Elezioni europee, 12 - 13 Giugno 2004

LA SINISTRA, L'ALTRA EUROPA

PROGRAMMA DEL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA - SINISTRA EUROPEA

Simbolo PRC- SE

PARTE PRIMA.
UN'ALTRA EUROPA E' NECESSARIA E POSSIBILE

INDICE GENERALE

1.1 Lo scontro tra civiltà e barbarievai a indice

Le prossime elezioni europee si svolgono in un clima pesantemente segnato dall'avvitarsi della spirale tra guerra e terrorismo.

Dopo il terrificante attentato di Madrid l'Europa è stretta in una morsa.

Da un lato nei Balcani si riprende a sparare e ricomincia la tragedia degli scontri etnici; nel contempo diversi paesi europei, tra cui il nostro, mantengono la loro presenza militare in Iraq al servizio dell'occupazione militare statunitense ed in una situazione nella quale una guerra mai conclusa prosegue con rinnovata e maggiorata intensità. Le forze armate dei paesi europei sono ormai impiegate in azioni di sanguinose repressione delle crescenti proteste popolari. Dall'altro lato l'Europa è presa direttamente di mira dal terrorismo.

Il massacro di Madrid costituisce per l'Europa ciò che l'abbattimento e la strage della Twin Towers ha rappresentato per l'America. Se il numero di morti è stato inferiore, ancora più terribile è stato il messaggio. In questo caso non è stato colpito un simbolo dell'opulenza e dell'oppressione capitalista nel mondo, ma treni di lavoratori pendolari. L'obiettivo non era quello di colpire il potere politico ed economico, ma di disarticolare la società civile, di spargere un terrore indifferenziato rispetto ai luoghi e ai destinatari.

La guerra preventiva, infinita e indefinita teorizzata e praticata dall'amministrazione Bush da un lato, un terrorismo nichilista che moltiplica e intensifica i suoi atti dall'altro hanno gettato il mondo nel caos e nell'odio. E' in discussione la civiltà umana, quale insieme di acquisizioni sociali, materiali e culturali costruite nei secoli attraverso lo sviluppo del confronto e della lotta delle idee e delle classi Contrariamente a quanto sostengono storici e analisti statunitensi, ma non solo, non siamo di fronte a uno scontro tra diverse civiltà, quella dell'Occidente di cui sarebbero portavoce, alfieri e difensori gli USA contrapposta a quella rappresentata o egemonizzata dall'Islam.

Siamo di fronte a uno scontro tra civiltà e barbarie. Quest'ultima, di cui abbiamo visto una terribile rappresentazione nelle guerre in corso e nelle stragi terroristiche, si alimenta di due fondamentalismi. Quello del mercato, quello della mercificazione assoluta che non conosce limite neppure di fronte ai beni più comuni che la natura ha finora messo a disposizione di tutti, né di fronte agli organi viventi siano essi animali o umani. Quello che di volta in volta si ammanta di una motivazione religiosa, e/o etnica, e sempre si materializza nella distruzione di tutto ciò che è umano o che dal genere umano è stato prodotto.

Da un lato la guerra, dall'altro il terrorismo. La risposta va dunque fornita su entrambi i fronti e contemporaneamente. Rompere la spirale tra guerra e terrorismo è la grande battaglia di civiltà che abbiamo di fronte. Ora quando più ancora di prima, l'Europa è diventata terreno di questa contesa, affrontarla e risolverla è il primo e prioritario compito che dobbiamo porci.

Tutto questo non può in alcun modo limitarsi ad una ricerca delle forme migliori di difesa dell'Europa da possibili e purtroppo probabili attacchi terroristici. Questo problema non può certamente essere né trascurato, né tanto meno evitato, come vedremo in seguito, ma soprattutto non può essere assolutizzato, né pensato come il principale, per il semplice motivo che così facendo ogni difesa risulterebbe inefficace.

L'Europa è chiamata non tanto e comunque non solo a difendersi ma a giocare sullo scenario mondiale un ruolo attivo di pace.

1.2 Ritirare le truppe dall'Iraqvai a indice

Per queste ragioni il ritiro delle truppe dei paesi europei attualmente presenti in Iraq è decisivo. Questo atto sarebbe il segno inequivocabile delle scelta di chi vuole effettivamente spezzare la spirale guerra - terrorismo, e non certo vilmente sottrarsi. Interromperebbe le catene di complicità che legano importanti paesi europei alla teoria e alle politiche della guerra preventiva avanzate dall'Amministrazione Bush. Costituirebbe una risposta forte e chiara al tentativo purtroppo in atto di fare dell'Europa il nuovo teatro delle stragi terroristiche. Permetterebbe all'Europa, come è indispensabile che anche ogni singolo paese da subito faccia, come abbiamo recentemente chiesto sia nel Parlamento europeo che in quello italiano, di adoperarsi nel contesto e nelle sedi internazionali all'avvio, sotto l'egida delle Nazioni Unite e dei paesi arabi, di un processo costituente democratico in Iraq in grado di restituire la completa sovranità a quel popolo, destinando opportuni fondi, sottraendoli alle spese militari, per effettivi programmi e aiuti umanitari per la ricostruzione. Darebbe all'Europa quella spinta e quella credibilità che finora non ha mai avuto per porsi come interlocutore di pace nel drammatico conflitto israelopalestinese, reso ancora più terribile dopo la decisione dell'Amministrazione Sharon di procedere nella costruzione del muro, di uccidere lo sceicco Yassin capo di Hamas, di minacciare ripetutamente e insistentemente la stessa vita del Presidente Yasser Arafat.

