Elezioni europee, 12 - 13 Giugno 2004

LA SINISTRA, L'ALTRA EUROPA

PROGRAMMA DEL PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA - SINISTRA EUROPEA

Simbolo PRC- SE

PARTE QUARTA.
IN DIFESA DELLO STATO SOCIALE

INDICE GENERALE

4.1 Difendere e ampliare lo stato sociale europeovai a indice

Il lavoro, lo stato sociale e le modalità qualitative e quantitative della crescita economica e sociale sono questioni intrinsecamente connesse.

La inscindibilità di questi legami è resa ancora più evidente dall'esperienza degli ultimi decenni. Durante questi anni caratterizzati dallo sviluppo dei processi di globalizzazione, il neoliberismo ha riproposto con forza la tradizionale posizione secondo cui il lavoro è una merce come le altre che viene scambiata sul mercato il quale, a sua volta, viene riproposto come un organismo naturalmente in grado di perseguire l'efficienza economica e il benessere sociale senza interferenze da parte di istituzioni della collettività - anzi, a condizione che esse non ci siano.

La spinta a contenere lo stato sociale si inserisce significativamente nel più generale movimento in atto di riorganizzazione dei sistemi produttivi e nel tentativo di marginalizzazione economica, culturale e politica del lavoro, dei lavoratori e delle loro rappresentanze politiche e sindacali.

La diffusione a livello di senso comune delle posizioni neoliberiste e la crisi d'identità della sinistra hanno fatto si che anche in ambienti progressisti si sia affermata la convinzione secondo cui la globalizzazione dei mercati, stimolando la concorrenza al ribasso della pressione impositiva esercitata dai sistemi fiscali nazionali, renderebbe più difficile il finanziamento dei sistemi di welfare, i quali, gravando sui costi di produzione, comunque ridurrebbero la competitività delle imprese sui mercati internazionali.

I processi di globalizzazione, con i loro effetti sul mercato del lavoro e sull'organizzazione dei processi produttivi, oltre a stimolare i forti peggioramenti distributivi che si sono verificati negli ultimi decenni - sia tra Nord e Sud del mondo, sia all'interno di ciascun paese - renderebbero impraticabile l'azione redistributiva delle istituzioni pubbliche. Questo duplice risultato, anche da parte di coloro che lo valutano con comprensibile preoccupazione, a volte viene considerato difficilmente evitabile e, magari, capace di tradursi, nel medio-lungo periodo - in un esito finale positivo per l'efficienza economica.

Per i più convinti sostenitori della tradizionale posizione liberista, secondo cui l'agire del mercato andrebbe liberato dai lacci e lacciuoli dell'intervento pubblico, la loro visione troverebbe un'ulteriore e definitiva conferma nella globalizzazione intesa come la prova di fatto dell'affermazione dei mercati che sono riusciti a divincolarsi dalle istituzioni politiche. Questa affermazione sarebbe avvalorata dal contestuale declino e crollo dell'esperienza sovietica caratterizzata dal forte ruolo economico dello stato.

Nonostante il contesto storico di quasi monopolio ideologico in cui sono maturate, le applicazioni delle politiche d'ispirazione neoliberista volte a contenere il ruolo pubblico e a sostituirne le funzioni con attività di mercato, hanno tuttavia confermato i precedenti e consolidati risultati dell'analisi economica in materia dei fallimenti del mercato cui hanno dato contributi sostanziali le stesse correnti di pensiero liberale più avanzate. Queste conoscenze, tuttavia, sono state trascurate non solo dal neoliberismo più estremo, ma - spesso - anche dai nuovi ammiratori del mercato di estrazione progressista Più in generale, la supremazia del neoliberismo e la crisi d'identità della sinistra, hanno favorito l'affermazione di scelte economico-sociali che, pur relegando il lavoro e i lavoratori in una situazione subalterna, si sono rivelate perdenti sul piano dell'efficienza economica.

Negli ultimi anni, oltre alla generalità degli indicatori sociali, sono peggiorati anche quelli più tradizionalmente rappresentativi delle performance economiche: i tassi di crescita sono drasticamente diminuiti; la disoccupazione è aumentata; le crisi finanziarie ed economiche sono diventate più frequenti e profonde; i fallimenti di grandi imprese e gruppi economico-finanziario hanno assunto carattere patologico; l'instabilità economica e sociale è pericolosamente cresciuta; le privatizzazioni indiscriminate si sono spesso risolte nella trasformazione di monopoli pubblici in monopoli privati con conseguenze contrarie non solo all'equità, ma anche all'efficienza economica e alla stabilità dei prezzi.

La diffusione delle posizioni più estreme del liberismo e la loro interpretazione della globalizzazione intesa come affermazione storica della superiorità del mercato hanno alterato i precedenti equilibri tra stato e mercato che avevano accompagnato lo sviluppo del secondo dopoguerra; uno sviluppo, quest'ultimo, certamente accompagnato da squilibri e contraddizioni che, tuttavia, sono stati pericolosamente ampliati dalle politiche neoliberiste.

La crescita a livello sovranazionale della sfera d'azione dei mercati ha creato una asimmetria di potere rispetto alle istituzioni pubbliche la cui influenza è rimasta pressoché limitata nell'ambito dei territori nazionali; la contemporanea contrazione dei poteri statali in campo economico determinata dalle politiche neoliberiste ha ulteriormente accresciuto il divario di ruoli tra stato e mercato; tuttavia gli effetti sia economici che sociali di questo cambio d'assetto istituzionale si sono rivelati peggiorativi rispetto alla situazione precedente.

Le applicazioni della visione liberista, oltre a determinare i peggioramenti segnalati dalle statistiche economiche e sociali, ha pure accentuato la difficoltà degli operatori privati di far convivere la ricerca del profitto con il rispetto delle regole minime necessarie al funzionamento di qualsiasi forma di economia. Il caso Enron e la nutrita serie di scandali economici deflagrati anche nel nostro paese sono emblematici non solo degli effetti devastanti dell'accresciuta incertezza dei mercati finanziari, ma anche e soprattutto della difficoltà di garantire la trasparenza e l'eguaglianza concreta dei diritti nei rapporti economici che pure sono alla base di qualsiasi contratto sociale e della stessa impostazione liberale.

4.2 Le logiche di mercato contro lo stato socialevai a indice

Nell'ambito del generale ripensamento di identità e funzioni imposto alla sinistra dall'attuale fase di transizione storica - originata in connessione alla crisi dell'esperienza sovietica, ai processi di globalizzazione e al rivoluzionamento organizzativo e tecnologico dei sistemi produttivi - la difesa, l'aggiornamento e lo sviluppo dei valori e delle funzioni dello stato sociale costituiscono un terreno di confronto centrale.

Lo stato sociale, pur nella diversità dei modelli che storicamente si sono affermati e delle dimensioni assunte dalle sue istituzioni nelle varie esperienze nazionali, rappresenta un elemento fondante dello sviluppo economico e sociale dei paesi occidentali nell'ultimo secolo.

La diffusione dello stato sociale non è stata, principalmente, la conseguenza della ricchezza progressivamente generata e accumulata dallo sviluppo capitalistico; né le istituzioni del welfare possono essere considerate un lusso da ridimensionare nei momenti di crisi economica. Queste istituzioni, invece, hanno contribuito in modo significativo al miglioramento delle condizioni economiche e sociali del Novecento e i loro contributi allo sviluppo non sono sempre riconducibili alla visione capitalistica.

La significativa presenza delle istituzioni del welfare state nelle società capitalistiche avanzate (dove assorbono da un quarto a un terzo del Pil) è la prova che esigenze sociali e produttive di primaria importanza per lo sviluppo economico e sociale possono e sono assicurate in modo più efficace e conveniente al di fuori del mercato e della logica del profitto, con criteri produttivi e distributivi di tipo sociale e non individualistico.

Lo stato sociale moderno nasce da una pluralità di esigenze e interessi produttivi, economici, sociali e politici anche tra loro contraddittori. I contributi alla realizzazione dei diversi modelli di welfare provengono da molteplici visioni politico-culturali.

In quest'ambito eterogeneo di motivazioni e visioni che storicamente si sono affermate, primeggiano quelle della stabilità dei redditi e del miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori, e quelle della coesione sociale.

Non è casuale dunque che alle conquiste dello stato sociale abbiano fortemente contribuito le organizzazioni dei lavoratori e i movimenti politico-culturali più progressisti.

Parimenti non è sorprendente che lo sviluppo qualitativo e quantitativo del welfare state, che continuava ininterrottamente dall'Ottocento, si sia arrestato negli anni ottanta del Novecento, in coincidenza con la riaffermazione del liberismo nelle sue posizioni più integralistiche e con la crisi d'identità della sinistra.

Tuttavia, l'esame ex post degli esiti delle riforme dello stato sociale fatte o anche solo tentate nella generalità dei paesi occidentali nel corso degli ultimi due decenni ha confermato le difficoltà congenite che in molte circostanze rendono difficile o impossibile al mercato fornire in modo efficace ed efficiente importanti beni e servizi; la loro intrinseca natura sociale e le loro specifiche caratteristiche produttive vanificano le possibilità di approcci fondati sulla logica individuale del profitto.

L'esperienza più avanzata dei voucher, quella avviata negli USA nel corso degli anni '90, era stata giustificata dall'obiettivo di consentire un maggiore accesso dei poveri alle scuole private e per favorire la concorrenza nell'istruzione. La specificità del bene istruzione si è invece confermata di ostacolo alle possibilità di migliorarne la diffusione puntando sulla concorrenza di mercato. Contrariamente agli obiettivi, l'uso dei voucher ha avuto effetti peggiorativi sulla qualità della scuola pubblica e ha reso più difficile il suo fondamentale ruolo d'integrazione tra ragazzi provenienti da ceti, culture e religioni differenti. E' aumentata la rendita di posizione delle scuole private già esistenti e si è ridotta la coesione sociale.

