Elezioni europee, 12 - 13 Giugno 2004

LA SINISTRA, L'ALTRA EUROPA

PROGRAMMA DEL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA - SINISTRA EUROPEA

Simbolo PRC- SE

PARTE SECONDA.
L'ALTERNATIVA AL NEOLIBERISMO

INDICE GENERALE

2.1 La crisi sociale ed economica europeavai a indice

L'affermarsi, nel corso dell'ultimo quarto di secolo, del modello neoliberista della globalizzazione capitalistica ha sconvolto l'assetto politico, economico e sociale dell'Europa. Il comando del capitale sul lavoro e sulla società è stato pienamente ripristinato, dopo la grande stagione delle lotte operaie e sociali, attraverso una sistematica opera di innovazione tecnologica, organizzativa, sociale, politica e culturale che ha riconfigurato il capitalismo europeo.

Quei caratteri di civiltà, peculiari delle società europee, fondati su un insieme di diritti e di protezioni sociali universalmente garantiti dal sistema pubblico del Welfare, sono stati progressivamente erosi attraverso le politiche di privatizzazione dei servizi sociali e dei beni comuni.

I livelli di protezione normativa e sindacale dei lavoratori europei hanno subito una drastica riduzione, tanto che oggi la precarietà e l'insicurezza sono comuni a tutto il mondo del lavoro subordinato. Una poderosa redistribuzione del reddito a favore del capitale ha portato la quota dei profitti e delle rendite sul prodotto totale dell'Unione Europea dal 30% ad oltre il 40%, a scapito dei salari. Particolarmente colpiti sono stati i giovani e le donne, a conferma dell'esistenza di uno stretto legame tra il peggioramento delle condizioni materiali e l'arretramento civile e culturale in atto sul terreno dei diritti e delle pari opportunità.

Accanto alla crescita delle disuguaglianze sociali, si è anche verificato un progressivo allargamento della forbice tra i redditi pro capite delle regioni più ricche e quelli delle regioni più povere dell'Unione, nonostante una forte (e per certi versi drammatica) ripresa dei fenomeni migratori. Questo fenomeno scaturisce da una carenza ormai endemica di infrastrutture e beni pubblici nelle regioni più arretrate del continente, dall'abbandono delle politiche pubbliche di localizzazione industriale nelle aree a maggiore presenza di disoccupazione e dalla tendenza delle imprese a prediligere l'investimento nei paesi terzi, spesso caratterizzati dall'assenza totale di vincoli normativi e sindacali allo sfruttamento del lavoro e dell'ambiente e da salari che non raggiungono il 30% di quelli prevalenti nelle regioni meno sviluppate d'Europa.

Le politiche economiche perseguite nei singoli Stati dell'Unione, anziché contrastare queste tendenze, le hanno al contrario favorite e rafforzate.

Infatti, se si osservano i dati sui bilanci pubblici, si nota come la gran parte dei paesi europei tende da molti anni ad accumulare avanzi primari, cioè a prelevare dai contribuenti più denaro di quanto viene speso in previdenza, sanità, istruzione, servizi e infrastrutture. L'eccesso di entrate fiscali sulle spese è destinato al pagamento degli oneri sul debito pubblico accumulato in passato. Inoltre, nell'ultimo ventennio nella UE si è verificato uno spostamento medio dei carichi fiscali dai redditi da capitale ai redditi da lavoro nell'ordine dei due punti percentuali di Pil. Infine, riguardo alle politiche di sviluppo territoriale, appare sconcertante l'enorme divario tra le urgenti necessità di finanziamento per le aree meno sviluppate d'Europa e il sempre più esiguo volume di risorse nazionali e comunitarie destinate ad esse. Paradossale in tal senso appare l'attuale orientamento dell'Unione, teso a ridurre la percentuale di risorse destinate alle aree depresse proprio in concomitanza con l'allargamento ad Est dell'Europa.

Oltre alla drammatica accentuazione delle disuguaglianze sociali, il modello neoliberista ha prodotto anche un drastico abbassamento della stessa crescita economica europea. Se già nel corso degli anni Novanta la dinamica dell'economia europea era sensibilmente rallentata rispetto ai decenni precedenti, negli ultimi tre anni l'UE è entrata in una situazione di profonda crisi economica strutturale, fatta di un continuo alternarsi di fasi di stagnazione e di fasi di vera e propria recessione. La disoccupazione è tornata a crescere, raggiungendo ormai valori prossimi al 9% della forza lavoro europea. L'orientamento fortemente restrittivo della politica monetaria e della politica fiscale, imposto dai vincoli di Maastricht e del Patto di Stabilità, ha soffocato le potenzialità di sviluppo economico dell'Europa, comprimendo la domanda interna. L'apprezzamento dell'euro ha aggravato la competitività delle merci europee, già erosa dalla concorrenza dei Paesi asiatici. La redistribuzione del reddito verso i ceti più ricchi ha prodotto un nuovo, allarmante fenomeno di dualismo dei consumi: mentre i consumi di lusso e opulenti hanno continuato a crescere, i consumi essenziali e i consumi pubblici e collettivi sono invece stagnanti o addirittura in forte calo. Questo fenomeno ha inciso negativamente sulla crescita economica, non solo contribuendo ad accentuare la carenza di domanda effettiva, ma anche generando pesanti distorsioni nella struttura dell'offerta attraverso il progressivo deterioramento delle infrastrutture e dei beni e servizi pubblici e l'accentuazione del degrado dell'ambiente e della natura.