1.3 La crescita del movimento contro la guerra e il neoliberismovai a indice

Le manifestazioni mondiali del 20 marzo, che hanno visto a Roma un punto di eccellenza per qualità e quantità di partecipazioni, hanno trasmesso un messaggio inequivocabile. Nel primo anniversario dell'inizio della guerra in Iraq “la seconda superpotenza mondiale” - secondo la splendida ed efficace definizione data nei giorni successivi al 15 febbraio dello scorso anno dal New York Times - è scesa in campo ancora più forte e più diffusa di prima.

Non era affatto scontato che così dovesse avvenire. Vi era infatti chi pensava che l'avvento della guerra, malgrado che più di cento milioni di persone fossero scese in piazza in tutto il mondo per cercare di impedirla, avrebbe provocato una demoralizzazione e quindi una sconfitta del movimento per la pace.

Così non è stato. Così non è stato neppure di fronte alla strage di Madrid. Il Movimento contro la guerra e contro il liberismo ha dimostrato la sua continuità, ma ha anche sottolineato il suo radicamento nel contesto europeo.

Le prossime elezioni europee non si svolgono quindi solamente nel quadro dominato dalla spirale guerra-terrorismo, ma anche e speriamo soprattutto in quello contrassegnato da un avanzamento formidabile del movimento europeo contro la guerra e il neoliberismo, quale parte del movimento mondiale “altromondista”.

Con questo neologismo, vogliamo indicare precisamente il salto di qualità del movimento da una posizione, peraltro indispensabile, di radicale opposizione ai processi di globalizzazione, ad una che si muove nella ricerca della proposta di costruzione di una società alternativa. A questa nuova fase di maggiore maturità del movimento hanno contribuito i due Forum sociali europei, quello di Firenze del 2002 e quello di Parigi del 2003, nonché il terzo forum mondiale di Mumbay del 2004.

In questi incontri internazionali è cresciuto e si è diffuso un pensiero alternativo. Non solo, dunque, il “pensiero unico” della globalizzazione, che ha lungamente dominato la scena nell'ultimo decennio del secolo scorso, è definitivamente spezzato, ma cominciano a prendere forma un pensiero e un progetto alternativi. Naturalmente si tratta ancora di un processo, tutt'altro che compiuto e definitivo, ma nessuno può trascurare che è in corso un gigantesco processo collettivo di costruzione di una nuova visione del mondo, appunto di un nuovo mondo possibile, che si sviluppa a livello mondiale e a livello europeo.

E' un passaggio che avviene con modalità e protagonisti ben diversi che nel passato. L'apporto di singole intellettualità è indubbiamente rilevante, come pure quello di quegli intellettuali collettivi - per continuare a usare la geniale formula gramsciana - che ancora possono essere identificati in forme associative tradizionali, come i partiti o i centri di analisi e ricerca.

Ma vi è una novità essenziale che bisogna cogliere e che avrà enorme incidenza nella vita politica delle formazioni europee, e non solo, nei prossimi anni. Questa è costituita, appunto, nell'ingresso sulla scena del pensiero politico del movimento, nelle sue molteplici e articolate espressioni. Per movimento intendiamo un insieme ricco e composito, di cui fanno parte anche forme partitiche che hanno deciso di agire al suo interno in modo innovativo e senza pregiudiziali pretese egemoniche, ma che è contrassegnato in modo originale dalla presenza di forze sociali, associative, dei movimenti particolari e più generali, da forze intellettuali che tutte, allo stesso titolo, partecipano ad una creazione collettiva di pensiero e di azione.

Questa è la fondamentale barriera contro la barbarie. Qui noi, come parte della sinistra alternativa europea, ancoriamo le nostre basi. Alla crescita di questo movimento affidiamo la speranza della possibilità di vincere le lotte per la pace, di sconfiggere sia la guerra che il terrorismo, di porre le fondamentali e imprescindibili condizioni per battere il neoliberismo, per fondare una società alternativa.

Solo qualche anno fa, ad esempio agli inizi della legislatura europea che oggi si conclude, tutto questo appariva iscritto nel campo dei desideri, delle volontà, delle speranze, oggi risiede in quello delle possibilità.