Sempre negli USA, i tentativi verso il welfare to work di ridurre l'accesso ai sussidi di disoccupazione, ritenendo che in tal modo sarebbero aumentati gli stimoli per i disoccupati a trovare occupazione, hanno avuto un apparente effetto positivo fin quando la congiuntura economica era in fase espansiva (per motivi del tutto indipendenti da quelle misure); quando però il ciclo economico si è invertito e la disoccupazione è aumentata, le ridotte possibilità di usufruire dei sussidi di disoccupazione hanno semplicemente ridotto la capacità dell'intervento pubblico di contenere gli effetti economici e sociali dell'accresciuta povertà.

Ancora negli USA, il progetto dell'Amministrazione Clinton di riformare la sanità era motivato dalla preoccupata constatazione che l'ampio ricorso al mercato provocava un forte aumento della spesa in rapporto al Pil (quasi il doppio che in Europa), una copertura limitata (45 milioni di cittadini americani sono troppo poveri per permettersi assicurazioni sanitarie private e troppo ricchi per poter accedere alla sanità pubblica) e una distribuzione molto sperequata delle prestazioni. Il fallimento di quel tentativo determinato dalla forte reazione degli interessi privati radicati nel settore conferma la difficoltà di fuoriuscire da modelli di mercato anche quando sono palesemente inefficienti.

La diffusione della previdenza a capitalizzazione ha confermato i limiti di efficienza e di efficacia del mercato nel compito di assicurare una adeguata continuità di reddito ai lavoratori negli anni della vecchiaia. I rendimenti forniti dai fondi pensione privati hanno risentito della variabilità dei mercati finanziari che, tuttavia, costituisce una loro caratteristica strutturale accentuata proprio dai processi di globalizzazione. Nel triennio 2000-2002 la perdita di valore delle attività patrimoniali dei fondi pensione a livello mondiale è stato di circa il 20%. Nel solo 2002, la distruzione di risparmio è stato pari 1400 miliardi di dollari.

I processi di transizione dai sistemi pubblici a ripartizione a quelli privati a capitalizzazione implicano la necessità di nuove risorse finanziarie che o vengono ricercate nei bilanci pubblici -peggiorandone gli equilibri - o spingono alla riduzione dei consumi, aggravando la carenza di domanda che è alla base della prolungata fase di stagnazione delle economie europee.

4.3 Aspetti dell'applicazione in Italia delle posizioni neoliberistevai a indice

Le applicazioni delle politiche neoliberiste e i risultati cui hanno dato luogo sono stati influenzati dalle specificità economiche, sociali e politiche nazionali. Ci sembra quindi impossibile affrontare il tema dello stato sociale, a meno di non restare nella genericità, senza fare riferimento alla condizione concreta del nostro paese, fornendo elementi di analisi e linee di proposte alternative.

Indubbiamente la crisi economica e sociale che sta attraversando il nostro paese si iscrive in una problematica fase di transizione storica di dimensioni più complessive.

Tuttavia, anche limitandoci ai principali aspetti economici, il confronto internazionale segnala per Italia specificità preoccupanti: il ritmo della crescita del Pil più basso convive con tassi d'inflazione che, in termini relativi, sono sensibilmente più elevati; i tassi di attività sono minori e la disoccupazione è maggiore; le nostre imprese, sia per le ridotte dimensioni, sia per la scarsa propensione agli investimenti e all'innovazione, sono sempre più emarginate dai settori maggiormente dinamici e redditizi; il sistema creditizio non supporta adeguatamente il sistema produttivo, specialmente le piccole imprese che pure sono molto diffuse; l'inefficiente organizzazione della distribuzione commerciale favorisce la lievitazione dei prezzi; gli istituti di controllo della governance delle imprese - produttive e finanziarie - stanno rivelando limiti strutturali; la competitività si va riducendo, con inevitabili effetti negativi sulla bilancia dei pagamenti; il Meridione persiste nella sua storica condizione di arretratezza relativa.

Nei passati decenni, i limiti strutturali della nostra economia sono stati parzialmente compensati dal dinamismo di alcuni settori e di alcune imprese e dalla combinazione di maggiori tassi d'inflazione con la svalutazione ricorrente del tasso di cambio. Alle imprese, l'aumento dei prezzi consentiva di migliorare le proprie quote distributive a scapito dei salari, mentre il deprezzamento periodico della nostra valuta permetteva di recuperare la concorrenzialità di prezzo sui mercati internazionali.

Non era un modello che poteva durare a lungo; in ogni caso, l'adozione della moneta unica europea ha fatto venir meno la valvola di sfogo costituita dall'uso del tasso di cambio. Pur tuttavia, nella mentalità di molti imprenditori e responsabili economici è rimasta l'abitudine di perseguire la concorrenzialità principalmente sul piano dei prezzi e non su quello della qualità; ma in mancanza di svalutazioni competitive, la carenza d'investimenti in processi e prodotti innovativi è stata e continua ad essere compensata nell'unico modo che rimane, cioè cercando di ridurre i costi, in particolare, quelli salariali.

In aggiunta alla carenza degli investimenti privati, l'accresciuta incertezza dei redditi da lavoro, la redistribuzione operata a danno dei salari e la necessità di rientrare dal forte debito pubblico accumulato negli anni 70-80 - resa più impellente dal rispetto obbligato dei parametri di Maastricht - hanno ridotto anche la domanda interna per consumi e gli investimenti pubblici, accentuando fino alla recessione le condizioni di stagnazione economica che si sono affermate nell'economia europea.

Nel nostro paese l'applicazione delle politiche neoliberiste è stata aggravata dai limiti strutturali del nostro sistema produttivo e dalla presenza di un classe imprenditoriale e di una maggioranza politica incapaci di innovare il sistema produttivo e di mantenerlo nella fascia alta della divisione internazionale del lavoro.

Le politiche di riduzione del WS e le politiche del lavoro di questo governo si fondono in una più complessiva politica economica che sta accelerando il nostro declino economico e peggiorando gli equilibri sociali.

Nel corso del Novecento, in particolare nel secondo dopoguerra, a seguito delle lotte condotte dalle organizzazioni operaie e dalle forze progressiste, anche nel nostro paese si era affermata una legislazione che regolamentava l'uso della forza lavoro (orari, modalità di assunzione e licenziamento, ecc…), che dava luogo a formulazioni prescrittive utilizzabili come diritti individuali dal lavoratore o come diritti collettivi utilizzabili dalle organizzazioni sindacali.

Con i provvedimenti legislativi approvati dal governo Berlusconi si è sviluppata una linea radicalmente diversa, peraltro già precedentemente avviata; essa privilegia non i diritti dei lavoratori a protezione della loro situazione di strutturale debolezza individuale nel rapporto con la controparte padronale, ma norme regolative della prestazione e del mercato del lavoro che prevedono il rapporto individuale e/o la contrattazione sindacale in peius oppure di tipo puramente applicativo od adattativo.

Esempi di questo tipo di legislazione sono le nuove normative in tema di orari, di part-time e di lavoro a termine.

Nel nostro paese, è in corso un processo di accentuata sottomissione del lavoro alle esigenze dell'impresa; esso è supportato da una interpretazione dei processi di globalizzazione dei mercati e delle produzioni particolarmente rozza condizionata dagli interessi delle componenti più arretrate della struttura economica ed industriale e dalla diffusa ritrosia presente nella nostra classe imprenditoriale verso l'innovazione e i miglioramenti qualitativi dei prodotti e dei processi produttivi. Non è casuale, dunque, che le misure di politica economica ed industriale abbiano previlegiato particolarmente il contenimento del costo del lavoro.

L'applicazione di queste politiche ha spinto alla compressione delle retribuzioni dirette, alla riduzione delle prestazioni dello stato sociale e ad una controriforma fiscale che, riducendo la progressività, limita ulteriormente la partecipazione delle classe lavoratrici alla distribuzione del prodotto nazionale e rende ancora più iniqua la distribuzione del reddito. E' nell'ambito del perseguimento di queste politiche che trova il suo maggiore elemento di coerenza l'accentuata flessibilizzazione delle prestazioni lavorative; essa, infatti, è andata ben oltre le esigenze dei processi lavorativi, avendo come obiettivo principale l'abbassamento del costo del lavoro.

La “legge 30” opera una rottura del precedente compromesso realizzato nella distribuzione tra lavoratori e imprese dei costi connessi all'andamento dei cicli economici e produttivi. Gli effetti negativi per i lavoratori emergono con particolare evidenza nell'attuale prolungata fase di basso sviluppo e di turbolenza accentuata dei mercati.

L'introduzione massiccia di forme di lavoro precario e/o strutturalmente dipendente dagli andamenti economici aziendali anche di breve periodo, quali ad esempio il lavoro a chiamata, risponde a diverse esigenze; non solo di aumentare il controllo e la disciplina dei lavoratori e di rendere l'occupazione una variabile dipendente dagli andamenti dei mercati ma, soprattutto, di scaricare i costi dell'instabilità dei mercati sui lavoratori, eliminando le garanzie connaturate al rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

4.4 Lo stato sociale in Italiavai a indice

Lo stato sociale italiano presenta specificità anche preoccupanti che, tuttavia, sono ben diverse dalle cosiddette anomalie che strumentalmente gli vengono attribuite.

Nel 1990, la complessiva spesa sociale, rapportata al Pil, del nostro paese era inferiore di soli 0,4 punti rispetto alla media europea (23,7% contro 24.1%); gli ultimi dati Eurostat disponibili, riferiti al 2000, segnalano che il divario negativo è cresciuto fino a circa due punti (24,3% contro 26,2%). Rispetto al valore massimo (25,2%) raggiunto nel 1993, il nostro dato più recente mostra un calo di circa un punto.

Nella media dei paesi europei, le principali voci di spesa sociale sono i trattamenti per invalidità vecchiaia e superstiti (14,3% del Pil) e la sanità (7,2%); lo stesso accade in Italia, ma con valori apparentemente diversi (rispettivamente 16,8% e 6,1%). La superiorità di 2,5 punti delle prestazioni pensionistiche italiane, come appare da questi dati, è alla base dell'interpretazione che attribuisce al sistema pensionistico del nostro paese la criticata anomalia.

