Rapporto di Jean Ziegler – Relatore speciale dell’ONU per il diritto all’alimentazione nei Territori Occupati da Israele

Dai territori Territori Occupati da Israele

3. DATI E PROBLEMATICHE FONDAMENTALI PER LA FRUIZIONE DEL DIRITTO ALL’ALIMENTAZIONE

A. La crisi umanitaria e il diritto all’alimentazione

Il Relatore Speciale ha espresso la sua viva preoccupazione per l’aggravarsi dei tassi di povertà e di malnutrizione riscontrati tra i Palestinesi. La crescente dipendenza del popolo palestinese dagli aiuti umanitari, e nel contempo la difficoltà con cui questi riescono ad essere erogati, stanno incrementando la vulnerabilità della popolazione palestinese. Nel corso di colloqui con il Relatore Speciale, le autorità israeliane hanno riconosciuto che esiste una crisi umanitaria nei Territori, e non hanno contestato le statistiche sull’incremento della malnutrizione e della povertà dei Palestinesi. Tuttavia, a loro avviso si tratta della conseguenza, deplorevole quanto inevitabile, delle misure di sicurezza necessarie per prevenire gli attacchi ai danni degli israeliani. Il Relatore Speciale non intende discutere delle esigenze in termini di sicurezza dello Stato di Israele, e comprende i rischi corsi quotidianamente dai cittadini israeliani. Tuttavia, secondo il Relatore Speciale, le attuali misure si rivelano totalmente sproporzionate, in quanto stanno provocando la fame e la malnutrizione dei civili palestinesi, il che equivale ad una punizione collettiva della società palestinese. Come segnalato da Amnesty International, non è ammissibile punire l’intera popolazioni per le azioni commesse da pochi dei suoi membri.

Le autorità israeliane legate sia al Ministero della Difesa sia all’amministrazione civile hanno informato il Relatore Speciale di aver cercato in alcune circostanze di prendere provvedimenti per alleviare la situazione umanitaria. Il sito Web dell’esercito israeliano contiene una lista delle misure adottate. Tuttavia, il Relatore Speciale ha notato che questi provvedimenti isolati stanno producendo effetti limitati: come ha affermato la Banca Mondiale, “la causa profonda della crisi economica palestinese è dovuta al blocco dei Territori” e perciò è solo eliminando il regime di chiusura che la catastrofe umanitaria può essere arrestata.

Il Relatore Speciale ha espresso la sua preoccupazione per la continua distruzione e confisca dei terreni palestinesi, dell’acqua e di altre risorse. Il continuo sequestro di terreni palestinesi ostacolerà in modo decisivo la possibilità di creare uno stato palestinese indipendente, dotato di una economia e di un settore agricoli vitali, e in grado di assicurare al popolo palestinese la fruizione del diritto all’alimentazione.

B. Violazioni del diritto all’alimentazione

Il Relatore Speciale si è rammaricato per le numerose e documentate violazioni del diritto all’alimentazione. In questa sezione, evidenzia le violazioni dei doveri stabiliti dalla commissione per il diritto all’alimentazione. Come sottolineato dal Commento Generale 12 della Commissione su Diritti Economici, Sociali e Culturali, questi obblighi prevedono il rispetto, la protezione e l’adempimento del diritto all’alimentazione.

Obbligo del rispetto del diritto all’alimentazione

L’obbligo di rispettare il diritto all’alimentazione implica che la potenza occupante non deve in alcun modo danneggiare o distruggere le attuali risorse alimentari dei Palestinesi. Si tratta di un dovere imprescindibile ed impedisce alla potenza occupante di restringere, negare o distruggere le risorse necessarie per un’adeguata fruizione del diritto all’alimentazione.

(i) Chiusura dei territori e coprifuoco

L’imposizione su vasta scala della chiusura dei territori, dei coprifuoco e delle autorizzazioni a circolare costituisce una violazione dell’obbligo di rispettare il diritto all’alimentazione, in quanto minacciano l’accesso sia fisico sia economico alle risorse alimentari da parte dei palestinesi. Ai palestinesi è stato impedito fisicamente di poter fruire dei generi di prima necessità, essendo essi rinchiusi nelle loro abitazioni a causa dei prolungati coprifuoco, e si registra una carenza di prodotti nei negozi a causa del blocco dei Territori. Le misure militari intraprese allo scopo di proteggere gli insediamenti nei territori sono illegali, poiché gli insediamenti stessi sono illegali secondo la legislazione internazionale.