In questi cinque anni la talpa dei movimenti contro la guerra e il liberismo, dei movimenti politici, intellettuali e sociali ha scavato a fondo. Ha permesso la nascita di nuove soggettività, sia sul terreno sociale che, seppure in modo più limitato, sul terreno politico.

Chiedersi come mai tutto ciò sia potuto avvenire non è quindi un esercizio ozioso. Anzi è un aspetto fondamentale dell'analisi che dobbiamo compiere per decidere cosa fare.

1.4 La crisi della globalizzazione capitalistavai a indice

La crescita di un tale movimento mondiale contro la guerra e il liberismo non sarebbe comprensibile senza considerare le dinamiche della crisi del processo di globalizzazione capitalistica. Nell'ultimo quarto del secolo che abbiamo alle spalle si è prodotto nel mondo uno straordinario processo di ristrutturazione e di globalizzazione capitalistiche. Per la sua portata, l'incidenza, l'intensità e la rapidità di diffusione, questo fenomeno merita la qualifica di una rivoluzione capitalistica restauratrice.

L'ossimoro è presto spiegato. Le modificazioni intervenute, cioè il passaggio da una produzione di massa per un consumo di massa, che hanno caratterizzato il periodo fordista-taylorista, accompagnato dall'esistenza di uno stato sociale, frutto del compromesso via via raggiunto nel corso del conflitto fra lavoro e capitale tra le lotte delle masse popolari e del capitale, ad una produzione su misura per le esigenze del mercato, accompagnato da una crescente finanziarizzazione del capitale su scala mondiale, che ha comportato processi giganteschi di privatizzazione e quindi di distruzione dello stato sociale di ogni spazio pubblico, hanno dimostrato straordinaria capacità di modificazione del sistema capitalista, ma in senso conservativo, nel senso precisamente che al culmine di questo processo, cioè nel tempo attuale, i più ricchi sono sempre più ricchi e i più poveri sono sempre più poveri. Questo avviene sia su scala mondiale, nel drammatico confronto tra paesi ricchi e paesi poveri, che all'interno dei singoli paesi, tra classi e ceti subalterni e classi e ceti dominanti. Questa ultima condizione è molto chiara negli Usa, ma il modello americano cerca di estendersi anche nel contesto europeo.

Non è un processo nuovo. E' intervenuto lungo tutti gli anni '90 del passato secolo. Ha comportato un attacco senza precedenti alle condizioni di vita della classi lavoratrici, sia dal punto di vista della loro condizione salariale che da quella del loro accesso ai servizi sociali fondamentali.

Ovviamente questo attacco ha conosciuto diversi livelli di intensità a seconda delle condizioni nelle quali ogni singolo paese si trovava, a seconda delle rispettive tradizioni del movimento operaio, sindacale, politico, democratico, a seconda del livello delle conquiste sociali già sedimentate realizzate e istituzionalizzate. Ma si è comunque trattato di un fenomeno generale che ha investito l'intera Europa.

Oggi il problema si ripresenta con rinnovate caratteristiche. Queste derivano dalla nuova fase che la globalizzazione capitalistica attraversa proprio nel passaggio di secolo. Questa, che si è sviluppata con la massima intensità dopo il crollo totale della già fragile opposizione opposta dai paesi del cosiddetto socialismo reale, conosce oggi una crisi di grandi dimensioni. Naturalmente crisi non vuole dire crollo, ma indica una fase di profonda difficoltà aperta a diverse soluzioni. Tra queste non è realistica quella di un semplice ritorno al passato, come se si potesse mettere semplicemente tra parentesi la stagione devastante delle guerre e del neoliberismo selvaggio. Come se si potesse cancellare quel processo di sfruttamento intensivo e di distruzione delle risorse del pianeta che, nelle analisi avanzate dal Pentagono americano, motiverebbe addirittura la ragione della guerra preventiva.

La scelta, assai più drammaticamente, sta appunto tra il ritorno alle barbarie e la costruzione di una società alternativa.

1.5 La crisi economica internazionalevai a indice

La crisi di cui parliamo si compone di diversi elementi. Tra questi, due ci paiono essenziali per descrivere le condizioni del mondo attuale.

