La crisi dell’industria.

I dati sfatano il mito del “privato è meglio”.

Parte 3. La sfida dell'intervento pubblico

L'inedita crisi industriale che stiamo attraversando può e deve essere colta dalla sinistra come una occasione:dal rapporto, tutto da costruire, tra bisogni sociali e produttivi, beni e servizi, compatibilità ambientale possono e devono scaturire risposte e soluzioni alternative a quelle del centro destra. Il sindacato è chiamato a contribuire alla costruzione di un nuovo rapporto tra politica, istituzioni, conflitto sociale.
Milano è il luogo dove, prima che altrove, si manifestano le trasformazioni dell’impresa e del mondo del lavoro e dove, più che altrove, si è evidenziata la necessità di politiche e pratiche sindacali diverse dal passato e l’esigenza di instaurare un differente e più equilibrato rapporto tra capitale e lavoro.
Su questi nodi abbiamo deciso di ospitare quattro interventi di Maurizio Zipponi, segretario generale della Fiom di Milano, incentrati sui grandi temi della contrattazione e della rappresentanza, dell’industria dell’auto, delle telecomunicazioni e del ruolo dell’attuale industria pubblica.

Ho già sostenuto (sul numero di Liberazione di domenica 5 settembre) parlando di Fiat, la necessità di un protagonismo dello Stato per far uscire la più grande azienda automobilistica del paese dalla crisi che la attanaglia.

Ma "intervento dello Stato in economia" da molti viene ancora provincialmente tradotto in "statalismo": credo sia giunta l'ora di superare questa banalizzazione e di iniziare a ragionare su come investire in nuovi prodotti in rapporto ai bisogni collettivi e all'ambiente, sulle tecnologie necessarie per realizzarli, sulle risorse indispensabili per sostenerli.

I governi di Francia e Germania sono già intervenuti in modo serio e finalizzato nel settore auto (Volkswagen e Renault) e, di recente, la pesantissima crisi finanziaria che ha portato la multinazionale francese Alstom (attiva nei settori dell'energia e di trasporti) sull'orlo del fallimento è stata risolta grazie all'azione dello Stato.

Eppure a nessuno è venuto in mente di accusare il presidente francese o il cancelliere tedesco di "statalismo" anzi, le scelte dei due governi sono state accolte dal mondo economico e finanziario come il modo migliore per salvare industrie leader nei settori strategici come quelli dell'energia, dei trasporti e dell'auto.

In Italia abbiamo alle spalle anni in cui tutto ciò che aveva a che fare con le partecipazioni statali assumeva una accezione negativa, era sinonimo di dirigenti e manager corrotti che gestivano aziende inefficienti e indebitate.

Così, nel calderone dei luoghi comuni è stato buttato tutto ciò che era pubblico: quello che davvero non funzionava insieme a interi patrimoni di competenze e professionalità.

La "religione" delle privatizzazioni, oltre che dalla necessità di reperire risorse, nasce dal luogo comune secondo cui "pubblico" significa inevitabilmente "inefficiente".

Nel 1993 lo Stato controllava interamente o aveva quote significative di partecipazione in 9 dei 20 maggiori gruppi operanti in Italia che avevano circa 996.000 dipendenti (dei quali il 52% erano "pubblici"), ricavi di circa 198.000 milioni di euro (di cui il 55% "statale") e una perdita di 6.600 milioni di euro circa (di cui il 43% a carico dello Stato e il resto, guarda caso, in aziende private come Fiat, Ferruzzi, Olivetti, ecc.).

Nel 2003, dopo le operazioni di privatizzazione del settore telefonico, dell'Ilva nel settore siderurgico, della Iritecna in quello delle costruzioni e delle autostrade e l'uscita dal comparto alimentare e della grande distribuzione, lo Stato controlla ancora 5 grandi gruppi su 20.

Sono ancora pubblici, infatti: Eni, Enel, Alitalia, Rai e Finmeccanica.

Ebbene, quel che è rimasto fattura 98 miliardi di euro, di cui 8,3 sono il rendimento sul capitale investito, cioè il 13%, contro il 7,8% delle altre aziende private.

Questi dati sfatano il mito del "privato è meglio": nella gara ai profitti vincono le aziende di Stato, dimostrando la presenza di consistenti capacità di direzione (Alitalia a parte) e confermano la necessità di una presenza nuova dello Stato in economia, l'esigenza di serie politiche industriali e di ingenti investimenti perché le aziende possano reggere sul mercato.

Invece, il nuovo ministro dell'Economia, a fronte dell'esigenza di reperire oltre 100 miliardi di euro entro il 2008, annuncia ulteriori privatizzazioni.

E' la storia che si ripete, è lo stesso percorso che ha portato Fiat alla soglia del collasso: per fare cassa si vendono (o, meglio, si svendono) i gioielli di famiglia senza finanziare nuovi piani industriali.

E' la ripetizione coatta di scelte sbagliate che hanno ridotto il patrimonio industriale del paese.

E' possibile, invece di ripercorrere le strade fallimentari del passato, ragionare di nuove alleanze anzitutto con imprese italiane, sull'investimento dei guadagni per rendere più competitive le aziende, persino sull'ingresso di veri imprenditori privati con quote di partecipazione azionaria?

Se prevarrà l'esigenza di fare cassa è chiaro che le aziende che verranno cedute saranno le più redditizie (poco importa se si chiamano Eni, Enel, Finmeccanica o Fincantieri).