In realtà, le statistiche Eurostat soffrono di alcune disomogeneità che alterano i confronti tra paesi. In particolare nella spesa pensionistica italiana sono indebitamente inseriti i trasferimenti di fine rapporto che incidono per 1,3 punti.

Inoltre tutte le voci di spesa sono al lordo del prelievo fiscale che, tuttavia, è molto diverso da paese a paese. Ad esempio, mentre in Germania le prestazioni pensionistiche non subiscono ritenute fiscali (dunque non c'è differenza tra spesa lorda e spesa netta), in Italia le trattenute fiscali sono pari a circa due punti di Pil, mentre nella generalità degli altri paesi sono molto più contenute. A differenza che in Italia, negli altri paesi europei consistenti contributi pubblici alle pensioni derivano da esenzioni fiscali che, in quanto tali, non vengono registrate in nessuna voce di spesa. Per sostenere il reddito dei lavoratori ultracinquantenni espulsi precocemente dal mondo del lavoro, mentre in Italia si fa ampio ricorso ai prepensionamenti, in altri paesi si utilizzano strumenti d'intervento i cui oneri non vengono contabilizzati tra quelli pensionistici.

Tenendo conto di queste difformità, la spesa pensionistica italiana risulta inferiore alla media europea. La complessiva spesa sociale risulta invece ancora più bassa, dando luogo, in questo caso davvero, ad una preoccupante anomalia.

Il sensibile divario negativo della nostra spesa sociale complessiva contribuisce a spiegare le difficoltà incontrate dal nostro sistema di welfare nel perseguire sia gli obiettivi di migliorare la distribuzione del reddito e di garantire sicurezza e solidarietà sociale, sia di offrire un adeguato supporto allo sviluppo economico.

Come si è visto, nel nostro paese, la diffusione della ricetta neoliberista che per aumentare l'occupazione e la crescita economica sia necessario contenere gli oneri salariali, ovvero, che la spesa sociale costituirebbe un onere per le imprese e ne ridurrebbe la competitività - è stata favorita proprio dall'accennata difficoltà di gran parte delle nostre imprese di perseguire la competitività anche sul piano della qualità e non solo su quello dei prezzi. Ma anche con riferimento agli effetti esercitati sulla competitività di prezzo, il nostro sistema di welfare non mostra particolarità negative.

Le modalità di finanziamento dei sistemi di welfare state e la struttura del costo del lavoro possono avere implicazioni per la competitività del sistema produttivo; ma i nessi, tuttavia, non sono né univoci, né scontati. Il prevalere della visione liberista ha innescato in Europa, nel corso degli anni '90, una tendenza alla diminuzione dei contributi sociali a carico delle imprese. In Italia, la quota del finanziamento contributivo del welfare state si è consistentemente abbassata (dal 70,3% al 58%), diventando inferiore alla media europea (60,6); in termini di Pil, l'onere contributivo si è ridotto di 2,2 punti percentuali.

Se oltre agli oneri contributivi si considerano anche quelli della fiscalità generale che gravano sui redditi dei lavoratori e delle imprese, emerge che il cosiddetto cuneo fiscale nel nostro paese è più basso che in Germania e in Francia.

Un valore più basso del cuneo si ha in Gran Bretagna dove però i lavoratori, pur disponendo di una busta paga proporzionalmente più elevata in rapporto al costo del lavoro, devono attingere ad essa per acquisire privatisticamente le prestazioni sociali che i loro colleghi continentali ricevono gratuitamente dallo stato sociale.

Per quanto riguarda il costo del lavoro per unità di prodotto (il clup) che influenza la competitività di prezzo, l'Italia è posizionata al fondo della classifica europea.

Dunque, dalla valutazione comparata in ambito europeo dei collegamenti tra finanziamento del welfare state e costo del lavoro, non emergono specificità negative del nostro paese.

Problemi seri di competitività per il nostro sistema produttivo derivano invece dai limiti strutturali delle sue caratteristiche qualitative e tecnologiche resi più evidenti dai processi di globalizzazione. Per superare queste carenze sono necessarie efficaci politiche in investimenti innovativi che, tuttavia, implicano dei presupposti quali, ad esempio, la presenza: di idonei livelli di istruzione di base, di formazione e di aggiornamento professionale; di ammortizzatori e reti di sicurezza economicosociale capaci di compensare i rischi delle imprese e dei lavoratori, individuali e collettivi strettamente connessi a qualsiasi iniziativa innovativa Le politiche per il welfare vanno dunque sottratte ai criteri economici e politici maturati con l'affermazione nel nostro paese del neoliberismo; tale affermazione è un esito non casuale, ma confacente sia alla specificità e ai limiti del nostro sistema produttivo, sia al prevalere - anche a livello elettorale - di una sintesi politica populista e conservatrice tra interessi forti e la fragilità civile dei tempi; i problemi d'identità programmatica e di rappresentanza politica della sinistra hanno facilitato quell'esito.

4.5 Aspetti settoriali del nostro stato socialevai a indice

4.5.1 La previdenzavai a indice

Si è già mostrato che, operando confronti statisticamente omogenei, la spesa pensionistica italiana non risulta affatto anomala, ma - rapportata al Pil - è inferiore alla media europea.

I molteplici interventi strutturali operati nel corso degli anni '90 hanno bloccato e invertito la precedente tendenza a crescere della spesa pensionistica che aveva raggiunto l'incidenza massima sul Pil nel 1997 (13,9%) per poi attestarsi al 13,5% nel 2000 e nel 2001. Nel 2001, alcuni interventi del governo in carica e la bassa crescita del Pil hanno fatto risalire la spesa pensionistica al 13,8%.

La verifica governativa sugli effetti finanziari delle riforme operate negli anni '90 ha stabilito che i risparmi di spesa ottenuti sono superiori a quelli previsti: del 10% (pari a 2,87 miliardi di €) per il periodo 1996-2000 e del 17% (7,92 miliardi di €) nel periodo 2001-2005.

Il saldo tra le prestazioni pensionistiche previdenziali e i corrispondenti contributi sociali è negativo per una somma pari a circa lo 0,9% del Pil. Ma tenendo conto delle trattenute Irpef operate sulle pensioni, per il bilancio pubblico le uscite effettive sono inferiori alle entrate per una somma pari a circa 1,1 punti di Pil.

Dunque il bilancio pubblico ricava benefici e non oneri dal funzionamento del sistema pensionistico pubblico.

Prima delle riforme degli anni '90, le previsioni per il prossimo mezzo secolo segnalavano che il rapporto tra spesa pensionistica e Pil sarebbe salito fino al 23%.

Dopo le riforme, nella proiezione della Ragioneria Generale dello Stato che segnala la cosiddetta “gobba”, il valore massimo previsto è di circa il 16%. Dallo studio comparativo effettuato dal Comitato per la Politica economica della Commissione europea, quell'aumento previsto per l'Italia è pari solo ai due terzi di quello previsto per la media dei paesi dell'Unione. Dunque, pur adottando la proiezione di spesa che prevede la “gobba, la dinamica italiana non è in alcun modo fuori controllo ed anzi risulta la più contenuta in Europa. Tuttavia, è ragionevole ipotizzare anche andamenti finanziariamente meno pessimistici del rapporto tra spesa pensionistica e Pil. Infatti vanno considerati gli effetti di decisioni già prese per spingere in quella direzione.

La riduzione del grado di copertura pensionistica derivante dal progressivo dispiegarsi degli effetti delle riforme degli anni '90 e il contemporaneo stimolo esercitato dal sistema contributivo a ritardare l'età di pensionamento, tenderanno a modificare il profilo temporale della spesa pensionistica. D'altra parte, con l'espansione delle nuove figure di lavoratori “atipici”, il valore medio delle pensioni sarà più basso. Tenendo conto di queste circostanze, l'ampiezza della “gobba” si dimezzerebbe.

La considerazione aggiuntiva di un aumento della crescita media annua del Pil nel prossimo mezzo secolo che sia non dell'1,5% (ipotesi adotta nella proiezione con la “gobba”) ma del 2% (come ipotizzato nel Consiglio di Lisbona dalla Commissione europea), eliminerebbe del tutto la crescita prevista del rapporto tra spesa pensionistica e Pil; la sua dinamica sarebbe tendenzialmente negativa.

Un sistema pensionistico, oltre che per la sua sostenibilità finanziaria deve essere valutato anche per la capacità di corrispondere alla sua ragion d'essere, cioè di fornire un'adeguata copertura di reddito ai lavoratori nella vecchiaia.

Prima delle riforme degli anni '90, indipendentemente dall'età, un lavoratore dipendente con 35 anni di anzianità contributiva maturava una pensione pari al 67% o al 77% dell'ultima retribuzione, rispettivamente se impiegato nel settore privato o in quello pubblico. Nel sistema contributivo a regime, tenendo conto del previsto adeguamento del metodo di calcolo all'aumento atteso della vita media, un lavoratore dipendente (indifferentemente se impiegato nel settore pubblico o nel privato) che andrà in pensione con 35 anni di contributi a 60 anni di età avrà una pensione pari al 48,5% dell'ultima retribuzione.

Nell'ipotesi massima di 40 anni d'anzianità e 65 anni d'età, il tasso di sostituzione salirà al 64%. Per un lavoratore parasubordinato, nelle due combinazioni di pensionamento prima esemplificate, il tasso di sostituzione sarà, rispettivamente, di quasi il 30% e il 39%. L'eliminazione dell'indicizzazione delle pensioni all'andamento reale delle retribuzioni introdotta nel 1992 fa sì che la distanza tra il reddito di un pensionato e quello medio dei lavoratori aumenta progressivamente nel periodo di pensionamento. Immaginando un aumento medio annuo delle retribuzioni pari al 2%, il valore di una pensione che fosse inizialmente pari al 60% della retribuzione media dei dipendenti, dopo venti anni sarebbe pari al 41%. Qualunque sia lo scenario previsivo adottato per le proiezioni del rapporto tra spesa pensionistica e Pil, in ogni caso il valore relativo delle pensioni rispetto a tutti gli altri redditi diminuisce drasticamente.