2.2 Una nuova concezione dell'economiavai a indice

Il rilancio del processo di sviluppo economico europeo passa così non solo attraverso una tradizionale e indiscriminata manovra espansiva del livello della produzione, ma attraverso un contemporaneo mutamento della composizione della domanda e del prodotto sociale. Per uscire dalla crisi è necessaria una politica espansiva selettiva, che punti a rilanciare una domanda qualificata e ridefinita da una distribuzione più equa del reddito e a modificare la struttura dell'offerta sulla base dei nuovi bisogni collettivi.

Infatti, la sola crescita del Pil, sganciata da un attento esame della composizione produttiva e delle modalità di realizzazione dello stesso, non rappresenta una garanzia di occupazione piena e di qualità. Il pieno impiego potrà esser solo il risultato di una complessa serie di interventi politici orientati al controllo democratico delle grandi linee di politica monetaria, alla programmazione pubblica e alla rimodulazione dei tempi di vita e di lavoro.

Riguardo poi al nesso esistente tra la crescita del Pil e il benessere collettivo, è ormai ben noto che all'aumentare della ricchezza quel nesso tende decisamente ad attenuarsi e a diventare di più difficile interpretazione. Pertanto è necessario operare una netta distinzione tra regioni sviluppate e non: infatti, laddove nelle aree depresse d'Europa e del mondo si rende tuttora indispensabile puntare alla generale crescita nel livello assoluto del prodotto sociale oltre che alla sua diversa composizione, nelle zone più ricche dell'Unione occorrerà invece concentrare l'attenzione su quest'ultima, soprattutto riguardo al rapporto tra beni privati e beni pubblici. Rinunciando ad operare questa distinzione, risulterà impossibile trattare questioni di assoluta rilevanza ai fini del benessere collettivo, della giustizia sociale, e del rapporto tra società umana e natura.

Superata l'ottica meramente quantitativa e considerate le esternalità negative dei processi produttivi aggressivi rispetto alla natura, l'Europa dovrebbe farsi paladina del rispetto ambientale mediante una serie di proposte sul piano internazionale e una rigorosa legislazione interna a difesa dell'ambiente. In questa direzione appare necessario predisporre un regime fiscale che consenta l'internalizzazione ai costi della azienda delle esternalità da essa prodotte sull'ambiente circostante, operando nel contempo a determinare un nuovo orientamento complessivo delle produzioni. Accanto alle manovre strettamente fiscali sarà opportuno operare con regolamentazioni delle attività produttive prevedendo anche la sostituzione dell'agente privato con la mano pubblica nello sviluppo e utilizzo di fonti di energia alternativa.

Una nuova concezione dell'Europa implica pertanto una diversa definizione degli obiettivi, non più riduttivamente orientati alla crescita economica quantitativa ma fondati su indici più complessi di sviluppo umano, quali ad esempio quelli elaborati dall'UNCTAD, capaci di orientare a fini di benessere collettivo la struttura del nostro sistema di produzione e di rendere sostenibile il rapporto esistente tra questo e l'ambiente circostante.

2.3 La questione meridionale e mediterraneavai a indice

In questa nuova concezione i Sud d'Europa vengono ad assumere una funzione critica specifica. I sud non sono infatti marginalità, ma metafora della globalizzazione, punto nevralgico della gerarchizzazione della società e dei territori. E' tempo di ridare la parola ai Sud, ai diversi Sud del Mediterraneo La rimozione di questo tema è infatti anche nelle sinistre la dimostrazione della profonda subalternità culturale ad una concezione di un'Europa liberista e blindata contro i migranti. Un'analisi delle condizioni del Sud basata esclusivamente sulla chiave interpretativa dell'arretratezza, come viene spesso fatto da tanta parte delle sinistre, costituisce un grave errore analitico perché allude ad un'idea di sviluppo puramente quantitativa. L'intenzione del capitalismo europeo è quella di costruire una sorta di zona franca, cui viene assegnato un ruolo meramente coloniale. E' la proiezione devastante di un modello che ha negato alla radice ogni tipo di sviluppo autocentrato. E' il segno di una filiera produttiva che non compete sulla qualità del prodotto, sull'innovazione tecnologica, sulla formazione, ma sull'inseguimento del più basso prezzo della forza lavoro e sulla violenza di ogni vincolo ambientale sul territorio.

Il policentrismo di cui parliamo ha quindi bisogno di un asse prioritario, quello costituito da il rapporto Sud/Sud, Mezzogiorno/Mediterraneo. Il ruolo dei Sud d'Europa deve contrastare l'idea di un'Europa “carolingia”, cioè puramente baricentrata sul nord, deve aprirsi alle grandi civiltà mediterranee.

In questo senso possiamo parlare nel nostro paese di una nuova questione meridionale, intesa come più generale questione mediterranea.

La conferenza di Barcellona, che viene retoricamente e ipocritamente presentata come costruzione di una “regione economicamente forte nel Mediterraneo” incontra la nostra più radicale opposizione. La cosiddetta zona di libero scambio nel Mediterraneo è, infatti, la zona che sancisce e dà legittimazione alle ragioni di scambio ineguale e alla rapina neocoloniale.

Contrapponiamo alla logica della conferenza di Barcellona una scelta di rapporti Sud/Sud in modo di stabilire anelli di solidarietà, in una visione policentrica, capaci anche di sinergie produttive tra le due sponde del Mediterraneo e tra aree specifiche, basate sul potenziamento delle rispettive comunità e mercati regionali e locali, in un Mediterraneo di pace, denuclearizzato, crocevia di culture, cooperazioni e popoli.