L’OCHA ha riportato che nel 2003 “a causa delle restrizioni, la distribuzione e la vendita di prodotti alimentari è stata seriamente danneggiata, inficiando la stabilità delle forniture alimentari ed affliggendo considerevolmente la popolazione rurale”. Uno studio dell’USAID ha rivelato che nel settembre 2002 che “la distruzione dei mercati dovuta ai coprifuoco, a blocco dei Territori, alle incursioni militari e ai posti di blocco ha compromesso la possibilità di reperire alimenti ad alto contenuto proteico, specialmente carne e prodotti caseari, tra i quali il latte in polvere e per i bambini”. Lo stesso studio ha dimostrato che i coprifuoco imposti in Cisgiordania hanno rappresentato la ragione principale della penuria di derrate alimentari, specialmente a Nablus, dove il coprifuoco persistette per 1797 ore dal 21 giugno al 6 settembre 2002, e Tulkarem, che rimase sotto il coprifuoco per 1486 ore nella stesso periodo, insieme a Ramallah e a Betlemme, altre città gravemente colpite dal coprifuoco. A colloquio con l’UNWRA, il Relatore Speciale ha appreso che nonostante un buon raccolto di 250.000 tonnellate di olive bel 2002, i palestinesi sono stati in grado di venderne solo 200 tonnellate a causa delle restrizioni sul commercio. La chiusura con l’esterno ed il controllo da parte israeliana sulle importazioni e sulle esportazioni palestinesi ostacolano enormemente la possibilità di accedere al mercato internazionale e si ripercuote quindi sulla capacità di erogare forniture alimentari quando necessario.

Anche la carenza d’acqua è riconducibile al blocco dei Territori. Comunità come Burin, situata a sud-ovest di Nablus, non dispongono di una fornitura d’acqua autonoma e quindi dipendono completamente dalle distribuzioni esterne, che durante i blocchi avvengono saltuariamente. Il villaggio di Beit Furik, situato a 10 km a sud-est di Nablus, non ha ricevuto rifornimenti idrici per almeno nove giorni consecutivi, in quanto i carri armati erano disposti intorno al villaggio. Un’indagine dell’Associazione Idrologi Palestinesi ha rivelato che 24 villaggi su 27 esaminati dallo studio sono state vittima di carenze idriche per via dei coprifuoco e del blocco dei Territori.

(ii) Distruzione di terre, delle risorse idriche e di altre risorse palestinesi

La distruzione dei mezzi di sussistenza del popolo palestinese comporta anch’essa una violazione del dovere di rispettare il diritto all’alimentazione, laddove si registri la distruzione di strumenti necessari alla sopravvivenza della popolazione civile, come cisterne, colture e infrastrutture agricole, economiche e sociali.

Secondo il Centro d’Informazione Nazionale Palestinese. (PNIC), tra il 29 settembre 2000 e il 31 maggio 2003, le forze di occupazione hanno dato sradicato e distrutto circa 2,5 milioni di ulivi, e oltre un milione tra agrumeti e alberi da frutta. Inoltre, 806 pozzi e 296 magazzini sono stati distrutti, e 2.000 strade, tra arterie principali e secondarie, sono state cinte di filo spinato e migliaia sono state cosparse di montagne di spazzatura. L’Associazione Idrologi Palestinesi registra che, tra il giugno 2002 e il febbraio 2003, 42 camion per il trasporto di cisterne d’acqua sono state parzialmente o totalmente distrutte, e 9.118 cisterne palestinesi per l’approvvigionamento idrico sono state smantellate. La Banca Mondiale stima i danni all’agricoltura intorno ai $217 milioni, nonché danni alle infrastrutture idriche per un valore di circa $140 milioni. A Beith Hanoun, nella Striscia di Gaza, il Relatore Speciale ha constatato di persona la distruzione migliaia di ulivi ed alberi da frutta, così come di terreni agricoli ed infrastrutture: difficilmente tali azioni possono essere giustificate come assolutamente essenziale per operazioni militari, e i Palestinesi le hanno considerate come un’ulteriore forma di punizione collettiva. Secondo i dati del Governatore della regione settentrionale di Gaza, 3.684 dunums di terreno, per un totale di 95.000 albero di ulivo e cedro, sono stati rastrellati dai bulldozer, cinque pozzi sono stati distrutti, molte persone sono state assassinate e molte case sono state demolite durante le incursioni delle forze di occupazione tra il maggio e il giugno del 2003. Gli uffici dei ministeri e gli edifici dell’Autorità Palestinese sono state particolarmente bersagliati, ostacolando così la realizzazione dei programmi di assistenza sociale. La Banca Mondiale ha calcolato i danni alle infrastrutture pubbliche in $251 milioni, tenendo conto del “continuo saccheggio delle sedi e degli uffici municipali dell’Autorità Palestinese”.