Il primo riguarda la crisi economica internazionale. Tutti i tentativi di minimizzarla e per darla per superata o immediatamente superabile sono almeno finora falliti. Dall'America, all'Europa, al Giappone, fino alle Tigri Asiatica il mondo economico conosce una stagnazione che per alcuni paesi è vera recessione. Nel caso dell'Italia valenti economisti definiscono il periodo che va dal 2000 al momento presente come il periodo di stagnazione e di recessione più grave e rilevante negli ultimi 50 anni. Non solo le “magnifiche sorti e progressive” della globalizzazione capitalistica sono state vanificate dalla concreta evoluzione storica, ma anche il cosiddetto “periodo d'oro” del capitalismo, ovvero quello rappresentato dal terzo quarto di secolo del novecento, appare appartenere definitivamente ad un passato non proponibile. Questa crisi trascina con sé crolli e crack clamorosi sul piano finanziario, chiusura di aziende, processi di delocalizzazione verso zone del mondo ove il costo del lavoro è ridotto ai minimi termini, provvedimenti di flessibilità selvaggia in sostituzione di ogni norma legislativa faticosamente conquistata a tutela del lavoro, disoccupazione e precarietà, abbassamento dei valori reali dei salari, delle retribuzioni e delle pensioni, allungamento della durata della giornata e della vita lavorativa.

In sintesi siamo di fronte a un gigantesco processo di impoverimento delle masse popolari, il più grave e rilevante dal dopoguerra in poi, che è particolarmente avvertito nel nostro paese, ove la quantità di ricchezza prodotta che va ai redditi da lavoro si aggira ormai attorno a solo il 40% del Pil, più di 10 punti meno degli altri paesi europei più industrialmente sviluppati.

In queste condizioni anche le più ottimistiche previsioni che vengono diffuse in queste ultime settimane, non a caso in contemporanea con la lunga campagna per le elezioni presidenziali americane, su segnali di ripresa dell'economia di quel paese ben difficilmente potranno trasformarsi in un'occasione per una ripresa economica dell'Europa e della maggioranza dei paesi che la compongono.

1.6 La crisi di consensovai a indice

Il secondo elemento, strettamente connesso al primo, riguarda la caduta di quella specie di consenso passivo o di sospensione di giudizio da parte dei popoli e di parti delle classi lavoratrici nei confronti della globalizzazione capitalistica. Tali atteggiamenti erano anche indotti dalla speranza, coltivata dalla sinistra moderata e dai sindacati, di introdurre forme di governo e di governance più democratiche della globalizzazione, senza però intaccarne i processi e le logiche di fondo. Questa, al suo inizio e per un certo periodo veniva vista, oltre che interessatamente propagandata, se non come un'occasione di miglioramento generale delle condizioni di vita per tutti, come ineluttabile Questa illusione è svanita. La percezione generale è quella che siamo di fronte a un impoverimento non solo relativo, ma assoluto di popoli; classi e ceti sociali. Non altrimenti si può spiegare la ribellione mondiale contro i centri di governo della globalizzazione capitalistica. Dopo il fallimento di Seattle, abbiamo avuto quello di Cancun. In sostanza l'Organizzazione Mondiale del Commercio non è più in grado di assumere decisioni che passano sopra le teste dei popoli.

Questi fallimenti sono stati prevalentemente determinati dallo sviluppo del movimento m9ondiale contro la guerra e il neoliberismo. Ma certamente ha pesato anche l'atteggiamento e il comportamento di governi di diversi paesi del Sud del mondo che hanno saputo opporre una qualche resistenza ai centri di potere e di comando della globalizzazione.

Anche questo è un segno importante di cambiamento della situazione e sarebbe inconcepibile senza lo sviluppo del movimento mondiale. La crisi che ha investito da tempo il ruolo degli stati nazionali, quale conseguenza diretta del processo di globalizzazione, non ha certo invertito la sua tendenza, ma gli stati possono ritrovare una capacità di iniziativa e di assunzione di politiche indipendenti dalle forze dominanti nel mondo se riescono a stabilire un efficace livello di connessione con i movimenti e a costruire un quadro di nuove relazioni internazionali. Questa ci sembra la lezione che viene da Cancun, ma questa considerazione non è solo valida per i paesi dell'America Latina ma riguarda anche l'Europa.

1.7 I cambiamenti politici e i processi sociali in Europavai a indice

Le cose quindi possono cambiare. Lo si è visto anche nelle recenti elezioni politiche in Spagna e regionali in Francia, Lì il vento della sinistra è tornato a soffiare, anche se in primo luogo bisogna parlare di una sconfitta del liberismo, dei governi e delle destre. Il dato non deve però indurre a facili ottimismi, ma c'è, e non crediamo possa essere confinato nelle vicende specifiche e accidentali dei singoli paesi. Quindi può essere assunto come una possibile linea di tendenza che sta a noi, in primo luogo nel nostro paese, confermare e rimarcare nella scadenza di giugno. Il governo Berlusconi ha trascinato il paese in una crisi economica, sociale e democratica senza precedenti e si sta impegnando attivamente in guerre e in occupazioni militari al seguito degli Stati Uniti. Vuole trasformare l'Italia in un paese di servizio della globalizzazione, accelerando il declino e la devastazione industriale, lo smantellamento dello stato sociale, la privatizzazione delle strutture economiche e dei servizi, la flessibilità e la precarizzazione del lavoro, l'impoverimento della popolazione, mentre ha favorito solo ristretti ceti sociali e di potere. Sta modificando in senso ademocratico la costituzione materiale e formale del nostro paese. Ma tutti questi processi hanno aperto un processo di scollamento tra questa maggioranza di governo e i suoi referenti sociali, oltre che creare un'opposizione diffusa alle sue politiche antidemocratiche di guerra. Così nel paese l'opposizione a questo governo si è rafforzata, estesa, socialmente qualificata. E' quindi possibile, oltre che giusto e necessario, porsi anche in Italia l'obiettivo della sconfitta del governo e della sua maggioranza, anche ben prima della fine naturale della legislatura.