2.4 La questione salariale e i diritti dei lavoratorivai a indice

L'abbattimento dei vincoli esistenti alla espansione dei salari e della spesa pubblica, e l'organizzazione di nuove modalità democratiche e partecipate di intervento politico nei processi economici, rappresentano le condizioni essenziali per una svolta rispetto agli indirizzi politici tuttora dominanti Nelle condizioni attuali, contraddistinte da una pesante erosione del suo potere reale d'acquisto, il salario deve tornare a porsi come una variabile indipendente dall'andamento generale dell'economia e della produttività.

La crescita salariale rappresenta, infatti, un vincolo interno, una oggettiva condizione preliminare ad ogni prospettiva di ripresa economica.

In questo senso, occorre in primo luogo spingere per una forte crescita dei salari, puntando a far si che il loro tasso di crescita arrivi anche a superare il tasso di crescita della produttività del lavoro. Questa è la condizione perché si assista non solo a una crescita assoluta dei salari reali ma anche a una crescita della quota del Pil attribuita al lavoro. In altre parole, occorre attivare un processo di redistribuzione del reddito dai profitti e dalle rendite ai salari che vada nella direzione esattamente opposta rispetto al meccanismo attualmente operante.

A tal fine è necessario operare per una ricomposizione degli interessi e delle istanze tra le diverse categorie di lavoratori, abbandonando la pratica dei regimi differenziati e potenziando le tutele normative e sindacali per tutti i lavoratori subordinati, contrastando le tendenze alla decentralizzazione della contrattazione in materia di produttività del lavoro.

La decentralizzazione si traduce essenzialmente in un indebolimento del potere contrattuale della classe lavoratrice. E' necessario che la contrattazione sia al tempo stesso generalizzata e sottoposta a un continuo vaglio democratico, sia per quel che riguarda la rideterminazione dei salari monetari alla luce dei tassi di inflazione effettivamente registrati sia per quel che riguarda la componente dei salari legata alla produttività. Appare evidente dunque che occorre superare definitivamente la stagione nella quale gli oneri della unificazione monetaria venivano scaricati sui lavoratori.

Per questo ci proponiamo l'obiettivo di un salario europeo, ovvero di una retribuzione che rispetto alle stesse mansioni e qualifiche costituisca una base egualitaria commisurata ai livelli più alti raggiunti dalla contrattazione su scala europea.

E' bene sottolineare che una forte spinta alla crescita dei salari non avrebbe solo una valenza immediatamente etica, rendendo un po' meno ingiusta la società europea. Sul piano macroeconomico essa rafforzerebbe la domanda effettiva interna, avviando un processo di fuoriuscita dalla cronica e strutturale situazione di stagnazione dell'economia europea. Sul piano della competitività internazionale delle produzioni europee, inoltre, una ripresa dei salari parlerebbe chiaro agli imprenditori. Si tratta di far comprendere loro che le politiche della competitività fondate sulla riduzione dei costi, e in particolare sulla riduzione del costo del lavoro, soffrono il corto respiro e non possono trovare spazio in un sistema sociale che si pretende civile e che vuole tendere a una maggiore democrazia economica. Insomma, la stagione di crescita salariale innescherebbe un ciclo virtuoso di investimenti in innovazioni tecnologiche, in formazione e in ricerca scientifica che farebbe crescere nel medio-lungo periodo significativamente la competitività dell'apparato produttivo europeo.

Alla logica della cosiddetta occupabilità, contenuta in diversi documenti europei e nello stesso progetto costituzionale, che consiste nel lasciare il cittadino a lottare, rendendosi più flessibile, da solo sul mercato del lavoro, va contrapposta quella del diritto al lavoro e quindi dell'obbligo per la Ue e i singoli stati di rimuovere gli ostacoli sociali che non lo rendono realizzabile. Va quindi invertita la rotta a suo tempo presa dall'Europa con la crescente deregolamentazione del mercato del lavoro. Occorre, al contrario, procedere alla reintroduzione di nuove forme di rigidità positiva del lavoro attraverso una estensione dei diritti dei lavoratori e muoversi nella direzione di una incentivazione dei rapporti di lavoro di lunga durata procedendo a una disattivazione di meccanismi contrattuali che esaltano la precarietà e la subalternità del lavoro. Il che comporta la revisione e la cancellazione delle normative europee degli ultimi anni in tema di contratti a termine e di allungamento dell'orario della giornata lavorativa.

Infatti l'estensione dei diritti dei lavoratori passa anche attraverso la ripresa su scala europea dei progetti relativi alla riduzione dell'orario di lavoro a parità di retribuzione, tenendo anche conto con la dovuta criticità di esperienze già in atto in alcuni paesi europei. I periodi di non lavoro di chi è comunque costretto a praticare un lavoro precario vanno protetti garantendo la continuità del diritto, la protezione sociale e la maturazione dei diritti pensionistici. Tenendo anche qui conto di diverse e differenziate esperienze già in atto, va generalizzata la scelta di un salario sociale, particolarmente rivolto ai giovani e ai disoccupati di lunga durata, connesso con la fornitura di servizi formativi e sociali gratuiti, in modo da permettere una vita dignitosa e la possibilità di ricerca di un lavoro vero e soddisfacente. Inoltre, va sancito per tutti il diritto alla formazione permanente. In questa ottica, la formazione deve essere vista come un vero e proprio diritto alla valorizzazione delle capacità e delle professionalità di cui ciascuno è portatore e deve essere istituzionalmente configurata come un servizio pubblico per la soddisfazione di diritti sociali costituzionalmente garantiti. L'insieme di questi provvedimenti sposterebbero in avanti il grado di civiltà della società europea.