Nei progetti del governo, la riduzione della copertura pensionistica fornita dal sistema pubblico a ripartizione - sia quella già decisa con le riforme degli anni '90, sia quella ulteriore derivante dai nuovi disegni d'intervento - dovrebbe essere compensata dallo sviluppo ulteriore della previdenza privata a capitalizzazione.

Considerando, da un lato, l'ulteriore riduzione del 17% dei tassi di sostituzione che deriverebbe dal trasferimento sulle prestazioni della decontribuzione degli oneri pensionistici e, d'altro lato, il trasferimento dell'intero flusso del TFR ai fondi pensione, nei programmi del governo il ruolo della previdenza privata a capitalizzazione non è integrativo, ma sostitutivo del sistema pubblico a ripartizione.

Una tale riforma non solo altererebbe significativamente la funzionalità del sistema pensionistico, ma costituirebbe un tassello centrale del complessivo disegno di politica economica finalizzato a ridurre gli oneri salariali per migliorare la competitività di prezzo.

Circa il primo aspetto, la consistente sostituzione della previdenza pubblica a ripartizione con quella a capitalizzazione farebbe aumentare i costi di gestione e trasferirebbe anche sui redditi da pensione la accresciuta instabilità dei mercati finanziari mondiali.

Negli USA nel periodo 1981-2000 il rendimento dei fondi pensione ha superato il tasso di crescita del Pil; ma dopo il 1995 l'esito del confronto si è invertito e negli ultimi anni i rendimenti dei fondi sono diventati fortemente negativi In Italia, nel biennio 2001-02, i fondi pensione di categoria hanno subito perdite del 3,9% mentre i fondi pensione aperti hanno subito perdite del 18%; nello stesso periodo il TFR ha reso il 6,8%.

Rimandando al paragrafo successivo considerazioni più estese di politica economica, va qui considerato che, a causa del numero strutturalmente scarso di nostre imprese quotate in Borsa, già oggi, le risorse relativamente esigue gestite dai fondi pensione di nuova istituzione (circa 4,5 miliardi di euro) vengono impiegate solo per il 3,6% in titoli azionari di imprese nazionali. Con il trasferimento del Tfr ai fondi pensioni privati, questi ultimi gestiranno risorse finanziarie che in sette anni arriveranno ad essere pari a circa 100 miliardi di euro.

Lo sviluppo che si prospetta per i fondi pensione sottrarrà alla attuale disponibilità dei lavoratori e delle imprese il salario differito accantonato per il Tfr e, per una quota superiore a quella attuale, lo trasferirà all'estero dove finanzierà sistemi produttivi a noi concorrenti.

4.5.2 La sanitàvai a indice

Nel settore della sanità, l'Italia si è caratterizzata per una crescita particolarmente elevata della spesa privata che, caso unico in Europa, ha più che compensato la riduzione della spesa pubblica. Quest'ultima, quando nel 1978 fu creato il Sistema sanitario nazionale, era di poco inferiore al 5% del Pil; da allora la quota crebbe fino al suo valore massimo del 6,5% raggiunto nel 1991 per poi diminuire fino al 5,2% nel 1995; con l'inizio dell'attuale decennio è risalita al 6,3% del 2002, ma per effetto più della bassa dinamica del Pil che dell'aumento della spesa. Il divario negativo rispetto alla media europea è aumentato.

La spesa sanitaria privata è invece cresciuta dal 22% al 33% di quella complessiva, fino a diventare, in rapporto al Pil, la più elevata in Europa, tranne che rispetto alla Grecia la quale però registra la spesa sanitaria pubblica più bassa.

Nella classifica del rapporto tra spesa sanitaria pubblica e spesa sanitaria privata, l'Italia è al terzultimo posto, sopra la Grecia e quasi appaiata al Portogallo, su valori molto distanti da quelli dei paesi del Centro e Nord Europa.

Così come è avvenuto in tutti i paesi interessati dalle stesse tendenze, ma in Italia ancor più, il contenimento della spesa sanitaria pubblica, unito alla diffusione di esperienze di federalismo sanitario, non solo ha stimolato l'aumento della spesa sanitaria privata, ma inevitabilmente ha accresciuto le disuguaglianze nella distribuzione delle prestazioni.

Nel nostro paese, la mortalità per tutte le cause diminuisce sensibilmente tra i soggetti più istruiti e con maggior reddito; il grado di accesso a cure specialistiche è minore per i pazienti con minore istruzione e nelle regioni meridionali; nel Sud l'attesa di vita media è inferiore a quella nazionale; nel Meridione, anche per l'età media più bassa ci si ammala di meno, ma, rispetto al Centro-Nord quando ci si ammala, ad esempio, per disfunzioni cardio-circolatorie o per tumori, si muore in proporzione maggiore.

In settori come le cure dentarie e l'assistenza ai non autosufficienti, le gravi carenze del sistema pubblico non trovano compensazione adeguata nelle assicurazioni privati; nell'insieme emerge una significativa discriminazione dell'accesso alle prestazioni in base al reddito.

4.5.3 L'assistenzavai a indice

La spesa per l'assistenza, comprendendo anche la componente assistenziale presente nelle prestazioni previdenziali, è pari a circa il 4% del Pil, un valore nettamente inferiore alla media europea. La inadeguatezza di questa spesa riguarda anche la sua qualità per via della scarsa presenza di interventi di natura universalistica. Più della metà della spesa è infatti erogata ad integrazione di interventi di natura previdenziale cioè a beneficio di specifiche categorie e non ai bisognosi in quanto tali.

Le carenze del nostro sistema assistenziale sono rese particolarmente evidenti dalla crescente diffusione nel nostro paese del fenomeno della povertà che è prevalentemente giovanile, femminile e concentrata nel Meridione. Inoltre, i provvedimenti di cosiddetta armonizzazione dei trattamenti assistenziali hanno soppresso molte misure a sostegno del reddito, sia pur derivavanti da interventi categoriali e assistenziali, di cui beneficiavano prevalentemente le donne anziane (per esempio la pensione sociale, o la possibilità di cumulo tra pensione sociale e pensione di reversibilità) senza però introdurre nuove misure a protezione dei rischi sociali individuali.

Le famiglie italiane i cui redditi sono al di sotto della soglia della povertà sono circa il 12% e rappresentano quasi il 14 % della popolazione. Tuttavia, nelle regioni meridionali la quota supera il 24%, mentre al Nord e al Centro è, rispettivamente di circa il 5% e l'8%. In condizioni di povertà assoluta si trovano circa il 4% delle famiglie, cioè oltre 3 milioni di persone; ma in questo caso la concentrazione nelle regioni meridionali è ancora più accentuata.

Nonostante l'evidente sperequazione territoriale della povertà, la spesa assistenziale procapite nei comuni del Sud, tranne che nelle isole, è inferiore alla media nazionale.

Questo dato conferma che, da un lato, la povertà nel nostro paese è fortemente correlata alla condizione di disoccupazione e, dall'altro, che né gli ammortizzatori sociali, né gli interventi assistenziali sono efficaci per contrastare il fenomeno, che si diffonde.

4.5.4 Gli ammortizzatori socialivai a indice

La nostra spesa per ammortizzatori sociali, ovvero per il sostegno alla disoccupazione assorbe solo lo 0,6% del Pil; questo valore, che negli ultimi anni è andato riducendosi, ci colloca all'ultimo posto nella graduatoria europea ed è pari a circa un quarto della media europea; eppure, la nostra disoccupazione è maggiore della media europea.

La progressiva diffusione nel mercato del lavoro di nuove forme contrattuali più “flessibili” ha condizionato l'evoluzione della quantità e della composizione della spesa per il sostegno alla disoccupazione. Il superamento del rapporto di lavoro a tempo determinato e la possibilità per le imprese di programmare le assunzioni in rapporto alle variabili necessità congiunturali ha complessivamente ridotto le possibilità e le necessità d'accesso a queste prestazioni del welfare.

E' diminuito il ricorso a misure quali la cassa integrazione e le indennità di disoccupazione riconosciute a disoccupati con requisiti pieni; sono invece aumentate le indennità ridotte di disoccupazione (riconosciute a chi abbia accumulato almeno 78 giorni di contributi nell'anno precedente). Nell'insieme, questo tipo di prestazioni dello stato sociale sono diminuite a beneficio del bilancio pubblico, ma, al contempo, la primaria esigenza dei lavoratori di veder garantita in qualche modo la continuità di reddito nei periodi di inattività viene maggiormente elusa.

Attualmente, circa il 55% di tutti gli interventi per la disoccupazione è assorbito dalle due modalità d'erogazione (con requisiti pieni o ridotti) delle indennità di disoccupazione le quali nel corso della seconda metà degli anni '90 sono costantemente cresciute di peso (nel 1994 erano sotto il 40%). Le diverse forme di cassa integrazione, che nel 1994 rappresentavano circa il 24%, sono diminuite a circa il 14%; la quota delle indennità di mobilità è rimasta attestata intorno al 16%; i pensionamenti anticipati sono invece scesi dalla quota di quasi il 35% nel 94 a circa il 12% del 2002. I sussidi di disoccupazione, cioè l'unico tipo d'interventi a favore di disoccupati che non richieda necessariamente un precedente status di lavoratore, assorbono attualmente solo il 3% della spesa complessiva, mentre negli ultimi anni '90 quella quota era intorno al 10%. In quest'ultimo tipo di interventi sono inclusi i lavori e le attività socialmente utili, i lavori di pubblica utilità e i piani d'inserimento professionale; si tratta d'interventi che rientrano tra le politiche attive per il lavoro, ma che negli ultimi anni sono stati fortemente ridotti Una evidente carenza del nostro sistema di welfare è costituita dalla totale assenza di strumenti assistenziali per la disoccupazione che abbiano carattere universalistico e non contributivo.