(iii) Confisca di terre, risorse idriche e altre risorse palestinesi

La confisca dei territori palestinesi per la realizzazione di insediamenti israeliani nei Territori Occupati costituisce una violazione dell’obbligo di rispettare il diritto all’alimentazione, e rappresenta per i palestinesi una chiara violazione del diritto a non essere privati dei propri mezzi di sussistenza .

In base al diritto internazionale, la costruzione di colonie nei Territori è illegale, ma le organizzazioni non governative rimarcano il fatto che, nel 1999, 44 nuovi insediamenti e avamposti erano stati realizzati in Cisgiordania, 34 nel 2001, mentre altre 14 avevano ricevuto l’approvazione del governo israeliano. L’organizzazione non governativa ARIJ ha stimato l’area complessiva dei territori confiscati o destinati a zone militare nella Striscia di Gaza in 165.000 kmq, ovvero il 45% del territorio di Gaza. Nella Striscia di Gaza, secondo le stime, vivono soltanto 6.429 israeliani che utilizzano il 45% del territorio, a fronte di un milione di palestinesi sul restante 55% del territorio: la densità abitativa palestinese risulta quindi una delle più alte del mondo, e supera di quasi 100 volte quella israeliana.

Sebbene nel sottosuolo palestinese si trovino tre ricche falde acquifere, le statistiche realizzate dalla missione rivelano che la maggior parte delle risorse idriche è controllata e distribuita da Israele in modo sproporzionato a favore degli insediamenti. Il diritto dei palestinesi a fruire delle proprie risorse idriche comprende le falde della Cisgiordania (occidentale, nord-est e orientale) e quelle di Gaza. Tuttavia le statistiche del consumo quotidiano d’acqua pro capite indicano che nel 2002 ciascun palestinese ha consumato 70 litri d’acqua, rispetto ai 350 degli israeliani nelle colonie. Ciò significa che gli israeliani ricevono e consumano una quantità d’acqua cinque volte maggiore di quella dei palestinesi. I dati della Oxfam segnalano che la potenza occupante estrae più dell’85% delle risorse idriche della Cisgiordania. A colloquio con la Commissione Acqua israeliana, Driezin ha informato il Relatore Speciale che il governo israeliano ha offerto ai palestinesi l’accesso ad una centrale di desalinizzazione per procurarsi acqua dal Mar Mediterraneo. Il Relatore speciale ritiene però che non si tratti di una scelta economicamente sostenibile, in quanto esistono già delle falde acquifere in territorio palestinese. Il trasporto dell’acqua si rivelerebbe estremamente costoso e complesso dal punto di vista pratico, alla luce delle restrizioni poste sull’ingresso delle autobotti e della costruzione del muro difensivo tra Israele e i territori. Bisogna perciò stabilire urgentemente una ripartizione più equa delle risorse idriche.

Come precedentemente segnalato, molti intellettuali appartenenti ad organizzazioni non governative (israeliane, palestinesi ed internazionali) ritengono che sia in atto uno sradicamento sistematico ai danni dei palestinesi e una graduale annessione da parte della potenza occupante, per insediamenti, aree di sviluppo, zone militari e strade riservate ai coloni, nonché un persistente confinamo del popolo palestinese all’interno di “bantustan” privi di contiguità territoriale. Sebbene queste annessioni territoriali siano consentite dalla giurisdizione nei Territori, si tratta comunque di una violazione del diritto internazionale, in particolare dell’articolo 43 dei Regolamenti dell’Aia, che proibisce alla forza di occupazione di modificare il sistema legale dei territori occupati.