2.5 Rilanciare l'intervento pubblico e democratico nell'economiavai a indice

Accanto alla ripresa dei salari è essenziale una ripresa dell'intervento pubblico nell'economia. Il fallimento economico e sociale del modello neoliberista ha mostrato che il mercato lasciato a se stesso è fonte di inefficienza economica e di ingiustizia sociale. Occorre battersi per una forte ripresa della funzione pubblica nell'economia sia nel senso del sostegno all'economia privata, sia nel senso dell'espansione della proprietà e delle imprese pubbliche. In particolare, va arrestata e rapidamente invertita la tendenza alle privatizzazioni, seguendo tra l'altro l'esempio di paesi come la Francia e la Germania dove la proprietà pubblica è stata sempre custodita. Altro campo nel quale occorrerà con convinzione spendere il rilancio della funzione pubblica è il settore della ricerca e dello sviluppo. A riguardo, è necessario che tutti i paesi - a cominciare da quelli in palese ritardo, come l'Italia - accrescano significativamente la quota del Pil spesa in ricerca e sviluppo. E' questa una condizione per garantire la crescita della produttività nel lungo periodo e il benessere sociale della collettività europea all'interno della scena mondiale. Il rilancio della ricerca di base, in seno all'operatore pubblico, costituirà la premessa per una nuova politica industriale in grado di guidare il sistema produttivo europeo, a cominciare dai sistemi produttivi periferici, lontano dall'impiego di tecnologie tradizionali e verso l'impiego di tecnologie avanzate e innovative.

Infine, occorre invertire le tendenze in atto a livello europeo alla costante riduzione delle spese sociali. Ancora una volta l'effetto immediato dell'incremento delle spesa pubblica per finalità sociali è evidentemente la crescita dei livelli di benessere dei lavoratori e la riduzione dell'ingiustizia sociale. Sarebbe auspicabile, a riguardo, che l'intervento dello Stato cominciasse a fissare fasce di totale gratuità dei servizi pubblici e delle prestazioni sociali per i disoccupati, per i giovani e per le fasce della popolazione caratterizzate da indigenza e povertà.

2.6 Via da Maastricht, per una svolta nella politica economica europeavai a indice

Il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità di Amsterdam, rappresentano due fondamentali capisaldi del palinsesto macroeconomico europeo.

Secondo la visione dominante essi sarebbero stati edificati allo scopo di assicurare la stabilità monetaria e finanziaria dell'Unione, ritenuta condizione imprescindibile per uno sviluppo sano ed equilibrato dell'economia europea. Il Trattato assegna alla Banca centrale europea il compito prioritario di combattere l'inflazione, subordinando ad esso tutti gli altri obiettivi, come il perseguimento di un elevato livello di occupazione e di uno sviluppo territorialmente e socialmente equilibrato del reddito. Il Trattato inoltre vieta alla Banca centrale e alle altre istituzioni monetarie dell'Unione di erogare moneta per finanziare gli eventuali disavanzi degli stati membri. Ed ancora, sostenendo di garantire in tal modo la sostenibilità delle finanze pubbliche dell'Unione, il Trattato impone agli stati membri di mantenere il rapporto tra il deficit pubblico e il prodotto interno lordo al di sotto del limite del 3%, mentre il Patto impegna i medesimi a far tendere i bilanci verso il pareggio o l'avanzo. Il Trattato fissa poi come obiettivo generale dei paesi membri quello di far convergere i debiti pubblici al di sotto del limite del 60% rispetto al Pil, ed infine sancisce la piena adesione dell'Unione alla libera circolazione delle merci e soprattutto dei capitali, non solo al proprio interno ma anche nelle transazioni con i paesi terzi.

Queste regole sono state sottoposte a numerose critiche. In particolare, il dibattito di teoria e politica economica ha chiarito che non sussiste nessuna giustificazione scientifica per i vincoli monetari e fiscali imposti a Maastricht e ad Amsterdam e quindi nulla impedisce in via di principio di sostituirli con altri tipi di regole. Nella critica, tuttavia, di rado ci si è posti il problema di esaminare le determinanti strettamente politiche e di classe delle regole monetarie e fiscali. In particolare si trascura il fatto che le norme dei Trattati sono state chiaramente imposte al fine di assicurare un rigoroso controllo delle rivendicazioni sociali: il palinsesto macroeconomico che deriva da esse è infatti espressamente strutturato in modo tale da impedire ai salari e alla spesa pubblica di attirare a sé le risorse monetarie e finanziarie necessarie alla loro espansione. A questo proposito, basterà esaminare i documenti e le decisioni ufficiali della Banca centrale europea per rilevare che la priorità assoluta alla lotta contro l'inflazione è stata interpretata come un'implicita autorizzazione a minacciare il rialzo dei tassi d'interesse di fronte ad eventuali aumenti delle retribuzioni e a sostenere tutte le iniziative politiche tese ad indebolire l'iniziativa sindacale attraverso la flessibilità del lavoro e il decentramento contrattuale. Inoltre, va notato come la lotta all'inflazione abbia finora autorizzato la Banca centrale europea a collocare i tassi d'interesse sistematicamente al di sopra del tasso di crescita del reddito. Un simile indirizzo è stato finora criticato solo in relazione agli effetti depressivi sul Pil, ma ben poco finora si è detto delle sue implicazioni distributive a favore dei redditi da capitale. In tal modo la BCE ha ampiamente travalicato i suoi compiti istituzionali, assumendo implicitamente un ruolo che non le compete, quello di regolatore di ultima istanza del conflitto distributivo.