4.5.5 L'istruzione e la formazionevai a indice

La scuola pubblica in Europa è esposta, ormai da tempo, al vento delle politiche liberiste. Anche se in ciascun paese i processi che investono i sistemi di istruzione assumono forme peculiari, così come peculiari sono gli stessi sistemi, si possono individuare alcune caratteristiche comuni.

Dappertutto, ad essere messo in discussione è il carattere essenziale dei sistemi scolastici nazionali comune alla gran parte dei paesi, cioè la loro natura pubblica, il loro essere spazio libero, almeno in larga misura, rispetto alle esigenze del mercato.

Le spinte alla privatizzazione in questo settore hanno quindi lo scopo di trasformare l'istruzione da diritto universale garantito dalle istituzioni pubbliche in servizio a domanda disponibile in rapporto alla capacità di spesa di ciascun individuo. Ciò avviene sia intervenendo sull'assetto dei sistemi scolastici pubblici, sottoposti a trasformazioni che puntano a mutarne la natura, sia incentivando in vario modo la presenza e l'espansione di strutture formative private.

La tendenza generalizzata alla riduzione della spesa mostra come la leva economica rappresenti il principale strumento utilizzato per raggiungere questo obiettivo. La conseguenza è la riduzione qualitativa e quantitativa del servizio scolastico: meno scuole, classi più affollate, meno servizi integrativi E poiché la gran parte della spesa serve a pagare gli stipendi al personale, questo significa anche meno insegnanti con conseguenze facilmente calcolabili sui livelli di occupazione, tra l'altro in un settore di lavoro intellettuale ad alta qualificazione e di elevato interesse sociale.

In Italia il fenomeno assume carattere di particolare gravità, sia perché la spesa per l'istruzione è da tempo agli ultimi posti nel confronto con gli altri paesi, sia perché, anche grazie alla sciagurata legge sulla parità scolastica voluta dall'ultimo governo di centro sinistra, si realizza con un vero e proprio trasferimento alle scuole private, generalmente di ispirazione confessionale, delle risorse economiche sottratte al sistema pubblico.

Inoltre, anche se la spesa per l'istruzione scolastica in termini assoluti è inferiore “solo” di circa mezzo punto al dato della media dei paesi Ocse, la differenza reale è camuffata dalla disomogeneità delle basi di calcolo. Mentre in Italia tutta la spesa grava sul bilancio del ministero dell'istruzione, in altri paesi somme consistenti sono a carico di altri ministeri o di enti locali. Valga per tutti l'esempio della Francia, dove il personale di supporto è a carico del ministero del lavoro, gli insegnanti di educazione fisica di quello dello sport e tutto il settore dei “licei agrari” di quello dell'agricoltura.

Se si tiene conto dell'alta incidenza della spesa per il personale sui costi complessivi, si spiega anche, perché in Italia la spesa per studente è apparentemente superiore.

Tra le conseguenze delle politiche restrittive di spesa va pure considerato l'aumento consistente della precarizzazione del lavoro scolastico, che si somma agli effetti negativi delle nuove forme di lavoro precario introdotte anche nelle scuole. Sempre in Italia, secondo i dati ufficiali del Ministero dell'Economia, nel 2002 i precari nella scuola sfioravano le 200.000 unità, quasi un quinto dell'insieme degli occupati nel settore. Una quantità abnorme che incide strutturalmente sui livelli qualitativi e che, tra l'altro, si presta ad essere utilizzata per gestire più agevolmente un possibile più drastico ridimensionamento del sistema scolastico pubblico.

Sul versante delle finalità del sistema, si sta affermando la tendenza a piegare in modo sempre più vistoso gli scopi dell'istruzione alle esigenze della produzione e dell'impresa.

In altre parole, l'esigenza di innalzare i livelli culturali dei cittadini cede il posto al bisogno che la formazione sia immediatamente spendibile per l'immissione nel mercato del lavoro. Da qui la scelta di introdurre anche in paesi come Italia, Spagna e, in misura minore, Francia, rigide separazioni nell'istruzione secondaria tra istruzione generale e formazione professionale. Un ritorno al passato intollerabile che torna ad affidare alla selezione per censo la possibilità di accesso all'istruzione.

La qualità e la diffusione dell'istruzione specialmente di quella secondaria e postsecondaria, rappresentano, invece, uno dei presupposti affinché la forza lavoro si presenti meno indifesa di fronte ai processi di ristrutturazione indotti dall'evoluzione dei sistemi produttivi.

Pur tenendo conto delle disomogeneità dei corsi di studio, in Italia il numero di persone che hanno completato l'istruzione secondaria è pari a circa i due terzi della media OCSE e a circa la metà degli USA e del Giappone. Il basso tasso di iscritti e l'alto tasso di abbandoni è strettamente legato a carenze nelle condizioni economicosociali, con l'eccezione delle regioni più ricche, dove alla domanda diffusa di lavoro non qualificato corrisponde la disponibilità a soddisfarla da parte di giovani animati dal miope desidero di anticipare l'inizio della vita lavorativa e i connessi redditi.

Parallelamente nei paesi tradizionalmente più esposti alle influenze delle destre clericali, si propongono significativi cambiamenti nel sistema di valori posti a fondamento delle scelte educative della scuola pubblica. In sostanza, accanto ad un malinteso modernismo privo di riferimenti culturali, famiglia e religione diventano i cardini della formazione personale degli studenti.

Processi analoghi nel contesto europeo hanno investito le università e più in generale il sistema pubblico di ricerca. Si può dire, anzi, che in questo settore le trasformazioni siano già avvenute con più virulenza ed agendo più in profondità. Il processo di precarizzazione del lavoro intellettuale, al pari della scuola, ha colpito questo settore, che ormai conta circa 55.000 precari. Le tendenze all'aziendalizzazione sono già, in molti paesi, un processo in larga misura compiuto: le università sono ormai aziende che agiscono come corporazioni autonome al servizio delle esigenze del capitale “tecnologico”. Ne sono prova i legami sempre più stretti, anche di carattere finanziario, tra le università e le imprese, per esempio, nel campo dello sviluppo della ricerca e dell'applicazione delle nuove tecnologie. Ma anche il progressivo affermarsi delle “scuole professionalizzanti”, sulla base di scelte ancora una volta indotte dalle esigenze delle imprese private, che assorbono parti consistenti di risorse finanziarie.

Si può dire, insomma, che la destrutturazione del sistema industriale italiano degli ultimi anni è andato di pari passo con la destrutturazione del sistema universitario e di ricerca pubblico.

Anche le statistiche sulla diffusione di persone con titoli universitari mostrano che l'Italia si colloca nelle posizioni più basse tra i paesi sviluppati, sia in rapporto all'intera popolazione, sia in rapporto alla forza lavoro; rispetto ai nostri, i valori Usa sono quasi tripli, quelli giapponese e britannico sono quasi doppi. Il nostro sistema universitario si caratterizza per il più alto tasso di abbandono e la più elevata età media degli iscritti.

La spesa per l'istruzione superiore per studente in rapporto al Pil pro capite si colloca invece nelle posizioni basse della classifica dei paesi più sviluppati.

In questo contesto, il dato positivo è rappresentato dalle mobilitazioni che si sono determinate come reazione all'iniziativa dei governi nei vari paesi. Come la recente mobilitazione dei ricercatori francesi che hanno ottenuto dal governo un piano di assunzioni straordinarie e garanzie di investimenti nel settore. Nell'autunno del 2002 in quattro paesi dell'Unione sono scesi in sciopero un milione e mezzo di lavoratori della scuola. In Italia quella mobilitazione, nonostante siano passati due anni, è ancora in atto ed anzi in questi ultimi mesi si è ulteriormente rinvigorita. Inoltre, accanto ai lavoratori della scuola, in particolare insegnanti, tradizionali attori dei movimenti di opposizione nel settore, a scendere in piazza in modo massiccio sono i cittadini-utenti. È la più autentica dimostrazione di quanto sia radicata nella coscienza collettiva la percezione della scuola pubblica come istituzione fondamentale dello Stato e di quanto sia diffusa la disponibilità a lottare per difenderla.

Nel nostro paese, anche il mondo universitario, sia pure con qualche discontinuità, negli ultimi anni ha reagito; più timidamente quello accademico, con punte molto significative gli studenti (contestazione delle lauree brevi, lotta contro i numeri chiusi, ecc.). Un movimento che si sta estendendo e rafforzando nella mobilitazione di questi ultimi mesi contro gli annunci di riforma governativi che tendono a precarizzare ulteriormente il lavoro intellettuale, a comprimere la qualità dell'insegnamento universitario, a licealizzare l'università per tutti per garantire l'eccellenza per pochi.

4.6 Alcune indicazioni per una nuova politica socialevai a indice

4.6.1 Le politiche del lavorovai a indice

Vanno dunque abrogate le normative approvate sotto il presente governo su parttime, perché sottoposto all'esclusiva discrezionalità padronale, lavoro a termine, orario di lavoro e straordinari che hanno riscritto in senso deregolativo tutte le norme riguardanti la prestazione lavorativa. Un punto di riferimento potrà essere offerto anche dalle precedenti normative (orario giornaliero, causali limitative all'uso dei contratti a termine, limiti al lavoro straordinario, ecc..).

La “legge 30” va abrogata in quanto modifica il rapporto tra legislazione e contratto collettivo e tra questo e il contratto individuale, dilata l'area della precarietà e del lavoro privo di tutele e diritti, privatizza e liberalizza il collocamento e muta in prospettiva il ruolo e la natura del sindacato. In particolare vanno previste norme di “stabilizzazione” dei rapporti atipici e precari nella direzione di ritornare a rendere “normale” il rapporto di lavoro a tempo determinato.

Bisogna superare tutte quelle forme di lavoro che non garantiscono né un reddito sufficiente a vivere né la maturazione di una pensione adeguata. Va eliminata la figura dei collaboratori coordinati e continuativi; quelli esistenti vanno inquadrati nel lavoro dipendente o in quello autonomo.