(iv) Il muro difensivo

Il muro difensivo (chiamato anche “muro dell’apartheid”), è costituito da una barriera elettrificata, a tratti sotto forma di recinto, a tratti in muratura per un’altezza di 8 metri. La costruzione del muro difensivo costituisce una violazione dell’obbligo di rispettare il diritto all’alimentazione perché non è collocato sul confine tra Israele e Territori precedente alla guerra del 1967, ma all’interno della Cisgiordania, annettendo de facto migliaia di ettari di terreno fertile palestinese all’interno dello Stato di Israele. Migliaia di palestinesi sono stati privati dei propri campi agricoli e delle proprie risorse idriche, o sono stati completamente “imprigionati” dal muro inficiando gravemente la fruizione del loro diritto all’alimentazione

Secondo l’organizzazione israeliana per i diritti umana Btselem, 36 comunità (per un totale di 72.000 palestinesi) sono state separate dalle loro aziende agricole e da i loro pozzi ad ovest della barriera. Diciannove comunità (per un totale di 128.500 persone) sono state quasi completamente imprigionate dall’andamento irregolare del muro, tra cui 40.000 persone che si sono trovate intrappolate a Qualqilya, circondate in ogni direzione da una muraglia alta 8 metri, con un’unica strada disponibile controllata da un posto di blocco israeliano. Tredici comunità (per un totale di 11.700 persone) sono rimaste intrappolate in un territorio definito come “zona militare protetta”, situata tra il Muro e la linea verde, e sono rimaste tagliate fuori dalla Palestina e senza l’autorizzazione di entrare in Israele.

Il Relatore Speciale ha visitato un villaggio di 3.500 abitanti situato sulle colline di Qualqilya, nella regione di Tulkarem, dove il terreno particolarmente fertile produce più del 60% di tutti i prodotti ortofrutticoli della Cisgiordania. Il municipio sovrasta gli uliveti e gli agrumeti, nonché le serre per la coltura del pomodoro, che attualmente però si trovano al di là del Muro. Agli abitanti del villaggio sono stati promessi dei cancelli per accedere ai loro campi: sebbene uno sia effettivamente stato costruito, non è però possibile utilizzarlo. Il sindaco ha riferito che “le famiglie hanno cercato numerose volte di raggiungere i loro uliveti, ma i soldati aizzano contro di loro i cani, sparano e picchiano i più giovani, così nessuno se la sente adesso di rischiare”.

La prima fase della costruzione del muro difensivo prevede la confisca di 2.875 acri di terra al solo scopo di spianarla: si tratta di alcune delle terre più fertili di tutti i Territori. Il Muro ha comportato anche l’annessione della maggior parte delle falde acquifere (che compongono il 51% delle risorse idriche della Cisgiordania) all’interno di Israele. A causa del muro, che impedisce di fruire delle risorse idriche, molti palestinesi che vivono in quelle aree saranno costretti ad emigrare. È stato calcolato che circa 6000-8000 persone abbiano già lasciato l’area di Qualquilya. Sebbene alle comunità sia stato concesso il diritto di appellarsi contro la confisca delle loro terre, pochi hanno avuto successo e la rapidità con cui la potenza di occupazione sta portando avanti la costruzione del muro (24 ore ore su 24) non consente di svolgere processi equi.

La seconda fase della costruzione del muro difensivo, come sottolineato nei documenti del Ministero della Difesa consegnati al Relatore Speciale durante il suo incontro con l’ingegnere incaricato della costruzione del Muro, taglierà in due la Cisgiordania, da Salem fino a Bet-Shean. Ciò significherebbe de facto l’annessione dell’intera Valle del Giordano all’interno del territorio israeliano. Come descritto da Yediot Ahronot nel marzo 2003 e riportato in Between the Lines, “Questo muro taglierà via quasi la metà dell’area del futuro Stato palestinese, e perciò escluderà qualsiasi opzione ragionevole per la risoluzione del conflitto nei prossimi anni. I palestinesi si troveranno costretti a subire una forma di neo-colonialismo e ciò ovviamente provocherà delle insurrezioni persino peggiori di quelle attuali”. Il muro difensivo è ritenuto da molti come un’espressione concreta dell’idea di trasformare la Palestina in uno "Stato bantustan" privo di confini riconosciuti a livello internazionale, nel tentativo di operare una politica strategica volta a dividere il territorio, a separare il popolo palestinese in 5 cantoni o “bantustan” a malapena contigui tra loro. Il Relatore Speciale ravvisa in questa operazione una negazione strutturale del diritto all’alimentazione, in quanto comprometterà in modo irreparabile la possibilità di realizzare uno Stato palestinese vitale, e quindi dotato di un’ economia autonoma e in grado di promuovere l’autosufficienza alimentare, alla pari di un normale Stato dotato di confini riconosciuti a livello internazionale.