Ai processi di crisi della globalizzazione corrispondono quindi segnali consistenti di perdita di consenso e di attrattiva delle formazioni politiche e dei governi che più direttamente ne hanno interpretato le aspirazioni e gli interessi. Questo ci dicono le sconfitte delle destre spagnole e francesi in due paesi ove i rispettivi governi hanno avuto atteggiamenti e comportamenti assai diversi in politica internazionale e segnatamente sulla questione della guerra. Nella scelta degli elettori hanno dunque pesato anche altre questioni, oltre a quelle delle bugie dei governi sul terrorismo e sulla guerra. Ha pesato la questione sociale, i guasti della crisi economica, l'incertezza del futuro delle popolazioni rispetto al loro lavoro e a una pensione dignitosa. La lotta contro il neoliberismo, insieme a quella per la pace, hanno ben seminato. Nello stesso tempo queste votazioni in Europa hanno dimostrato quanto acuta e aperta sia la questione democratica.

1.8 La crisi del riformismovai a indice

Contemporaneamente si approfondisce la crisi delle sinistre moderate, delle evanescenti prospettive riformiste, dell'idea stessa di dare vita ad un governo democratico della globalizzazione capitalistica. I progetti di dare vita a formazioni riformiste soprannazionali di ampio respiro si susseguono senza apprezzabili successi, o più semplicemente sprofondano in tattiche elettorali e nominalismi di sigle. Le esperienze di governo che percorrono la strada della decurtazione dello stato sociale, come in Germania, incontrano un'opposizione popolare crescente. E' evidente che siamo di fronte ad una crisi profonda del riformismo, almeno nelle forme storiche fin qui conosciute.

Vi sono ragioni obiettive che possono spiegare questo processo. Da un lato la gravità, la profondità della crisi economica, la competitività esasperata delle imprese e dei sistemi finanziari riducono sensibilmente o addirittura tendono ad eliminare del tutto, all'interno del modello della globalizzazione capitalistica, la possibilità di una ridistribuzione anche solo pallidamente un po' più equa della ricchezza prodotta, che infatti finisce in maniera sempre crescente in direzione dei profitti e delle rendite. Dall'altro lato questo capitalismo, e ancora di più ora che si manifestano quei potenti segnali di crisi che abbiamo fin qui descritto, si mostra sempre più incompatibile con le forme stesse della democrazia, spingendo verso soluzioni istituzionali autoritarie e a-democratiche, impermeabili e insensibili alla volontà popolare e persino alla possibilità di decisione degli stessi governi, vista la loro perdita di peso e ruolo a causa della concentrazione di poteri verso i centri incontrollabili di decisione soprannazionali e le spinte alla frantumazione localista degli stati nazionali.

1.9 La guerra porta ad una drastica limitazione della democraziavai a indice

Alla guerra preventiva, infinita e indefinita corrisponde sul piano interno la logica dello stato d'eccezione che si dilata in quella dell'Europa come “fortezza” e che paradossalmente diventa regola, ove si sviluppano razzismo e xenofobia, politiche antimmigrazione e di sequestro in centri di detenzione dei cittadini extracomunitari, soffocamento e limitazione di tutti gli spazi democratici e delle stesse libertà individuali dei cittadini.

In questo quadro la lotta al terrorismo diventa facilmente pretesto per dare sfogo ad una deriva securitaria, che comporta produzione di leggi speciali, comportamenti gravemente restrittivi delle più elementari libertà personali, criminalizzazione del dissenso e drastiche limitazioni alle iniziative collettive, pressioni sulla magistratura e attacco a tutta la cultura giuridica garantista. Il tema dell'Europa concepita come una fortezza dell'Occidente si coniuga con l'idea della costruzione di un esercito europeo con scopi interventisti e offensivi, che rappresenterebbe un ulteriore grave passo nella direzione bellicista ben oltre il mutamento di ruolo della Nato già avvenuto negli anni antecedenti.