L'introduzione di tutele nel mercato del lavoro non va contrapposta ai diritti nel lavoro. Si deve ampliare l'area del lavoro tutelato dall'articolo 18 della legge 300 ai lavoratori delle piccole imprese Per le politiche salariali, che naturalmente restano competenza delle organizzazioni sindacali, va comunque assunta a livello politico l'esistenza di un'emergenza salariale. Le politiche salariali devono quindi puntare al recupero delle quote di partecipazione al prodotto nazionale perse dalle retribuzioni dei lavoratori nel corso degli ultimi anni. Lo stesso adeguamento del potere d'acquisto dei salari alla variazione dei prezzi deve essere effettivo, cioè riferito all'andamento dell'inflazione reale e non ad una ipotetica inflazione programmata che sistematicamente risulta ottimistica. Il collegamento all'inflazione è stato invece effettivo per quanto riguarda il prelievo fiscale e va dunque finalmente effettuata la restituzione del fiscal drag.

L'emergenza salariale non può essere affrontata attraverso un riequilibrio tra salario diretto ed oneri contributivi a carico del lavoratore per le evidenti conseguenze sul sistema previdenziale.

4.6.2 Le politiche per la previdenzavai a indice

Le previsioni per il nostro sistema pensionistico estese ai prossimi decenni segnalano come i problemi preoccupanti siano quelli connessi non alla sua sostenibilità finanziaria, ma alla sua incapacità di assicurare pensioni adeguate a milioni degli attuali lavoratori.

Le statistiche indicano come la vecchiaia non sia attualmente, nel nostro paese, una diffusa causa di povertà. Tale situazione deriva anche dalla copertura pensionistica assicurata finora dalla previdenza pubblica. Nel futuro che già si prospetta a legislazione attuale non sarà più così.

Si tratta di problemi da affrontare per tempo, come è doveroso che sia per un sistema previdenziale.

Per offrire trattamenti pensionistici più adeguati alle tradizionali categorie dei lavoratori autonomi è ragionevole pensare ad un progressivo avvicinamento delle loro aliquote contributive a quelle attuali dei lavoratori dipendenti le quali non devono diminuire.

Lo stesso risultato in termini di prestazioni deve essere ottenuto per le categorie dei lavoratori parasubordinati con contratti atipici e attività ridotte e non continuative. E' quindi necessario coniugare l'aumento delle aliquote contributive con la copertura contributiva anche per i periodi di non lavoro. Si tratta in questo modo di garantire una pensione decente anche per le figure di lavoro cosiddette “atipiche” e nel contempo di ridurre fortemente la segmentazione del mercato del lavoro generata dal differente costo contributivo delle nuove figure lavorative Per i lavoratori che pur avendo raggiunto la vecchiaia dopo una consistente storia contributiva non abbiano comunque maturato un livello basilare di pensione, va reintrodotto il meccanismo dell'integrazione al minimo; va invece soppresso il meccanismo vigente in base al quale si perde addirittura tutta la contribuzione versata se il suo ammontare è insufficiente a generare una prestazione superiore a 1,2 volte il livello della pensione sociale.

La completa salvaguardia della contribuzione versata richiede anche che sia risolto il problema dei ricongiungimenti delle contribuzioni versate in diverse attività lavorative e forme d'impiego senza dover incorrere in costosissime penalizzazioni.

Nella contabilità pensionistica andrebbe sempre mantenuta distinzione tra le prestazioni maturate con criterio attuariale e quelle erogate in ottemperanza a considerazioni sociali ed anche economiche, ma scollegate dal vincolo attuariale.

Più in generale la distinzione tra previdenza e assistenza va estesa ai numerosi casi di confusione contabile esistenti nei bilanci previdenziali poiché concorrono a darne una erronea rappresentazione e determinano effetti redistributivi a danno del mondo del lavoro cui vengono attribuiti oneri che riguardano l'intera collettività.

Redistribuzioni perverse all'interno del mondo del lavoro sono invece avvenute con l'accorpamento nei bilanci dell'Inps delle gestioni di categorie di lavoratori particolarmente favorite - da ultimo i dirigenti d'azienda; queste categorie, avendo da sempre goduto di rapporti privilegiati anche a livello previdenziale, hanno apportato considerevoli deficit gestionali al fondo pensione dei lavoratori dipendenti e continuano ad usufruire di trattamenti previdenziali migliori.

Specialmente in previsione di un ritorno a tassi di crescita dell'economia più elevati - che faciliterebbero il finanziamento dei trasferimenti pensionistici - vanno ripristinate misure d'indicizzazione reale delle pensioni per evitare un allontanamento socialmente insostenibile delle pensioni dagli altri redditi.

Anche l'indicizzazione ai prezzi va migliorata e resa più aderente alle abitudini di consumo dei pensionati.

Uno sviluppo di tipo sostitutivo della previdenza privata a capitalizzazione rispetto a quella pubblica a ripartizione non avrebbe nessuna capacità di favorire la soluzione di eventuali problemi di sostenibilità macroeconomica dei trasferimenti pensionistici; qualunque sia la loro causa, incluso quelle di tipo demografico.

Un accentuato sviluppo dei fondi pensione privati - oltre a dirottare all'estero ingenti flussi di risparmio nazionale, riducendo le disponibilità finanziarie dei lavoratori e delle imprese, oltre a deprimere ulteriormente la domanda - aumenterebbe i costi di gestione e ridurrebbe la sicurezza delle prestazioni del complessivo sistema pensionistico.

Se l'intero flusso del Tfr affluisse ai fondi privati, sarebbe molto difficile sommare le loro prestazione a quelle attuali del sistema pubblico; la rafforzata pressione a ridurre queste ultime si assocerebbe inevitabilmente ad una riduzione dei contributi delle imprese al sistema pubblico obbligatorio (la decontribuzione), determinando una corrispondente redistribuzione di reddito a danno dei lavoratori.

Poiché la previdenza a capitalizzazione non è uno strumento affidabile ed efficiente per risolvere i problemi di insufficiente copertura pensionistica che si stanno prospettando per milioni di lavoratori, essa dovrebbe essere realmente facoltativa (rendendo trasparenti le sue caratteristiche a tutti i potenziali interessati) e di natura aggiuntiva rispetto al compito di fornire una copertura pensionistica adeguata svolto autonomamente dal sistema pubblico a ripartizione.

Il sostegno pubblico ai fondi privati dovrebbe essere rapportato a questo tipo di funzioni loro assegnate; vanno comunque ripensate le modalità esistenti.

L'attuale legislazione fiscale (introdotta nel 2000) incentiva il risparmio previdenziale senza fare distinzioni né tra le sue forme d'impiego (fondi negoziali, fondi aperti, polizze individuali), né tra i tipi di reddito da cui proviene (salari, profitti, rendite). In tal modo si ignora lo spirito della Costituzione che (art. 38) sostiene la necessità di assicurare un reddito pensionistico non ai titolari di qualsiasi reddito, ma ai lavoratori. Infatti solo per essi si pone il problema naturale di avere un reddito anche quando la vecchiaia non consente più di lavorare. Invece, la vecchiaia non costituisce causa d'interruzione per i redditi non da lavoro. Incentivando il risparmio dei titolari di reddito non da lavoro, lo stato pone a carico della collettività un onere cui non corrisponde affatto un'esigenza previdenziale, ma solo quella più generica di stimolare il risparmio in quanto tale. Questa incongruente redistribuzione è, per di più, accentuata dal criterio di incentivazione della partecipazione ai fondi pensione privati che è regolata mediante detrazione fiscale dei contributi versati dal reddito imponibile; il contributo statale, quindi, è proporzionale all'aliquota marginale che è maggiore per i titolari di reddito più elevati.

Peraltro, anche tra le diverse categorie di lavoratori (parasubordinati, dipendenti, autonomi, professionisti), il problema di assicurare la continuità di reddito nella vecchiaia si pone in modi e misure diverse. Quest'ultima circostanza giustificherebbe, ad esempio, la particolare attenzione (sopra indicata) per i lavoratori parasubordinati che, coerentemente all'interesse di tipo sociale, dovrebbe essere soddisfatta nell'ambito del più sicuro sistema pensionistico pubblico a ripartizione.

4.6.3 Politiche per gli ammortizzatori sociali e l'assistenzavai a indice

Il nostro sistema di welfare è prevalentemente rivolto alla figura del lavoratore ed è caratterizzato da numerosi aspetti di tipo categoriale; sia le modalità del suo finanziamento, sia l'erogazione delle prestazioni lasciano uno spazio inadeguato ai criteri di carattere universalistico.

I modelli di tipo occupazionale, tipici dei sistemi di welfare dei paesi dell'Europa continentale, hanno una loro motivazione nella rilevante circostanza - tendenzialmente sottovalutata o addirittura ignorata nella visione neoliberista - che i lavoratori sono una significativa componente della collettività con esigenze specifiche da soddisfare.

D'altra parte, tra i bisogni di sicurezza sociale ce ne sono anche di importanti che riguardano il cittadino in quanto tale e, dunque, vanno affrontati con criteri universalistici. Il riconosciuto bisogno di aumentare l'erogazione di prestazioni universalistiche non va dunque sostenuto, come spesso viene strumentalmente fatto, per contenere le prestazioni di tipo occupazionale.

Le considerazioni appena espresse si applicano con particolare attinenza alle politiche per gli ammortizzatori sociali e l'assistenza nel nostro paese.

L'assicurazione contro la disoccupazione è uno degli istituti dello stato sociale che storicamente nasce su pressante richiesta dei lavoratori, la cui forza contrattuale e politica è legata anche alla possibilità di neutralizzare in qualche misura il rischio, se non la minaccia, della perdita del posto di lavoro e del corrispondente reddito.

Nel nostro sistema di welfare, la tutela dei disoccupati è largamente insufficiente e comunque è nettamente inferiore rispetto a quella presente negli altri paesi europei.