Obbligo di tutela del diritto all’alimentazione

L’obbligo di tutelare il diritto all’alimentazione implica che lo Stato responsabile deve tutelare la popolazione civile nelle aree occupate da terzi che cerchino di restringere, negare o distruggere l’accesso esistente delle popolazioni alle risorse alimentari e idriche.

Tra le violazioni di tale obbligo di tutela figura anche l’impunità per i coloni che sparano ai palestinesi quando questi si trovano nei loro campi per le attività di raccolta. L’organizzazione non governativa israeliana “Alternative Information Centre” redige rapporti regolari sulle frequenti violenze perpetrate dai coloni ai danni dei palestinesi e del loro diritto all’alimentazione. L’organizzazione ha riscontrato, ad esempio, che il 12 aprile 2001, “coloni israeliani armati hanno impedito agli agricoltori del villaggio di Huwwara di lavorare i propri campi, costringendoli a tornare a casa”. Nel 2002, 4 agricoltori palestinesi, che lavoravano nel proprio uliveto, sono stati uccisi e molti altri sono rimasti feriti ad opera di coloni.

Nel suo ultimo rapporto, Amnesty International registra una serie di ulteriori attentati. Ad esempio “Dal 29 settembre 2002, i coloni di Tapuah hanno cominciato a recarsi sulle terre di Kafr Yasuf, un villaggio nel territorio di Nablus, per raccogliere olive appartenenti a Muhammad Mahmoud ‘Ubeid. Il 1° ottobre, hanno sferrato sassi contro i raccoglitori palestinesi e hanno picchiato Angie Zelter, una pacifista britannica dell’ISM (International Solidarity Movement) che accompagnava i palestinesi nei campi per proteggerli dalle aggressioni dei coloni. Malgrado le rimostranze presentate alla Forza di difesa e alla polizia israeliane, non si è avuto alcun intervento per fermare i coloni o per effettuare un’indagine seria sul pestaggio. Il 3 ottobre, i palestinesi sono tornati a raccogliere le olive, accompagnati da pacifisti israeliani e stranieri. Una squadra di soldati e poliziotti israeliani si trovava sulla collina accanto all’insediamento, quando un gruppo di coloni, alcuni con armi da fuoco, è giunto sul posto e si è diretto verso i palestinesi. Alla richiesta di un ufficiale dell’esercito israeliano di abbandonare l’area, i raccoglitori si sono spostati in un altro uliveto e hanno continuato la loro opera. A quel punto, è arrivato il comandante del distretto militare, e ha informato i contadini che l’area era stata dichiarata zona militare, ordinando così loro di andarsene immediatamente”.

Obbligo di garantire il diritto all’alimentazione

L’obbligo di garantire il diritto all’alimentazione implica anche l’obbligo di promuovere la capacità di alimentarsi e, in casi estremi, di fornire assistenza alimentare alle persone non in grado di alimentarsi per motivi di forza maggiore. In quanto potenza di occupazione, Israele ha la responsabilità di promuovere e garantire l’accesso alle risorse alimentari per la popolazione palestinese. Ha altresì l’obbligo di promuovere l’accesso a queste popolazioni da parte di organizzazioni imparziali per scopi umanitari, al fine di portare assistenza in caso di emergenza. L’obbligo di promuovere il diritto all’alimentazione viene violato dall’attuale strangolamento dell’economia palestinese e del settore agricolo, che limita la capacità da parte dei palestinesi di alimentarsi.