Infine, è ben noto che la piena adesione del Trattato alle politiche di deregolamentazione dei mercati finanziari e di liberalizzazione dei movimenti di capitale ha sottoposto le decisioni politiche alla perenne minaccia delle fughe di capitale, favorendo in tal modo uno sbilanciamento negli assetti di potere favorevole ai percettori di rendite e profitti. L'assetto istituzionale dell'UME è responsabile anche di una rideterminazione degli assetti di potere tra capitale industriale e capitale finanziario. Quando si parla di un'Europa della moneta, per intendere che l'unificazione europea ruota principalmente intorno alla moneta unica, non può non scorgersi un altro aspetto inquietante. L'Europa della moneta è l'Europa del capitale finanziario, è l'Europa delle banche dei grandi banchieri. L'unificazione monetaria è stata accompagnata da una serie di direttive in materia di credito e banche che hanno determinato un vero terremoto negli assetti proprietari e dimensionali delle banche europee. Si è assistito a un processo di liberalizzazione dei capitali, di privatizzazione di ciò che restava della proprietà pubblica delle banche e di despecializzazione dei settori di attività. Il modello-guida in questo cambiamento è stato la banca universale tedesca. L'effetto principale del mutamento normativo è il gigantesco processo di concentrazioni bancarie che ha attraversato l'Europa negli ultimi quindici anni e il conseguente balzo dimensionale delle banche. Le concentrazioni spostano l'ago del potere dal lato del capitale e determineranno un aumento del costo del credito, accompagnati da fenomeni di razionamento, soprattutto a danno delle imprese medie e piccole.

Il Trattato di Maastricht, insomma, rappresenta uno dei più sofisticati regimi di controllo delle rivendicazioni sociali esistenti al mondo. Finché le norme da esso previste verranno rispettate, la crescita assoluta e relativa dei salari e della spesa sociale risulterà sempre fortemente compromessa.

E' bene chiarire, a questo proposito, che la recente sospensione del Patto di Stabilità, a seguito del superamento dei vincoli al deficit pubblico di Francia e Germania costituisce senz'altro un indice della crisi dell'attuale palinsesto macroeconomico europeo, ma non rappresenta ancora una svolta negli indirizzi di politica economica. Va ricordato, infatti, che sia la Francia che la Germania risultano da tempo impegnate in una serie di politiche finalizzate al contenimento salariale e alla compressione dei bilanci pubblici. E' bene infine tener presente che le discussioni su una possibile modifica al Trattato e al Patto di stabilità appaiono al momento orientate verso una netta conferma del palinsesto vigente. I correttivi sui quali finora si è discusso, infatti, punterebbero a costituire delle norme più restrittive per i paesi caratterizzati da un debito pubblico elevato, norme che finirebbero per colpire soprattutto i paesi più deboli e periferici, dall'Italia ai nuovi candidati per l'ingresso nell'Unione. In tutti i casi, comunque, si tratterebbe di una sostanziale conferma dell'orientamento da tempo dominante in Europa, che mira al rigido controllo dei salari e della spesa pubblica e che condiziona al rafforzamento di tale controllo l'avvio di qualsiasi politica a favore della crescita economica. Detto ciò, naturalmente non si dovrà sottovalutare il fatto che la violazione delle norme da parte di due paesi dell'Unione, e la mancata applicazione delle relative sanzioni, costituisca un importante, positivo precedente politico a favore degli eventuali futuri tentativi di superamento dei vincoli attualmente in vigore.

Numerosi segnali provenienti dai settori più disparati della società europea indicano che le pressioni e le rivendicazioni dei movimenti sociali sono destinate a crescere nel prossimo futuro. Affinché tuttavia le rivendicazioni riescano a far breccia negli argini delle istituzioni politiche europee, si rende necessario che la crescita salariale e della spesa pubblica non vengano arrestate da ostacoli di natura monetaria e finanziaria. A questi fini si renderà necessario accompagnare le spinte e le rivendicazioni provenienti dal basso con la promozione in tutte le sedi politiche competenti di una serie di proposte di riforma del Trattato, finalizzate per l'appunto a far breccia nell'attuale sistema di creazione e circolazione capitalistica della moneta. L'obiettivo cardine di tali proposte consiste nell'indurre un radicale mutamento nelle reazioni della Banca centrale e dell'intero sistema monetario e finanziario europeo nei confronti della dinamica salariale e della spesa pubblica.