Per questo abbiamo proposto da tempo l'introduzione di un salario sociale di almeno 525 euro al mese esentasse per i giovani in cerca di lavoro e per i disoccupati di lunga durata, connesso con la fornitura di servizi formativi e sociali gratuiti a carico degli enti locali. Occorre quindi aumentare le risorse a disposizione per le indennità di disoccupazione e i trattamenti di mobilità, allargando le possibilità di fruirne ai lavoratori parasubordinati i quali, avendo una storia contributiva spezzettata, pagano la precarietà lavorativa anche in termini di minori possibilità d'accesso alle prestazioni di disoccupazione.

I prepensionamenti, sia nella sostanza, sia per la contabilizzazione dei loro oneri a carico del settore pensionistico, costituiscono uno strumento perverso per affrontare i problemi della disoccupazione che, dunque, andrebbe progressivamente eliminato e contestualmente sostituito con misure più conformi allo scopo.

In particolare, per i lavoratori interessati a ristrutturazioni aziendali, ma in generale per tutti i lavoratori disoccupati - specialmente quelli di lunga durata - vanno potenziate le attività di formazione e aggiornamento professionale la cui frequenza dovrebbe essere collegata alla fruizione delle indennità assicurative.

Corsi di aggiornamento, o di formazione continua, dovrebbero essere normalmente previsti anche per i lavoratori occupati, con oneri non solo a carico dello stato sociale, ma anche delle imprese che usufruiscono delle maggiori capacità acquisite dai lavoratori La disoccupazione genera oneri individuali e sociali non solo quando riguarda persone che hanno perso l'occupazione, ma anche nel caso di chi non è mai riuscito a trovare un lavoro.

Alla generalità dei cittadini dovrebbe essere offerta la possibilità di accedere a corsi e programmi di avviamento al lavoro; a coloro che non abbiano altri redditi dovrebbe anche essere assicurata una garanzia di reddito minimo che assicuri le esigenze vitali.

Il recupero e l'estensione dell'esperienza del reddito minimo d'inserimento (non la sua soppressione come invece è stato fatto) o l'introduzione di altre forme di intervento a sostegno della condizione dei disoccupati - in particolare di chi no ha altri redditi - dovrebbero essere praticate come strumenti aventi non solo carattere assistenziale, ma finalizzate all'introduzione al lavoro. A tal fine, non andrebbe trascurata la possibilità di impiegare i fruitori di queste prestazioni in attività formative e/o d'impiego in programmi e attività volti a corrispondere esigenze socialmente ed economicamente valide, ma che il mercato non riesce attualmente a soddisfare in mancanza di una spinta iniziale e di un sostegno temporaneo di tipo finanziario, organizzativo e manageriale.

La nostra complessiva spesa assistenziale va portata ai livelli medi europei che sono nettamente superiori; una particolare attenzione va riservata alla sua composizione tra prestazioni monetarie e prestazioni in natura e a alla sua ripartizione territoriale.

Attualmente risulta particolarmente carente il sostegno alle esigenze delle donne madri e lavoratici e di quelle degli anziani non autosufficienti. In entrambi i casi l'offerta di servizi alla famiglia allenterebbero i compiti di assistenza che gravano sulle donne e che contribuiscono a spiegare sia la loro bassa partecipazione al mondo del lavoro, sia la preoccupante bassa natalità nel nostro paese.

La spinta federalista che si è affermata negli ultimi anni ha contribuito a rendere più sperequata la distribuzione dei pochi fondi disponibili per l'assistenza. E' una tendenza che andrebbe controllata con opportuni vincoli alla ripartizione dei nuovi fondi. A quest'ultimo riguardo, occorre tuttavia tener conto della più complessiva problematica connessa all'articolazione territoriale dello stato sociale e degli istituti che a livello locale concorrono alla salvaguardia di esigenze e diritti sociali.

4.6.4 Politiche per l'istruzione e la formazionevai a indice

L'istruzione - dai livelli di base fino a quello post secondario e universitario - e l'attività di formazione permanente rappresentano componenti della spesa sociale che associano strettamente finalità di emancipazione individuale con effetti positivi sulle capacità di un sistema produttivo e sul livello di civiltà e delle relazioni sociali di un paese. Tuttavia, nonostante proprio i processi di globalizzazione abbiano accentuato l'esigenza di più elevati e diffusi livelli d'istruzione, la spesa nel settore e la sua qualità sono ancora insoddisfacenti.

Nonostante tutte le esperienze di riforma tese ad aumentare la componente di mercato nel settore abbiano confermato che la particolarità e la complessità degli obiettivi da perseguire con la diffusione del bene istruzione possano trovare corrispondenza solo nell'intervento pubblico, quest'ultimo, in particolare in Italia, viene trascurato a favore della scuola privata. Si tratta di una tendenza da frenare e invertire.

L'Europa deve dare risposte alle istanze poste dai movimenti con politiche che inducano lo sviluppo qualificato dei sistemi scolastici pubblici nazionali e che abbattano le barriere che impediscono l'accesso da parte dei ceti sociali più deboli ai gradi più alti di istruzione.

Sul piano economico devono essere fissati “parametri sociali” indicando una significativa soglia di spesa in rapporto al PIL che ogni paese membro deve rispettare con l'obiettivo di incrementare la spesa per l'istruzione e di generalizzarla, gradualmente ma entro un tempo definito, a livelli più alti. Analogamente per l'università devono essere previste misure che garantiscano massicci finanziamenti pubblici per realizzare l'obiettivo della crescita della produzione culturale dell'Europa e per finanziare adeguatamente la ricerca di base, soffocata dalla logica della corsa al beneficio immediato legato al mercato.

Si deve inoltre garantire la reale circolazione dei risultati di ricerche tra i vari paesi membri così come dei ricercatori e degli studenti.

Va posto l'obiettivo di innalzare l'obbligo scolastico in tutti i paesi fino a 18 anni, rimandando a percorsi successivi la formazione specialistica per il lavoro e prevedendo stanziamenti per il sostegno al reddito che rendano effettivo il diritto allo studio per tutti.

Bisogna disegnare per la scuola pubblica europea un profilo saldamente ancorato ai principi e ai riferimenti valoriali che definiscono i tratti essenziali della cultura europea. La scuola deve perciò essere, in tutti gli stati membri, luogo di incontro e di libero confronto tra le culture che convivono in una società sempre più, multiculturale e multireligiosa, come premessa necessaria allo sviluppo di una autentica educazione alla pace. Così come l'università deve essere messa in condizione di svolgere il suo ruolo preminente di formazione culturale e scientifica svincolata dalle logiche mercantili.

Occorre, quindi, anche su questo punto, modificare la costituzione europea laddove afferma il primato della “concorrenza libera e non falsata” su qualsiasi disposizione normativa, e la subordinazione alle regole del “libero mercato” a quelli che vengono definiti i servizi di interesse generale tra cui rientrano scuola e università. A tal fine, i principi enunciati nell'art. 3 della Costituzione italiana possono rappresentare un importante punto di riferimento.

Si tratta, in ultima analisi, di rimettere in discussione le caratteristiche che ha assunto l'intervento comunitario su questi settori strategici, a partire dal Libro Bianco di Delors passando per le conferenze di Lisbona e Barcellona, fino ai nostri giorni.

Deve potersi affermare il principio che l'obiettivo delle politiche scolastiche non è “l'economia della conoscenza” ma la produzione e la riproduzione della conoscenza libera e accessibile a tutti, anche per produrre sviluppo economico.

4.6.5 Politiche per la sanitàvai a indice

Il SSN, dalla sua istituzione, ha indubbiamente collaborato in modo significativo al miglioramento delle condizioni sanitarie del paese che è segnalato da numerosi indicatori. Però non mancano questioni anche urgenti da affrontare, alcune delle quali sono state create o accentuate dal tipo di evoluzione che più di recente ha caratterizzato la sanità.

Nel nostro settore sanitario l'aumento della quota della spesa privata rispetto a quella pubblica è stata la più elevata in Europa; i problemi di efficacia, di appropriatezza, di costo, di iniquità distributiva e di copertura delle prestazioni che in tutti i paesi sono seguiti a questo mutamento di composizione, si pongono in Italia con particolare intensità.

L'abrogazione del rapporto di esclusiva per i medici dipendenti del SSN è un significativo esempio di presunta collaborazione tra pubblico e privato che si risolve nell'accollare al pubblico la parte sostanziale degli oneri salariali del personale sanitario e nel consentire alle strutture private di poter disporre a basso costo aggiuntivo di questo personale per fare concorrenza alle strutture del SSN nei settori scelti tra quelli più profittevoli.

Alcuni indicatori di appropriatezza della spesa segnalano morti evitabili, ricoveri inutili, spese farmaceutiche eccessive e ingiustificatamente variabili nel tempo e tra regioni diverse, disomogenea distribuzione delle prestazioni sia con riferimento al reddito e all'istruzione dei beneficiari, sia a livello territoriale. Tra le diverse regioni si segnalano, in particolare, significative disomogeneità nella spesa, nei tassi di ospedalizzazione e nella lunghezza delle liste di attesa Il nostro SSN ha sempre decentrato alle regioni funzioni rilevanti, ma la modifica del titolo V della Costituzione ha generato innegabili effetti negativi che sono: la diminuzione dell'impegno redistributivo a favore dei territori più poveri; l'incremento della litigiosità e dei costi di transazione connessi ad una difficile ripartizione dei compiti; il rischio di una moltiplicazione del ricorso a sistemi di spoil system che penalizza la ricerca medica e le competenze professionali.