Obbligo di promuovere l’accesso per motivi umanitari

L’obbligo di promuovere l’accesso per motivi umanitari è anch’esso oggetto di frequenti violazioni da parte delle forze di occupazione militare. Benché siano stati riscontrati alcuni miglioramenti rispetto alla visita di Catherine Bertini, risalente all’agosto 2002, gli impegni presi con l’inviata ONU non sono ancora universalmente rispettati. Ad esempio, l’UNWRA ha documentato che, nel giugno 2003, le restrizioni impostele dall’esercito di occupazione in materia di libertà di movimento all’interno della Cisgiordania hanno raggiunto i massimi livelli dall’inizio dell’intifada. Sono stati calcolati 231 casi di ritardo eccessivo o divieto di passaggio ai checkpoint (186 ritardi, 41 accessi negati e 4 fermi a carico del personale). Ciò significa che molti camion dell’UNWRA sono stati costretti a ritornare alla base senza consegnare gli aiuti alimentari, non avendo ottenuto il permesso di passare. Nel dicembre 2002, l’esercito di occupazione ha fatto esplodere un magazzino utilizzato dal Programma alimentare mondiale (WFP), mandando in fumo 537 tonnellate di aiuti alimentari ampiamente finanziati dalla Commissione Europea. Dopo aver perquisito l’edificio per 2 ore alla ricerca di presunti combattenti, l’esercito di occupazione non ha infatti informato il WFP dell’intento di far esplodere l’edificio, impedendogli di mettere in salvo gli aiuti alimentari. Nell’aprile 2003, Gaza è stata sottoposta a blocco totale dal 16 al 27 e per questi 11 giorni l’accesso è stato negato sia al Programma alimentare mondiale sia all’UNWRA, in quanto non è stata proposta alcuna strada alternativa per il recapito degli aiuti umanitari.

Approvvigionamento dell'acqua

Uno degli impegni ottenuti dalla missione Bertini in relazione alle risorse idriche recita: “I problemi riguardanti la distribuzione dell’acqua alle città e ai villaggi palestinesi verrà affrontato in modo tale da garantire approvvigionamenti quotidiani di volume adeguato attraverso cisterne palestinesi”. Tuttavia, nel rapporto di monitoraggio mensile redatto dall’OCHA nel giugno 2003, si afferma che non è stata rimossa alcuna barriera strutturale per facilitare gli spostamenti delle cisterne in direzione di villaggi e città. Sono anzi state aggiunti ulteriori terrapieni di terra e cemento nei territori di Ramallah e Nablus, nonché a Balta. Ad Abu Nejeim, nella zona di Betlemme, l’esercito di occupazione ha inoltre tagliato la rete idrica scavando e distruggendo i tubi. Durante le incursioni militari, compresa quella avvenuta a Beit Hanoun in maggio-giugno 2003, l’esercito di occupazione non ha dato prova del benché minimo rispetto per le infrastrutture essenziali alla sopravvivenza dei civili, danneggiando gravemente la rete idraulica e fognaria.

La persistente inadempienza nel fornire risorse alimentari ed idriche adeguate ad una popolazione palestinese tenuta sotto prigionia e in stato di detenzione da parte del governo israeliano costituisce anch’essa una violazione dell’obbligo di garantire il diritto all’alimentazione. Oltre 5.000 palestinesi si trovano attualmente in stato di detenzione, senza alcun capo di imputazione ufficiale e senza un processo adeguato, in condizioni deplorevoli, senza cibo né acqua. L’organizzazione non governativa israeliana “Mandela Institute”, che controlla le condizioni delle carceri, ha presentato al Relatore Speciale informazioni dettagliate sul cibo servito – insufficiente, di scarsa qualità e non commestibile – nelle carceri di Hawara Camp, Qadumin, Kfar Atzen e Bet El. Secondo altre testimonianze, il digiuno forzato verrebbe utilizzato durante gli interrogatori oppure come punizione durante il periodo di detenzione. Nel corso della visita al carcere di Meggido, il Relatore Speciale ha avuto modo di riscontrare che i carcerati devono integrare le razioni alimentari, spesso insufficienti, acquistando cibo nello spaccio della prigione oppure contando sulle visite dei familiari: tuttavia, molte famiglie non possono presentarsi negli orari di visita a causa delle restrizioni imposte alla circolazione delle persone, mentre i carcerati in regime di isolamento non possono intrattenere contatti con le famiglie.

Jean Ziegler, (traduzione di Sabrina Fusari e Igor Giussani)
New York, 12 ottobre 2003
da "Liberazione"