1.10 La nostra critica al progetto di Costituzione europeavai a indice

La duplice crisi, delle destre e della sinistra moderata, si è manifestata in modo evidente nella costruzione del progetto di Costituzione europea e nel fallimento dei suoi primi tentativi di approvazione. Quel progetto, determinato con una metodologia verticistica e tecnicistica, si qualifica per i suoi contenuti come il tentativo di fornire dignità e forma costituzionale al neoliberismo, ad un'Europa dei mercati e dei mercanti.. In quel quadro il cittadino europeo è solo di fronte al mercato e al potere, è considerato come una figura socialmente indeterminata e astratta, un ingranaggio in un sistema globale del quale non può decidere le regole. Non vi è in quel progetto né il ripudio della guerra, né l'affermazione del diritto al lavoro e quindi l'impegno a rimuovere le cause sociali che lo impediscono. Se quel progetto venisse approvato in quei termini ed avesse un carattere rigido, cioè non suscettibile di modifiche successive, rappresenterebbe un pesante passo indietro rispetto alle costituzioni nazionali sorte nel secondo dopoguerra e rispetto alla prospettiva della costruzione di un'Europa sociale e di pace, di un'Europa dei popoli. E ciò ci pare tanto più grave di fronte all'allargamento dell'Unione europea a nuovi paesi.

1.11 Per costruire l'Europa dei popoli ci vuole una svolta radicalevai a indice

Il nostro partito ha sempre condiviso gli obiettivi del consolidamento e dell'allargamento dell'Unione europea all'intera Europa. L'unità di paesi europei, nelle diverse forme, ha rappresentato per cinquant'anni un fattore di pace in un continente che è stato lacerato per secoli da lotte fratricide. In questo contesto lo sviluppo della lotta di classe e l'iniziativa del movimento operaio hanno favorito la crescita democratica e quella delle condizioni di vita delle popolazioni dei paesi membri. Ma il ristabilimento del primato del mercato e le politiche neoliberiste hanno rovesciato la tendenza. Oggi l'Europa è solo integrazione economica e monetaria, senza alcun ruolo nella politica internazionale e senza un'idea di modello sociale proprio. C'è bisogno di una svolta radicale. Il mondo, stretto nella morsa tra la barbarie della politica di guerra promossa dagli Stati Uniti e la barbarie del terrorismo, ha bisogno di tornare ad una costellazione di realtà politiche importanti e di dare nuovo ruolo e nuovo vigore alle Nazioni unite, e per ottenere questo c'è bisogno di una solida Europa.

Ma questo non comporta affatto la condivisione dell'idea che è di gran parte delle forze politiche nel nostro paese secondo cui per consolidare politicamente l'Unione europea bisognerebbe proseguire sulla strada seguita in questi ultimi quindici anni, in sostanza dal Trattato di Maastricht in poi. Ne' appaiono convincenti i vari e confusi progetti di avviare progetti d'Europa a diverse velocità. Rispetto al passato si sta d'altro canto diffondendo la consapevolezza di una crisi ampia e del rischio di un collasso dell'Unione europea proprio dovuti alle politiche perseguite in questi quindici anni. Occorre perciò cambiare strada.

L'elencazione dei punti significativi di crisi in sede di tenuta o di costruzione dell'Unione europea è davvero impressionante. Parimenti lo è il fatto che i vari punti e momenti di crisi si siano venuti configurando e ammassando in un periodo abbastanza breve.

Dinnanzi alla guerra degli Stati uniti all'Iraq, l'Unione europea si è lacerata tra governi che a questa guerra si sono uniti, in un modo o nell'altro, e governi che invece l'hanno criticata e non vi hanno partecipato. A questa lacerazione possiamo aggiungere, in quanto anch'essa indicativa di una subalternità di molti governi agli Stati uniti, l'incapacità dell'Unione europea di opporsi al tentativo del governo di destra di Israele di impadronirsi di nuovi territori palestinesi e di chiudere in ghetti la relativa popolazione.

Il tentativo di dare all'Unione europea entro la fine del 2003 una Costituzione è fallito apparentemente a causa delle posizioni incompatibili dei vari governi in merito agli assetti istituzionali, cioè di ripartizione dei poteri tra Consiglio europeo, Commissione e Parlamento; così come in merito alle materie che potevano essere oggetto di voto a maggioranza invece che all'unanimità e alle modalità di calcolo del voto a maggioranza in seno al Consiglio. In realtà le cause del fallimento sono più profonde e risiedono nel fatto che quel progetto non ha saputo proporre un modello sociale originale e una risposta alla crisi della democrazia.

D'altro canto l'unico attore che avrebbe potuto imporre ai governi comportamenti più coerenti, e cioè le popolazioni europee, è stato accuratamente tenuto fuori dalla partita dai governi e dalle forze politiche che li appoggiano, sia che si tratti di destre che di sinistre moderate. Così la discussione sui contenuti della Costituzione è avvenuta tra addetti ai lavori e questo è accaduto non a caso poiché i contenuti sociali della Costituzione altro non sono che la continuazione delle politiche di taglio della spesa sociale e di precarizzazione delle condizioni di lavoro imposte dai Trattati di Maastricht e di Amsterdam, dei quali i governi delle destre e delle sinistre moderate furono autori. Quindi i gravi guasti sociali determinati dalla strada fin qui percorsa dall'Unione europea in questi quindici anni sono diventati un freno alla sua costruzione politica.