2.7 La politica monetaria e del tasso di cambiovai a indice

Le finalità istituzionali della BCE, nella conduzione della politica monetaria e del tasso di cambio, devono comprendere, oltre alla stabilità dei prezzi, anche la piena occupazione e l'equità distributiva. L'obiettivo dell'equità distributiva deve essere perseguito attraverso l'espressa indicazione per la Banca centrale europea ad operare sui mercati monetari e finanziari al fine di collocare la media dei tassi d'interesse al di sotto del tasso medio di crescita del Pil europeo e a non ostacolare eventuali crescite salariali al di sopra dell'inflazione attraverso la minaccia o l'adozione di misure di politica monetaria restrittiva. L'assoluta priorità degli obiettivi interni potrà esser perseguita attraverso l'introduzione di opportune misure permanenti di controllo dei movimenti di capitale, a partire dall'adozione a livello europeo della Tobin tax, collocata a un livello tale non solo da scoraggiare i movimenti speculativi di breve periodo, ma anche da favorire l'abbattimento dei tassi d'interesse interni di lungo periodo rispetto a quelli prevalenti a livello internazionale.

A questo obiettivo va aggiunta l'abolizione, anche attraverso forme di limitazione drastica dei singoli paesi del loro utilizzo, dei cosiddetti paradisi fiscali e/o legali, vere e proprie zone franche del liberismo più estremo.

Questa nuovo orientamento della politica monetaria deve essere accompagnato da una profonda democratizzazione della BCE. Il principio di autonomia e indipendenza della Banca centrale europea deve essere inteso in senso strumentale e non finalistico. Gli obiettivi finali della politica monetaria, nel rispetto dei principi della piena occupazione, dell'equità distributiva e della stabilità dei prezzi, devono essere fissati attraverso un processo democratico che coinvolga l'insieme delle istituzioni europee rappresentative della sovranità popolare (parlamento europeo, parlamenti nazionali, Consiglio e Commissione europei), attivando anche forme di consultazione e di partecipazione della società civile europea. Gli strumenti concreti di attuazione degli indirizzi generali della politica monetaria devono essere definiti dalla BCE in assoluta autonomia e indipendenza. La BCE deve essere resa responsabile della corretta attuazione della politica monetaria nei confronti di un'apposita commissione parlamentare europea.

2.8 La politica fiscalevai a indice

La sospensione della vigenza del Patto di stabilità europeo deve sfociare nella sua definitiva abolizione. La compatibilità e la coerenza tra gli obiettivi di politica monetaria e quelli di politica fiscale non devono essere più assicurati attraverso rigide regole automatiche, ma attraverso una forte integrazione delle politiche macroeconomiche nazionali e comunitarie. Gli indirizzi strategici della politica fiscale devono essere definiti a livello comunitario dal Parlamento europeo al fine di orientare la domanda complessiva dell'UE verso obiettivi di sviluppo, di occupazione, di equa distribuzione del reddito e di riequilibrio e convergenza territoriale, all'interno di un quadro generale di programmazione e pianificazione degli interventi. Le politiche fiscali dei singoli Stati membri dovranno essere definite all'interno e in coerenza con gli indirizzi comunitari. Per il perseguimento degli obiettivi strategici di politica economica definiti dal Parlamento europeo occorre prevedere altresì la possibilità di ripristinare forme di finanziamento monetario dei disavanzi pubblici, predisponendo una procedura flessibile e concordata di assegnazione dei finanziamenti monetari ai singoli Paesi membri e all'UE. Occorre anche procedere verso una tendenziale convergenza dei sistemi tributari nazionali e dei sistemi di protezione sociale in modo da giungere progressivamente alla costruzione di uno spazio sociale comune europeo che, pur nell'ambito del rispetto di particolari specificità nazionali, possa garantire l'uguaglianza dei diritti economici e sociali fondamentali per tutti i cittadini dell'Unione.

In questo nuovo quadro, è necessario operare per un rafforzamento quantitativo e qualitativo del bilancio dell'UE, oggi pari a poco più dell'uno per cento del PIL dell'area e limitato a pochi settori di intervento.

Il bilancio comunitario deve essere utilizzato per fini di riequilibrio territoriale, di assistenza temporanea a Paesi colpiti da crisi specifiche e particolari, di realizzazione di opere e servizi di interesse europeo, di interventi di cooperazione internazionale allo sviluppo. A tal fine è necessario prevedere la possibilità di emissione di titoli del debito pubblico europeo destinati al finanziamento di programmi e di piani specificamente definiti. L'allargamento dell'UE ad altri dieci Paesi, tutti caratterizzati da livelli di reddito inferiori a quello medio dell'area, rende urgente l'ampliamento del bilancio comunitario per consentire politiche di convergenza strutturale dei nuovi Paesi membri senza privare le regioni deboli dei vecchi Stati membri, come il Mezzogiorno italiano, delle risorse necessarie al riequilibrio territoriale e allo sviluppo economico.

2.9 La politica commerciale e il ruolo dell'UE nel WTOvai a indice

La politica commerciale condotta dall'UE in seno ai negoziati WTO è stata finora improntata ad un liberismo integrale nei settori in cui gode di un vantaggio competitivo e ad un forte protezionismo nei settori più esposti alla competizione internazionale, in particolare in quello agricolo.