La vicenda Alitalia dimostra che intervenire quando i buoi sono già usciti dalla stalla (cioè quando si è perso mercato, competitività e soldi) per gravi responsabilità dei manager e della politica lottizzatrice che questo governo ha continuato a fare, espone l'azienda al rischio concreto di uno smembramento e di una vendita a pezzi che favorisce la concorrenza e crea gravi perdite occupazionali. Quando l'unico criterio è quello dell'emergenza finanziaria non si parla più di piani industriali, con il risultato di liquidare patrimoni come quello della compagnia aerea nazionale.

Quindi, affrontare il tema delle partecipazioni statali significa, prima che sia troppo tardi, parlare di piani industriali, di alleanze internazionali, di rapporto con il capitale privato, di difesa dei marchi, dei brevetti, degli stabilimenti e dell'occupazione.

Significa, ad esempio, parlare di ciò che sta accadendo in Finmeccanica.

Finmeccanica è un insieme di aziende che operano in diversi settori: elettronica per la difesa, aereospazio, elicotteri, navi, energia, treni e tanto altro.

La brillante idea che sta prevalendo al ministero per l'Economia è quella di dividere Finmeccanica in due grandi agglomerati composti: il primo dalle imprese che operano nei settori della difesa e dell'aerospazio; il secondo da realtà come Fincantieri (alla quale pure non mancano le commesse, essendo leader mondiale nella produzione di navi) e dalle aziende che si occupano di attività civili.

In sintesi: in Finmeccanica Uno le realtà con solide alleanze internazionali; in Finmeccanica Due aziende, che pur collocate in settori strategici, necessitano di cospicui investimenti e di connessioni con il capitale privato.

Il problema è che per permettere a Finmeccanica Uno di avere solide alleanze internazionali è necessario un forte apporto di capitali. Questi capitali vengono cercati sul mercato che, in cambio, chiede garanzie. E le garanzie che a questo punto verrebbero date sono la cessione di tutta la parte civile non considerata core bussines.

Il risultato è che tutte le attività civili verranno caricate dall'obbligo di essere vendute per fare cassa, per garantire i prestiti necessari a Finmeccanica Uno. A quel punto ogni discussione sui piani industriali e sulle prospettive occupazionali degli stabilimenti sarà inutile, perché assisteremo alla corsa alla privatizzazione ed alla cessione delle attività civili magari ad imprese internazionali che le acquisirebbero non per potenziarle e svilupparle, ma per eliminare un concorrente, con i conseguenti drammi sociali per il paese.

Il risultato finale sarà l'uscita dell'Italia da tutti i settori che determinano la competitività di un sistema: l'energia, i trasporti, le infrastrutture.

Per questa ragione la Fiom è contraria alla divisione di Finmeccanica.

E' possibile muoversi in un'ottica diversa, considerando Finmeccanica come un insieme che, attraverso i risultati operativi delle realtà "che tirano" può rilanciare le attività civili, in particolare nei settori del trasporto e dell'energia?

Ma qui torniamo al nodo di fondo: la mobilità o l'energia sono oppure no grandi questioni che attengono alla collettività?

In ogni città del paese si susseguono i blocchi dei mezzi di trasporto a causa dell'inquinamento e spostarsi in metropoli come Milano diventa sempre più difficoltoso, e corriamo il rischio del bleck out energetico.

Il nostro paese spende per l'energia il 20-25% in più di Francia e Germania e per l'80 % è dipendente dal petrolio.

Ma chi, se non lo Stato, può indirizzare e sostenere la ricerca, la progettazione e la produzione di mezzi non inquinanti e pensare ad una nuova strategia del trasporto pubblico?

E chi, se non lo Stato, può indirizzare e sostenere la ricerca, la progettazione e la messa in opera di fonti energetiche alternative? E come può farlo se consegna aziende storiche alle multinazionali e non obbliga enti di ricerca come l'Enea ad operare in stretto rapporto con lo sviluppo e l'innovazione dell'industria?

In una nuova cornice, Ansaldo Energia, ad esempio, che oggi utilizza la tecnologia di altri per le centrali che fabbrica, deve rendersi autonoma da questo punto di vista, cominciare a studiare come costruire impianti per l'energia pulita e, magari, di produrre energia in proprio.

Le operazioni di rilancio delle aziende di Finmeccanica possono anche prevedere l'ingresso di privati che abbiano dimostrato capacità imprenditoriali reali, e che non siano soggetti (come è accaduto per Telecom e Autostade), interessati solo a trovare un luogo sicuro dove investire i propri soldi, partendo però da scelte industriali elaborate dal management e discusse e condivise dalle organizzazioni sindacali.

Diventa quindi importante costruire con le aziende pubbliche un nuovo sistema di relazioni industriali che dia al sindacato e ai lavoratori la possibilità di conoscere, criticare o condividere sia i processi legati alle alleanze internazionali, sia all'intervento di industriali privati, all'interno di una logica di difesa del patrimonio industriale nazionale.

Concretamente si tratta di raggiungere un protocollo di intesa che impedisca alle imprese di compiere azioni unilaterali e, valorizzando sia la professionalità dei manager che quella dei lavoratori, porti ad operazioni consensuali.

Lo schema che questo protocollo dovrebbe prevedere è il seguente: il management indica le linee principali di intervento, si apre il confronto con le organizzazioni sindacali prima di qualsiasi fase operativa, si raggiungono le intese necessarie, e solo a quel punto si apre la possibilità di apporti di capitali e capacità imprenditoriali privati, mentre Finmeccanica rimane nel pacchetto azionario con un quota in grado di garantire l'effettiva applicazione degli accordi condivisi.

Insomma, un nuovo governo potrà rilanciare il sistema industriale, e di conseguenza l'occupazione, se si dimostrerà capace di valorizzare l'enorme patrimonio che ancora oggi è di proprietà pubblica.

Maurizio Zipponi (Segr. gen. Fiom Milano)
Milano, 28 settembre 2004
da "Liberazione"