1.12 Superare il Patto di stabilitàvai a indice

Il principale strumento delle politiche antisociali di questi quindici anni, il cosiddetto Patto di stabilità, cioè una politica dei bilanci pubblici orientata al pareggio, che quindi taglia le possibilità di spesa sociale e per investimenti pubblici o per la ricerca dei paesi membri, è stato recentemente contestato e in pratica messo da canto da parte di Germania e Francia, e vivacemente contraddetto anche dall'Italia, per la sua particolare insostenibilità nelle attuali condizioni di stagnazione e recessione economica.. Tuttavia anziché proporre criteri di governo economico più efficaci la Commissione europea ha denunciato questi paesi per violazione dei Trattati dinanzi alla Corte europea di Lussemburgo, aprendo così un conflitto che può solo allargare la crisi politica dell'Ue. Al tempo stesso, e in modo incoerente, la Commissione europea sta chiedendo ai governi dei paesi membri più risorse da spendere per la ricerca, la formazione, le infrastrutture, quindi sta chiedendo di allargare i deficit di bilancio.

Ovviamente la risposta dei governi, e, per essi, del Consiglio è stata negativa.

La politica monetaria dell'Unione europea, affidata alla gestione della Banca centrale europea, ha portato a una rivalutazione tale dell'euro in confronto al dollaro da danneggiare seriamente le esportazioni europee, al punto da frenare o quantomeno ridurre le possibilità di una ripresa dell'economia dei paesi europei. Questo comporta un'ulteriore diminuzione nella possibilità di spesa sociale e di investimenti a fini produttivi da parte degli stati membri e un incremento della disoccupazione. Inoltre l'inflazione in alcuni paesi europei, in particolare in Italia, ha ripreso a salire con l'introduzione dell'euro.

L'idea che è stata recentemente ripresa da parte di chi governa l'Ue per uscire dalla situazione di pesante stagnazione economica e per prevenire il rischio di un declino generale della costruzione europea, a fronte delle superiori capacità competitive degli Stati uniti da un lato e dei sistemi emergenti asiatici dall'altro, è quella di forti investimenti in infrastrutture.

Il governo Berlusconi è stato tra i propugnatori di questa idea.

Prescindendo per un attimo dal fatto che queste opere infrastrutturali non corrispondono a reali esigenze di sviluppo economico, bensì più propriamente a quelle di comitati di affari; mettendo per un momento tra parentesi che spesso queste provocano immani disastri ambientali e della vivibilità del territorio, vi è da sottolineare che non si capisce dove l'Ue e gli stati membri possano prelevare le risorse di spesa necessarie, a meno di sostituire le regole del Patto di stabilità con una politica di bilancio espansiva, che però dichiarano di non volere fare. Questo spingerà i governi, per disporre di un minimo di capacità di spesa, a tagliare sul versante della spesa sociale e, per tentare un minimo di ripresa economica, a precarizzare ulteriormente le condizioni di lavoro.

Assistiamo inoltre all'attacco alle condizioni di vita delle popolazioni contadine, il che comporta la creazione di nuovi disoccupati. Oltre il 40% della spesa della Ue è riservato all'agricoltura. L'utilizzo di queste risorse sono oggi considerate eccessive dai governi e dalla Commissione europea.

In realtà non sarebbe impossibile né difficile una politica di risparmi che tuteli il reddito contadino, le produzioni locali e la qualità delle stesse, l'agricoltura di montagna, dei vari sud e degli estremi nord, nonché il paesaggio di queste zone. Questa idea è tanto più necessaria quando il legame con il territorio è proprio la condizione per lo sviluppo stesso, come appare chiaro particolarmente nell'Europa del su e mediterranea. Ma proprio qui si vuole tagliare, poiché il grosso della spesa resta a sostegno dell'impresa capitalistica e della grande industria agroalimentare.

In conclusione, crisi sociale, crisi economica, crisi ambientale, crisi democratica, crisi degli assetti istituzionali e assenza di ruolo internazionale sono tutti processi in corso, in uno stadio più o meno avanzato, entro l'Unione europea.

1.13 La costruzione dell'identità europea e di una nuova idea di cittadinanzavai a indice

Questo intreccio di problemi richiama la necessità di riflettere anche sulla necessità di costruzione dell'identità europea. L'identità non può che risultare dall'incontro fecondo tra l'eredità culturale delle nostre società e il progetto per una realtà futura.