L'UE, nel corso del round commerciale di Doha, è stata la più convinta sostenitrice dell'integrale liberalizzazione e privatizzazione del settore dei servizi di pubblica utilità e dei beni comuni (acqua, energia, trasporti e telecomunicazioni) e della completa deregolamentazione degli investimenti diretti all'estero. Queste posizioni sono state assunte nell'interesse esclusivo delle grandi imprese transnazionali europee, alla continua ricerca di nuove fonti di profitto. L'UE si è così mostrata del tutto insensibile alle esigenze dei popoli del Sud del mondo che vedrebbero ulteriormente aggravate le loro già difficili condizioni di vita dalla privazione di diritti fondamentali quali l'accesso gratuito ed universale a beni e servizi di prima necessità. Inoltre, l'introduzione di una tutela giuridica internazionale sugli investimenti diretti all'estero, con il divieto di emanare normative nazionali a protezione dei diritti dei lavoratori e dell'ambiente, priverebbe i singoli Stati, e in particolare quelli del Sud del mondo, della possibilità di vietare forme di sfruttamento selvaggio degli uomini e della natura e condurrebbe ad una totale subordinazione delle economie e dei territori dell'intero globo alle esigenze del capitale transnazionale. Nello stesso tempo l'UE si è mostrata pervicacemente ostile ad ogni sostanziale riduzione dei sussidi a protezione della propria agricoltura. I sussidi agricoli, che per la loro struttura oggi favoriscono le grandi imprese agricole e le produzioni nordiche a scapito dei piccoli produttori e delle produzioni mediterranee, costituiscono una barriera insormontabile per l'ingresso dei prodotti agricoli del Sud del mondo nel mercato europeo e abbattono artificialmente il prezzo dei prodotti agricoli europei sui mercati mondiali.

L'UE ha finora agito nell'arena economica internazionale in piena sintonia con gli USA negli indirizzi strategici di fondo, improntati all'integrale applicazione del modello neoliberista su scala globale, al di là delle frizioni specifiche e limitate su singoli aspetti della politica commerciale che sono emerse tra alcuni interessi europei e statunitensi. La politica commerciale fin qui perseguita dall'UE è stata caratterizzata, alla stregua di quella degli USA, da una continua azione tesa ad accentuare le condizioni di scambio ineguale tra Nord e Sud del mondo e ad aggravare gli squilibri economici e sociali internazionali.

2.10 Per nuove relazioni democratiche dopo Cancun e il collasso del WTOvai a indice

Il fallimento della Conferenza ministeriale WTO di Cancun nello scorso settembre ha però messo in profonda crisi il modello della globalizzazione neoliberista. Due i fattori fondamentali che hanno condotto a questo esito.

Da un lato, la forza egemonica del movimento altromondialista che, attraverso un lungo lavoro iniziato con i moti di Seattle, ha screditato questa istituzione, trascinando su posizioni sempre più critiche e radicali gran parte della società civile internazionale. Dall'altro lato, il risveglio dei Paesi del Sud del mondo che, rafforzati dal nuovo volto del Brasile di Lula e del Venezuela di Chavez, hanno respinto i ricatti degli USA e dell'UE, non arretrando di un passo nella rivendicazione di un commercio più giusto ed eguale. A Cancun, questi due fattori si sono finalmente incontrati ed hanno cooperato nel produrre il risultato finale. Il gruppo dei 21 Paesi del Sud del mondo, nuovo protagonista della scena politica mondiale, non rivendica la semplice liberalizzazione agricola ma, nel chiedere regole commerciali differenziate tra Paesi con diverso livello di sviluppo e di potere economico, pone la questione di una regolazione politica dei prezzi mondiali per perseguire finalità economiche e sociali.

Il fallimento di Cancun ha così segnato il collasso definitivo del WTO, un'istituzione caratterizzata da una totale assenza di trasparenza e di democrazia interna, concepita fin nella sua struttura organizzativa e nelle sue modalità operative come il principale strumento per imporre il modello neoliberista su scala globale. Il WTO non è stato affatto un sistema democratico di relazioni multilaterali tra pari, ma uno strumento di dominio del grande capitale globale sui popoli del mondo, agendo come vettore principale dell'unilateralismo neoliberista. Infatti nel corso della sua breve esistenza, gli accordi bilaterali e interregionali si sono moltiplicati come funghi, in dimensioni mai sperimentate in passato, e sono stati usati per imporre a tutti ciò che si era già imposto ai più deboli. Per queste ragioni abbiamo sempre sostenuto che il WTO non fosse riformabile in senso democratico ed ora che assistiamo alla sua paralisi ne chiediamo lo scioglimento.

Questa nostra posizione non implica il sostegno ai tentativi di Usa e Ue di sostituire nei fatti il Wto con un insieme differenziato di accordi bilaterali con singoli Paesi o con singole aree del Sud del mondo, anzi, al contrario li denunciamo. Intendiamo operare nelle istituzioni europee e nei movimenti per impedire la conclusione dell'accordo ALCA sul libero commercio nell'emisfero americano e dell'accordo in corso UE-Mercosur finalizzato all'istituzione di un'area di libero commercio tra l'Europa e il Sud America, così come di tutti gli altri accordi commerciali bilaterali che puntano ad estendere l'ordine neoliberista.

L'UE deve invece farsi portatrice di una proposta complessiva di realizzazione di un nuovo ordine economico internazionale, basato su nuove relazioni democratiche tendenzialmente paritarie e sul definitivo abbandono delle politiche neoliberiste. Un nuovo, più giusto ordine economico mondiale implica il riconoscimento delle esigenze di sviluppo equilibrato dei Paesi del Sud del mondo, da perseguire anche attraverso forme concordate di protezione dei settori economici strategici. Se è vero che la sovranità alimentare dei popoli europei passa anche attraverso il mantenimento di un sistema di sussidi agricoli, profondamente trasformato rispetto a quello attuale per favorire le produzioni tipiche, biologiche e di qualità e la piccola proprietà, è altrettanto vero che occorre riconoscere ai Paesi del Sud del mondo la possibilità di proteggere i settori industriali strategici, le risorse ambientali e naturali, i saperi e le culture tradizionali e i servizi pubblici essenziali dalla concorrenza internazionale. Così come occorre liberare in via integrale e definitiva i Paesi del Sud del mondo dal fardello del debito estero, che ha rappresentato la principale arma di ricatto per imporre le politiche neoliberiste su scala mondiale. L'UE dovrebbe dichiarare unilateralmente e senza condizioni la cancellazione totale del debito estero dei Paesi del Sud del mondo nei confronti di istituzioni pubbliche e private europee ed agire per imporre un analogo comportamento agli USA, al Giappone e agli altri Paesi ricchi.