Significative carenze di copertura del nostro sistema sanitario pubblico da eliminare sono quella per le cure dentarie, per l'assistenza ai non autosufficienti e per la riabilitazione e cura del disagio mentale. Si tratta di spese che incidono significativamente sui bilanci familiari; ma per i titolari di redditi non elevati, la difficoltà di sostenere queste spese si traduce in mancato accesso alle prestazioni, che rende indespensbile l'intervento pubblico. Occorre finanziare sul fondo sanitario nazionale le cure sanitarie senza limiti di durata delle persone non autosufficienti, colpite da malattie croniche e da malattia di Alzheimer, e con handicap grave: vanno potenziati e i servizi di assistenza domiciliare, aperti quelli di ospedalizzazione a domicilio e diffuse le Residenze sanitarie assistenziali. Nello stesso tempo, bisogna garantire il diritto alla riabilitazione e cura a tutte le persone con disagio mentale: vanno attivate le strutture territoriali dei dipartimenti di salute mentale, respingendo ogni tentativo di riprodurre situazioni ex manicomiali e l'uso e abuso di psicofarmaci nell'età evolutiva.

Allargando lo sguardo al contesto internazionale e europeo va ricordato che nel 1978, la Conferenza internazionale di Alma Ata aveva assunto l'obiettivo "salute per tutti entro il 2000".

Nel 2001 la rivista sanitaria inglese The Lancet riprendeva i temi del movimento dei movimenti, segnalando che l'accordo GATS (non sottoscritto, grazie al fallimento dell'appuntamento di Cancun) mette in discussione il finanziamento dei servizi sanitari attraverso sistemi ridistributivi come la fiscalità progressiva, e quindi la copertura universale dei rischi e il ruolo pubblico nella programmazione, finanziamento ed erogazione dei servizi, in quanto sono ostacoli alla libera concorrenza.

In realtà, il Gats si colloca all'interno del processo, ormai trentennale, di dissoluzione del Welfare a favore dell'espansione del commercio nei servizi, perseguito dalla Banca Mondiale e del FMI attraverso il blocco della spesa pubblica.

Nello stesso anno della Conferenza di Alma Ata, la Banca Mondiale redigeva il primo documento interamente dedicato alla sanità, dando le indicazioni da seguire per i servizi sanitari, nell'ambito delle politiche di aggiustamento strutturale, che avevano valore prescrittivo nei confronti dei paesi più indebitati.

Le misure suggerite erano quattro, strettamente correlate tra loro: prevedere forme di partecipazione alla spesa da parte degli utenti dei servizi sanitari pubblici ; promuovere sistemi assicurativi; favorire la privatizzazione dei servizi sanitari; decentrare la programmazione, l'organizzazione e il finanziamento dei servizi.

L'attuazione di questa strategia ha portato a quello che di recente, Le Monde ha definito l'"apartheid sanitario": disuguaglianze abissali nell'accesso al bene salute non solo tra i paesi industrializzati e il Terzo mondo, ma anche all'interno dei paesi industrializzati.

La strategia della Banca Mondiale è stata applicata,in diversa misura e con diverse combinazioni, sia dai governi di destra che di sinistra, anche nei paesi dell'UE, dove la presenza e la capacità di resistenza e di tenuta dei sistemi sanitari tendenzialmente universalistici preesistenti ha sinora ridotto il danno, ma quegli stessi sistemi sono messi a dura prova dal processo di aziendalizzazione, cioè dall'assolutizzazione del criterio di economicità del servizio.

In questo quadro, nel testo del Trattato per la Costituzione europea licenziato dalla Convenzione la libertà d'impresa è l'elemento sovraordinatore e di conseguenza è ambigua la nozione stessa di servizio di interesse pubblico e le norme relative alla parità di accesso non sono prescrittive. Inoltre, in materia sociale e sanitaria vige il principio di sussidiarietà.

Al contrario gli obiettivi politici che si è dato il movimento al Forum sociale europeo di Parigi sul diritto alla salute, e che condividiamo e riproponiamo, sono i seguenti: potenziare i servizi sanitari a gestione pubblica e offerta universale, andando oltre i servizi di base per riaffermare sistemi unitari che assicurano la prevenzione, cura e riabilitazione; finanziare la spesa sanitaria pubblica con sistemi fiscali progressivi; avviare un processo per la costruzione di un servizio pubblico mondiale, in cui sia riconosciuto e finanziato il diritto alla salute di tutti.

L'impostazione neoliberista che ha prevalso negli ultimi due decenni e la sua influenza sulle scelte fatte nel nostro paese hanno peggiorato gli equilibri sociali ed economici al punto che non dovrebbero esserci dubbi sulla necessità di un serio ripensamento delle linee generali di politica economica.

Gli esiti negativi di scelte rilevanti per la struttura del nostro sistema sociale e produttivo - frutto dell'accettazione acritica di dettami liberisti fuori tempo - devono essere rimessi in discussione.

Negli ultimi anni, gli obiettivi principali della politica economica e sociale sono stati la riduzione del costo del lavoro e l'aumento della sua flessibilità.

Anche in Italia, oggi, difendere in generale le condizioni economiche e sociali del lavoro e dei lavoratori e, più specificamente, lo stato sociale, significa non solo essere coerenti con gli interessi e gli ideali che devono trovare rappresentanza politica nella sinistra, ma anche opporsi ad un modello di sviluppo che è perdente sul piano della competizione internazionale.

Peraltro, deve essere reso chiaro che la riduzione del carico fiscale non è compatibile con l'esigenza di erogare più beni e servizi pubblici la cui mancata offerta da parte delle amministrazioni pubbliche richiederebbe il ricorso sostitutivo al mercato il quale, tuttavia, li fornisce solo a condizioni economiche più penalizzanti, sia per i bilanci dei singoli cittadini, sia per il benessere della collettività che dipende anche dall'equità e dalla solidarietà sociale.

I problemi del lavoro, del welfare state e del complessivo sviluppo economico e sociale sono strettamente interconnessi; ogni misura specifica deve essere coerente ad un nuovo disegno generale di politica economica.

Affinché le nostre istituzioni del welfare possano svolgere le loro funzioni in modo adeguato alle necessità sociali e produttive che si pongono, la spesa complessiva dovrà progressivamente riavvicinarsi alla media europea.

La carenza della nostra spesa si traduce in un peggioramento sia delle condizioni produttive, sia di quelle sociali, appesantendo gli oneri che ricadono sulle famiglie, in particolare sulle donne. Questa situazione implica non solo sociali, ma anche maggiori vincoli per la capacità e la funzionalità del sistema produttivo.

4.7 La questione abitativa in Italia e in Europavai a indice

Assistiamo in Europa e in Italia al fallimento delle politiche di privatizzazione degli immobili pubblici e di liberalizzazione degli affitti. Questo fallimento è segnato dal fatto che in Europa sono stati rilevati 3 milioni di persone senza casa e 70 milioni di cittadini mal alloggiati ( coabitanti, migranti etc) La casa o meglio le modalità per l'affermazione del diritto alla casa non possono non partire da una visione europea della questione.

Un dato su tutti è quello fornito da Eurostat.

Per l'alloggio e la lotta all'esclusione sociale in Europa la spesa media è del 3,8% .

Le punte sono rappresentate dalla Danimarca con il 6.1% , dalla Francia con il 4,6%, dall'Inghilterra con il 7%, l'Olanda con il 7,4%. L'Italia in questa graduatoria è ultima con un misero 0.2%.

Anche per quanto concerne le condizioni abitative l'Italia è più vicina ai Paesi del cosiddetto sud (Spagna, Portogallo, Grecia etc), infatti proprio in questi Paesi sono presenti le percentuali più alte di famiglie che abitano in case di proprietà. La Spagna vede una percentuale di famiglie proprietarie dell'82% e l'Irlanda del 75% , mentre ad esempio la Germania vede meno di una famiglia su due proprietaria di alloggio.

Altro dato europeo significativo è quello relativo al sovraffollamento degli alloggi.

Anche in questo caso l'Italia è nel gruppo dei Paesi del sud. Infatti gli alloggi che vedono un numero di occupanti superiore al numero delle stanze è del 42% in Grecia, del 35% in Portogallo, del 32% in Italia e del 27% in Spagna. Al contrario nei Paesi Bassi e in Inghilterra la percentuale di alloggi sovraffollati è del 4% e del 9% La media europea è del 19%.

Infine per quanto riguarda gli alloggi sociali in affitto Eurohousing nel 2001 ha reso pubbliche le seguenti percentuali riferite agli alloggi sociali sul totale degli alloggi e sul totale degli alloggi in affitto: Nel Regno Unito gli alloggi sociali rappresentano il 21% del totale degli alloggi e il 66% degli alloggi in affitto; in Olanda gli alloggi sociali rappresentano il 36% del totale degli alloggi e il 75% degli alloggi in affitto; in Francia gli alloggi sociali sono il 16% del totale degli alloggi e il 41% degli alloggi in affitto; In Italia gli alloggi sociali sono il 4,3% del totale degli alloggi e solo il 23% di quelli in affitto.

Questo ultimo dato, per quanto concerne l'Italia, andrà rivisto alla luce delle dismissioni e cartolarizzazioni avviate e in corso nel nostro Paese.

C'è bisogno di una vera e propria inversione di tendenza rispetto alle politiche finora perseguite in Italia e in Europa a partire dall'inserimento del diritto alla casa nella Costituzione europea ma è necessario procedere alla sospensione delle politiche di privatizzazione dei patrimoni pubblici,, contestualmente è necessario che la casa entri tra le competenze dell'Unione Europea con utilizzo di fondi strutturali che rilancino lo sviluppo di edilizia sociale, intendendo la casa come servizio di interesse generale sottratto ai criteri della libera concorrenza.

Una prima iniziativa che si lega alla campagna “ sfratti zero” lanciata al SFM di Mumbai deve essere il sostegno alla lotta intrapresa da alcuni sindaci francesi che hanno emesso ordinanze con le quali dichiarano il proprio territorio libero dagli sfratti, proposta che potrebbe essere ripresa anche in Italia.

In Italia in particolare è necessario cancellare dalla legge 431/98 il canale del libero mercato e lo sviluppo di edilizia residenziale pubblica a canoni sociali e la sospensione delle esecuzioni di sfratti senza rialloggio

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Partito della Rifondazione Comunista - Italia
Roma, 17 maggio 2004