Ereditiamo esperienze di dolore, violenze, guerre, oppressione di popoli e di interi continenti, non dimentichiamo infatti che in Europa si è sviluppato il colonialismo ed è nato il nazismo, ma la riconsiderazione critica del nostro passato ci offre anche preziose eredità. In questo continente il cristianesimo gettò i germi della grande utopia dell'eguaglianza di tutti gli esseri umani, salvò dalla dissoluzione le idee classiche dell'umanesimo; poi la riforma protestante inventò l'individualità della persona e ancora le rivoluzioni liberali che seguirono inventerano la nozione della cittadinanza moderna. Il movimento operaio, con le sue lotte e la sua ricerca di riscatto, riscoprì, in una dimensione nuova, comunitarismo, diritti e cittadinanza, praticò, tra terribili contraddizioni, arditi percorsi di liberazione. Gli Stati europei che avevano costruito le nostre identità nazionali si contaminarono con le spinte alla riforma sociale del movimento operaio, sviluppando originali forme di democrazia sociale, ampi campi del diritto e del welfare.

Ereditiamo queste identità molteplici che sfidano il nostro presente, colpito dalla regressione di civiltà provocata dal neoliberismo.

Ma la ricerca di un'identità è gravemente esposta al non riconoscimento delle altre culture se non sa alimentarsi di una dimensione più ampia e cosmopolita. Può riproporsi come nuova nostalgica centralità e rinchiudersi in una nuova storia di fortezza assediata. Invece l'Europa, come continente di pace, mediatrice “evanescente” tra le esperienze umane così differenti nella storia attuale del mondo, potrà essere un asse, tra passato e futuro, per questa prospettiva di cambiamento.

Senza illusioni, riconosciamo che l'occidente non va in questo senso, ma sappiamo, ce lo dice un grande movimento mondiale contro la guerra e il neoliberismo, che una nuova direzione è concretamente possibile.

Ecco perché occorre cambiare strada e in fretta. Da qui sviluppiamo il nostro ragionamento e le nostre proposte.

Esse parlano di un'altra Europa, necessaria e possibile. La crisi economica mondiale propone su scala regionale il tema di uno sviluppo originale e autocentrato, fondato sull'incremento qualitativo e quantitativo della domanda interna, sul miglioramento della qualità della vita, del modello e dell'organizzazione sociali. L'avvitarsi della spirale fra guerra e terrorismo richiede all'Europa di svolgere un forte ruolo di pace, di porsi, anche per vocazione storica e culturale, come un ponte di solidarietà e di cooperazione fra Nord e Sud del mondo. L'incompatibilità sempre più evidente fra le logiche dominanti di questa globalizzazione capitalistica e le regole della democrazia, sollecitano l'Europa, sulla base anche della rilevante esperienza storica del movimento operaio europeo, a proporre e sperimentare un originale sistema di organizzazione democratica fondato sulla massima partecipazione, sulla coniugazione sempre più stretta tra forme di democrazia diretta e delegata.

1.14 La nascita del partito della Sinistra Europeavai a indice

Non siamo soli a farlo. Il Partito della Rifondazione comunista si presenta a queste elezioni europee avendo contribuito alla nascita e alla costruzione del Partito della Sinistra Europea, il cui nome compare anche nel nostro simbolo rinnovato.

Si è infatti verificato un fatto nuovo a sinistra e in Europa. Con la riunione di Berlino e il congresso di Roma è stato sancito un importante processo di unità anche sul terreno delle forze politiche della sinistra d'alternativa, in sintonia con quel grande movimento mondiale che si qualifica sulle discriminanti della lotta alla guerra e al neoliberismo.

E' una scelta che avevamo deciso da tempo, in modo esplicito nei documenti approvati nel nostro ultimo congresso nazionale, ed a cui abbiamo lavorato con tenacia negli ultimi anni. E' la scelta di assumere come propria la dimensione europea dell'agire politico, la sola che può influire su una politica sempre più mondializzata.

Si tratta di un primo passo, dell'inizio di un processo aperto all'adesione di altri partiti, formazioni politiche o di singole persone, ma costituisce già ora un salto in avanti nel rinnovamento della cultura politica della sinistra e delle sue forme organizzative. Insomma un momento importante nel processo della rifondazione comunista.

Come abbiamo detto perseguire una politica di pace comporta atti inequivocabili, come il ritiro immediato delle truppe di occupazione in Iraq, sempre più impegnate in un'azione di repressione sanguinosa delle manifestazioni popolari di protesta, ma nello stesso tempo è necessario operare per costruire un'alternativa alle politiche liberiste. Dopo avere affermato con forza l'assoluta priorità e urgenza del primo tema, cominciamo a sviluppare il nostro ragionamento programmatico per un'Europa sociale e di pace, a partire dalla delineazione di linee guida per una politica economica complessivamente alternativa a quella attualmente praticata che ha trascinato l'Europa in una condizione di recessione, di impoverimento delle popolazioni, di arretramento del suo modello di vita sociale e civile.

INDICE GENERALE
Partito della Rifondazione Comunista - Italia
Roma, 17 maggio 2004