Nello stesso tempo l'UE deve adoperarsi per una radicale riforma delle organizzazioni finanziarie internazionali (FMI e Banca Mondiale).

L'operato di queste istituzioni nell'ultimo ventennio ha agito nel senso di condizionare l'erogazione dei finanziamenti all'applicazione selvaggia delle politiche neoliberiste all'interno dei Paesi del Sud del mondo, al solo scopo di garantire il pagamento degli oneri del debito estero ai grandi creditori internazionali. Lo scopo originario di queste istituzioni è stato così completamente tradito: invece di favorire, attraverso appositi canali di finanziamento internazionale, lo sviluppo economico e sociale dei Paesi in difficoltà, rimuovendone i vincoli esterni e promuovendo progetti di investimento, esse hanno al contrario agito nel senso di accentuare la polarizzazione dello sviluppo nelle aree più sviluppate e di incrementare la disuguaglianza tra Paesi e all'interno dei Paesi, al solo scopo di tutelare gli interessi del grande capitale finanziario transnazionale. Questo orientamento neoliberista è stato reso possibile anche dalla organizzazione interna antidemocratica di queste istituzioni, basate su un meccanismo decisionale fondato sulle quote finanziarie di partecipazione che assicurano ai Paesi ricchi il completo controllo dell'organizzazione e delle sue politiche.

2.11 L'Europa protagonista di un nuovo ordine economico internazionalevai a indice

Un nuovo ordine economico internazionale implica lo scioglimento delle attuali istituzioni economiche internazionali (WTO, FMI e Banca Mondiale) e la loro sostituzione con nuove organizzazioni economiche internazionali, operanti all'interno del sistema delle Nazioni Unite e fondate su meccanismi decisionali democratici che assicurino un'equa distribuzione del potere decisionale tra gli Stati membri e che prevedano forme attive di partecipazione dei popoli e della società civile internazionale. Queste nuove organizzazioni economiche internazionali devono avere come finalità esclusive la promozione di politiche di piena occupazione, di equità distributiva, di lotta contro il sottosviluppo e la povertà, di sviluppo economico delle aree arretrate, di garanzia universale dei diritti umani e sociali fondamentali, di eque relazioni commerciali e finanziarie internazionali, di tutela del carattere pubblico e collettivo dei beni comuni, di salvaguardia delle risorse ambientali e della biodiversità.

L'introduzione a livello mondiale di una tassa sui movimenti di capitale a breve termine consentirebbe di ottenere parte dei finanziamenti necessari al funzionamento delle nuove istituzioni economiche, che per la parte rimanente dovrebbero essere finanziate dai Paesi membri in proporzione al loro livello di reddito e di ricchezza.

L'operato di queste nuove organizzazioni economiche internazionali deve essere inserito in un nuovo sistema monetario internazionale, che superi l'attuale anarchia valutaria basata sul ruolo dominante del dollaro come moneta di riserva internazionale e sulla piena libertà di movimento dei capitali. La strada per ridurre il potere di signoraggio degli USA, cioè la loro possibilità di finanziare indefinitamente il deficit commerciale con l'estero attraverso l'emissione di moneta nazionale, non è quella della concorrenza dell'euro come moneta di riserva internazionale, ma quella della creazione di una nuova moneta di riserva, gestita dalla nuova organizzazione finanziaria internazionale al fine di perseguire politiche di sviluppo e di riequilibrio sociale e territoriale.

Per realizzare questi ambiziosi obiettivi politici, l'UE insieme ai Paesi del Sud del mondo dovrebbe farsi promotrice, a sessant'anni di distanza dalla Conferenza di Bretton Woods, di una nuova conferenza internazionale convocata dall'ONU per definire le regole e l'organizzazione di un nuovo ordine economico globale. La crisi economica e sociale prodotta dal modello della globalizzazione neoliberista ha dimensioni e intensità paragonabili a quelle della grande depressione degli anni Trenta. Allora si scelse la strada dell'anarchia nelle relazioni economiche internazionali, che accentuò e aggravò la crisi, e soltanto la catastrofe della seconda guerra mondiale indusse le grandi potenze ad intraprendere la strada della cooperazione internazionale. Il rischio è che oggi la storia si possa ripetere, sia pure in forme nuove ma pur sempre tragiche, come dimostra l'innesco infernale della spirale della guerra e del terrorismo. Bisogna intervenire prima che sia troppo tardi con un nuovo progetto di ricostruzione dell'ordine economico mondiale devastato da due decenni di neoliberismo.

Sarebbe questo il più grande e importante contributo alla causa della pace e della solidarietà dei popoli. L'Europa per dimensioni economiche e per tradizioni storiche e culturali è un'entità in grado di portare avanti con successo questo disegno.

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Partito della Rifondazione Comunista - Italia
Roma, 17 maggio 2004