, più della metà indigeni o intoccabili.

Che l'impatto delle grandi dighe sull'ecosistema sia devastante ormai lo ammette perfino la Banca Mondiale che, infatti, fu costretta a ritirarsi dal mega-progetto della valle del Narmada. Oltre al disimpegno della Banca, la mobilitazione ha conseguito altre importanti vittorie: un piano di ricollocazione delle popolazioni interessate e il ridimensionamento del progetto, visto che New Delhi ha manifestato l'intenzione di proseguire i lavori anche senza il sostegno della Banca. Ma, secondo Walden Bello, «ancora più importante è stato l'impatto politico della lotta del Narmada: un maggiore radicamento della democrazia indiana e, contemporaneamente, la profonda trasformazione della scena politica» che ha portato alla vittoria elettorale del Centro Sinistra nel 2004. Purtroppo, la coalizione guidata dal partito del Congresso ha voltato le spalle alle proteste rurali che l'hanno portata alla vittoria e ha abbracciato le stesse politiche anti-agricole e pro-globalizzazione del predecessore, con il rischio di provocare reazioni ancora più violente nell'immediato futuro.

Sì perché, nel frattempo, la devastazione ambientale del paese procede e il movimento ecologista si trova, anche qui, a fronteggiare la mostruosa sfida del riscaldamento globale: i ghiacciai himalayani si ritirano a un ritmo allarmante, incidendo sul flusso delle acque dei fiumi che da lì discendono, eccessive piogge si alternano a periodi di siccità, e la desertificazione avanza. Anche qui, come in Cina, parecchi milioni di persone (63,2) vivono nelle zone costiere vulnerabili all'innalzamento del mare. Nella costa del Gujarat sono già molti i villaggi cacciati dalle acque e alcune isole sono già state inghiottite dall'Oceano. Dal punto di vista indiano il riscaldamento globale non è insomma una questione che riguarda figli o nipoti ma sta già dando il proprio contributo a fabbricare profughi per le mostruose bidonville che circondano le megalopoli.

Secondo Walden Bello in India «come in Cina, la sfida è quella di creare un movimento che possa andare in rotta di collisione non solo con le élite ma anche con alcuni settori della classe media urbana che sono stati i maggiori beneficiari della strategia di crescita accelerata che viene perseguita fin dall'inizio degli anni Novanta». Quando si chiede ai governi asiatici di ridurre le emissioni sono questi settori, insieme alle élite nazionali, a sostenere che il Sud non ha ancora raggiunto la quota di emissioni che il Nord invece supera abbondantemente. Dall'altra parte di questo terzomondismo di comodo, c'è l'amministrazione Bush che rifiuta di sottoscrivere Kyoto finché India e Cina non avranno anch'esse ratificato il protocollo, un gioco delle parti che sostanzialmente rappresenta, per Walden Bello, «un patto infame siglato per consentire alle proprie elite economiche di continuare a evadere le proprie responsabilità ambientali a spese del resto del mondo».

Sabina Morandi
Roma, 6 gennaio 2008
da “Liberazione (settimanale)”